QUEL TRENO PER LHASA (2)

 quel treno per lhasa 2

  

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Nemmeno una settimana più tardi, gli animi si infiammarono 

ancora di più quando i funzionari cinesi annunciarono che la

persona designata come reincarnazione del leader religioso 

avrebbe dovuto essere approvata dal Consiglio di Stato. 

Il fatto che la Cina negasse il diritto tibetano di scegliere l’un-

dicesimo Panchen Lama fu interpretato non solo come un atto

di disprezzo nei confronti di un processo religioso sacro, ma

anche come rifiuto di ogni concessione di autonomia politica.

 

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Nelle settimane che seguirono, quasi ogni giorno Lhasa fu

teatro di disordini di piccola entità.

Il 5 marzo 1989, mentre si avvicinava l’anniversario della rivolta

tibetana del 1959, un piccolo gruppo di monache e monaci per-

corse il Barkhor reggendo una bandiera del Tibet disegnata a

mano.

Secondo testimoni oculari, cantavano: ‘Il Tibet è indipendente.

La nostra è una manifestazione pacifica. Per favore, non usare

la violenza’.

La protesta si allargò, subentrò il disordine e i militari cinesi

spararono tra la folla. Soprattutto in Tibet, la fiducia della Cina

era andata completamente sprecata. A Pechino, i partiti conser-

vatori dichiararono che lo spazio concesso dalle politiche libe-

rali degli anni 80 era stato il catalizzatore della resistenza tibe-

tana.

 

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Le misure disciplinari di Hu Jintao furono strettissime.

In tutto il Barkhor furono installate telecamere di sorveglianza

e Lhasa fu avvolta da un massimo stato di sicurezza. L’espansio-

ne e le attività dei monasteri furono fortemente limitate. Gli inizi

degli anni 90 furono piuttosto tranquilli, anche se punteggiati

da occasionali proteste che erano accolte con repressioni su pic-

cola scala per ricordare ai tibetani che i discorsi politici non sareb-

bero stati tollerati.

La politica di Hu fu definita ‘governo con due mani’: lo stato di

controllo fu strettamente mantenuto con la forza, in modo che

gli obiettivi di sviluppo economico e industrializzato potessero

essere portati avanti con vigore.

 

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Nel mirino della strategia di controllo cinese c’era la religione.

Hu Jintao riteneva che la diffusione della religione in Tibet fosse

del tutto inconciliabile con gli obiettivi delle ‘quattro moderni-

zazzioni’ che definivano la politica economica cinese: la religione,

come sostenevano lui e molti altri conservatori, coltivava il nazio-

nalismo.

I tibetani dovevano creare un mercato basato sui beni materiali,

non pregare i Buddha dorati o il Dalai Lama, la cui testimonianza

in tutto il mondo dava parecchio fastidio a Pechino.

 

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Gli antitodi, espressi all’inizio degli anni 90 attraverso un flusso

continuo di politiche, erano la privatizzazione e l’incorporazione

di popolazione che incoraggiavano la migrazione degli Han.

Le politiche economiche furono accompagnate da un’ulteriore

repressione culturale.

Nel 1995, il giovane Panchen Lama, che era stato designato all’ini-

zio di quell’anno dal Dalai Lama, fu preso in custodia dai cinesi:

secondo i tibetani fu rapito, secondo i cinesi fu isolato per garantire

la sua sicurezza e un’educazione protetta. 

 

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Da allora, il governo iniziò un periodo di intensa repressione del-

le pratiche religiose nei monasteri. Attraverso un processo di ‘rie-

ducazione’, i monaci dovettero studiare testi di propaganda cinesi

per poi essere interrogati a fondo e dimostrare la loro lealtà, e a

volte erano mantenuti in isolamento per molti giorni.

Il governo chiedeva che disconoscessero il Dalai Lama e giurasse-

ro la loro fedeltà al Partito cominista. Quelli che rifiutavano veni-

vano imprigionati, altri si suicidarono.

Il risultato fu che il sistema monastico, che aveva iniziato a ricom-

porsi negli anni 80, fu di nuovo travolto e i tibetani dovettero sot-

tomettersi ai cinesi un’altra volta.

(A. Lustgarten, Il grande treno)


 

 

 

 

 

 

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QUEL TRENO PER LHASA (2)ultima modifica: 2012-04-15T15:00:00+02:00da giuliano106
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