NATURA DEL CAOS (14)

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Sin dai tempi più antichi vi sono stati popoli che, consapevoli della

propria cultura, hanno affermato la loro superiorità rispetto ai popoli

confinanti.

Furono i Greci a inventare il termine ‘barbaro’ per indicare qualunque

straniero – persino Egizi e Persiani – e i Romani furono non meno solleciti

ad adottare questo concetto. Come ha fatto notare W. R. Jones, ‘l’antitesi

fra civiltà e barbarie era uno stereotipo di grande utilità che poteva servire

sia alla propria glorificazione che a giustificare guerre d’aggressione’.

La definizione di barbarie con il passare dei secoli, talvolta concentrandosi

su differenze linguistiche e culturali, talvolta riducendosi quasi a

sinonimo di paganesimo; in ogni caso conservò alla radice un giudizio

di inferiorità morale.

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Citando ancora Jones, ‘l’immagine del barbaro, indipendentemente dallo

specifico contesto storico e dal popolo a cui veniva applicato, era un’

invenzione dei popoli civilizzati che così esprimevano l’acuta consapevolezza

della propria superiorità culturale e morale’.

L’antico retaggio di questa mitologia proiettò la sua ombra anche sui

sociologi che nell’Ottocento tentarono di spiegare l’evoluzione sociale

con il passaggio, attraverso tre stadi: selvaggio, barbarico, civilizzato.

Uno dei pionieri fu l’avvocato ed etnologo americano Lewis Henry Morgan,

i cui studi sugli indiani Irochesi sono stati da più parti considerati gli

iniziatori delle scienze antropologiche negli Stati Uniti.

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Incerto se simpatizzare per gli Indiani o se disprezzarne le condizioni

di vita, Morgan era disposto a riconoscere che essi non erano i selvaggi

descritti dagli stereotipi della mitologia popolare; al tempo stesso era

altrettanto convinto dell’inferiorità della loro cultura. Li collocò perciò

a uno stadio intermedio che definì di ‘barbarie’, termine spregiativo

precedentemente sinonimo di ‘condizione selvaggia’. Alla ricerca

di criteri empirici che potessero distinguere uno stadio dall’altro,

Morgan sottolineò l’alfabetizzazione interpretandola come l’innovazione

che aveva inaugurato lo stadio vero e proprio di civiltà.

Il livello più elevato nello sviluppo dell’uomo, egli scrisse, era

iniziato con l’alfabeto fonetico. Nonostante tutta la simpatia

dimostrata per gli Irochesi, trattati come buoni vicini, Morgan

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non poteva sopprimere il proprio orgoglio etnocentrico. Il suo

maggiore studio teorico terminava con una chiara affermazione di

elitarismo razziale: ‘Dobbiamo considerare come un avvenimento

miracoloso il fatto che quasi cinquemila anni fa una parte dell’

umanità abbia raggiunto la civiltà. A rigor di termini, solo due

razze, la semitica e l’ariana, riuscirono in quell’impresa grazie a

un processo autonomo di evoluzione. Il ceppo ariano rappresenta

il principale protagonista del progresso umano, poiché ha prodotto

l’esempio più alto di civiltà e ha quindi dimostrato superiorità

conquistando progressivamente la Terra’.

Vi sono naturalmente moltissimi significati attribuiti al termine

‘civiltà’.

Nel suo significato mitologico esso denota una qualità assoluta

non ammette un plurale grammaticale. E’ opportuno distinguere

questo significato del termine, come quando paragoniamo la

civiltà greca con quella medievale, cinese o degli Indiani dell’

America nord-orientale. Nell’eccezione moderna del termine è

possibile riferirsi a diverse forme di civiltà, in modo da renderlo

intercambiabile con il concetto antropogico di ‘cultura’.

L’ambiguità tra uso assoluto e relativo del medesimo termine ha

creato grande confusione. In questa sede discuteremo l’uso assoluto

del termine ‘civiltà’.

La civiltà come valore assoluto è onnipresente nella storia e nella

letteratura americane.

Roy Harvey Pearce ha dimostrato come i nostri scrittori abbiano una

mitologia della struttura sociale in cui civiltà e assenza di civiltà sono

concetti complementari, definiti l’uno in opposizione all’altro, ma

singolarmente autonomi da qualsiasi necessario rapporto con la

realtà empirica. Pearce scoprì che questo mito bifronte aveva distorto

in tal misura la percezione della realtà da parte degli Americani da

generare in loro un senso di costante frustrazione nell’affrontare i

problemi sollevati dalla presenza degli Indiani.

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‘Neppure la filantropia e l’umanitarismo funzionavano. Gli individui

a cui avrebbero dovuto rivolgersi non erano più in effetti Indiani, ma

una loro proiezione ideale che la coscienza dell’America civilizzata

aveva prodotto al solo scopo di farsene protettrice, allo stesso modo

in cui la ragione e l’immaginazione l’avevano precedentemente creata

solo per poterla distruggere.

La società civile aveva creato il selvaggio per poterlo sopprimere.

La ragione aveva dato forma ad una immagine per poterla a sua volta

uccidere.

Ora era necessario andare aldilà dell’immagine e dell’idea preconcetta

per poter arrivare all’uomo’.

(F. Jennings, L’invasione dell’America)

 

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