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Sin dai tempi più antichi vi sono stati popoli che, consapevoli della
propria cultura, hanno affermato la loro superiorità rispetto ai popoli
confinanti.
Furono i Greci a inventare il termine ‘barbaro’ per indicare qualunque
straniero – persino Egizi e Persiani – e i Romani furono non meno solleciti
ad adottare questo concetto. Come ha fatto notare W. R. Jones, ‘l’antitesi
fra civiltà e barbarie era uno stereotipo di grande utilità che poteva servire
sia alla propria glorificazione che a giustificare guerre d’aggressione’.
La definizione di barbarie con il passare dei secoli, talvolta concentrandosi
su differenze linguistiche e culturali, talvolta riducendosi quasi a
sinonimo di paganesimo; in ogni caso conservò alla radice un giudizio
di inferiorità morale.
Citando ancora Jones, ‘l’immagine del barbaro, indipendentemente dallo
specifico contesto storico e dal popolo a cui veniva applicato, era un’
invenzione dei popoli civilizzati che così esprimevano l’acuta consapevolezza
della propria superiorità culturale e morale’.
L’antico retaggio di questa mitologia proiettò la sua ombra anche sui
sociologi che nell’Ottocento tentarono di spiegare l’evoluzione sociale
con il passaggio, attraverso tre stadi: selvaggio, barbarico, civilizzato.
Uno dei pionieri fu l’avvocato ed etnologo americano Lewis Henry Morgan,
i cui studi sugli indiani Irochesi sono stati da più parti considerati gli
iniziatori delle scienze antropologiche negli Stati Uniti.
Incerto se simpatizzare per gli Indiani o se disprezzarne le condizioni
di vita, Morgan era disposto a riconoscere che essi non erano i selvaggi
descritti dagli stereotipi della mitologia popolare; al tempo stesso era
altrettanto convinto dell’inferiorità della loro cultura. Li collocò perciò
a uno stadio intermedio che definì di ‘barbarie’, termine spregiativo
precedentemente sinonimo di ‘condizione selvaggia’. Alla ricerca
di criteri empirici che potessero distinguere uno stadio dall’altro,
Morgan sottolineò l’alfabetizzazione interpretandola come l’innovazione
che aveva inaugurato lo stadio vero e proprio di civiltà.
Il livello più elevato nello sviluppo dell’uomo, egli scrisse, era
iniziato con l’alfabeto fonetico. Nonostante tutta la simpatia
dimostrata per gli Irochesi, trattati come buoni vicini, Morgan
non poteva sopprimere il proprio orgoglio etnocentrico. Il suo
maggiore studio teorico terminava con una chiara affermazione di
elitarismo razziale: ‘Dobbiamo considerare come un avvenimento
miracoloso il fatto che quasi cinquemila anni fa una parte dell’
umanità abbia raggiunto la civiltà. A rigor di termini, solo due
razze, la semitica e l’ariana, riuscirono in quell’impresa grazie a
un processo autonomo di evoluzione. Il ceppo ariano rappresenta
il principale protagonista del progresso umano, poiché ha prodotto
l’esempio più alto di civiltà e ha quindi dimostrato superiorità
conquistando progressivamente la Terra’.
Vi sono naturalmente moltissimi significati attribuiti al termine
‘civiltà’.
Nel suo significato mitologico esso denota una qualità assoluta
non ammette un plurale grammaticale. E’ opportuno distinguere
questo significato del termine, come quando paragoniamo la
civiltà greca con quella medievale, cinese o degli Indiani dell’
America nord-orientale. Nell’eccezione moderna del termine è
possibile riferirsi a diverse forme di civiltà, in modo da renderlo
intercambiabile con il concetto antropogico di ‘cultura’.
L’ambiguità tra uso assoluto e relativo del medesimo termine ha
creato grande confusione. In questa sede discuteremo l’uso assoluto
del termine ‘civiltà’.
La civiltà come valore assoluto è onnipresente nella storia e nella
letteratura americane.
Roy Harvey Pearce ha dimostrato come i nostri scrittori abbiano una
mitologia della struttura sociale in cui civiltà e assenza di civiltà sono
concetti complementari, definiti l’uno in opposizione all’altro, ma
singolarmente autonomi da qualsiasi necessario rapporto con la
realtà empirica. Pearce scoprì che questo mito bifronte aveva distorto
in tal misura la percezione della realtà da parte degli Americani da
generare in loro un senso di costante frustrazione nell’affrontare i
problemi sollevati dalla presenza degli Indiani.
‘Neppure la filantropia e l’umanitarismo funzionavano. Gli individui
a cui avrebbero dovuto rivolgersi non erano più in effetti Indiani, ma
una loro proiezione ideale che la coscienza dell’America civilizzata
aveva prodotto al solo scopo di farsene protettrice, allo stesso modo
in cui la ragione e l’immaginazione l’avevano precedentemente creata
solo per poterla distruggere.
La società civile aveva creato il selvaggio per poterlo sopprimere.
La ragione aveva dato forma ad una immagine per poterla a sua volta
uccidere.
Ora era necessario andare aldilà dell’immagine e dell’idea preconcetta
per poter arrivare all’uomo’.
(F. Jennings, L’invasione dell’America)