Precedente capitolo:
Prosegue in:
Foto del blog:
Un manuale d’uso pratico…per aspiranti ‘Dottori’:
Alla regola che proibisce al ‘perfetto’ di mangiare da solo si univa
probabilmente uno speciale obbligo, quello di astenersi dal mangiare
in caso di arresto.
Questa è almeno la maniera di condursi all’inizio del XIV secolo.
La sentenza di Amiel di Perles, un compagno del notaio di Pietro
Autier, del 15 giugno 1309, ci dice che ‘dal momento della sua cattura
egli non volle più mangiare né bere, facendosi in qualche modo l’
assassino di se stesso’.
Belibasta, arrestato dalla spia dell’Inquisizione Arnaldo Sicre, si
comporta allo stesso modo, e Sicre racconta:
“Dal momento che detto eretico si mise in ‘endura’, temendo che morisse, gli
dissi che mi dispiaceva di averlo fatto catturare e che l’avrei fatto uscire di
prigione”.
Anche senza abiura, l’arresto comportava certe infrazioni alla regola,
almeno sul piano dell’alimentazione, e gli evasi erano sottoposti alla
riconsolazione e al digiuno, come fu il caso della giovane perfetta
Giovanna del Pas, la quale era potuta fuggire dal palazzo del
siniscalco del Conte a Tolosa, ed era ritornata alla macchia:
Il perfetto Raimondo du Mas (suo diacono) e il suo compagno la fecero
digiunare per tre giorni senza mangiare né bere. Passati i tre giorni, il
perfetto Pons di Sainte-Foy e il suo compagno arrivarono e la consolarono…
Dopo di che le ordinarono di digiunare a pane e acqua per una quaresima.
Quando fosse stato arrestato, il perfetto poteva difficilmente
dissimulare la sua qualità; non c’era neanche bisogno di ricorrere
al classico sacrificio di un pollo.
La regola di essere veritieri, anche in quei casi, era assoluta.
Il perfetto parlava, pur sapendo che lo aspettava il rogo.
I credenti d’altronde ne erano avvisati: se dei perfetti fossero
stati arrestati, non avrebbero mancato di fare il loro nome.
E’ chiaro che, se avesse rinnegato la sua fede, il perfetto non
avrebbe potuto fornire all’Inquisizione garanzia migliore
della propria sincerità che diventando suo collaboratore.
Ma anche in casi come questi può essere stato un accorgimento
tattico da parte della Chiesa catara.
Sotto il controllo della gerarchia, la denuncia poteva essere una
misura utile ad impedire l’ulteriore estendersi della repressione
in una situazione disperata.
Quando il diacono Raimondo Gros entra spontaneamente nel
convento dei Domenicani di Tolosa nel 1237 e fornisce l’elenco
dei credenti tolosani, questi ultimi si sottraggono in qualche
maniera all’interrogatorio in quanto si rimettono interamente
alle sue dichiarazioni.
Ora, ci sono due fatti da mettere in relazione: da un lato, l’elenco
degli abitanti di città condannati è assai limitato, almeno in
rapporto alla zona del Lauragais, e, dall’altro lato, Raimondo
Gros è morto restando di sentimenti catari.
Può parimenti esserci stato, da parte della Chiesa catara, un certo
intento di ostentazione, col manifestare la consistenza delle proprie
forze, oppure veniva adottata una politica della disperazione,
mirante a provocare, col far risaltare l’enormità dell’opera repressiva,
la stanchezza dell’Inquisizione, la compassione popolare, o …..
addirittura la rivolta.
Sembrerebbe essere stato questo il caso di Pietro Autier, il quale
avrebbe fornito a Bernardo Gui una quantità di rivelazioni verbali
o perfino scritte, senza che tuttavia abiurasse, mentre i suoi subalterni
si mettevano in ‘endura’.
Tale modo di comportarsi presentava un altro vantaggio: i credenti,
in quanto non dubitavano di stare per perdere la loro libertà e i loro
beni, avevano motivi urgenti per far evadere i perfetti arrestati.
All’epoca in cui c’era un’organizzazione di ‘resistenza’ dopo il trattato
del 1229, alle evasioni si provvedeva talvolta con la forza, ma il più
delle volte attraverso una consistente colletta presso la comunità,
che consentiva di comprare le guardie o i carcerieri.
I casi di evasione erano, in effetti, molto frequenti.