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Dante avvicinò la sedia fiorentina allo scrittoio e vi sedette.
Una goccia di sudore gli scese lungo il profilo aquilino, sino alla punta
del naso, e cadde sul manoscritto a confondere un verbo che odorava di
Paradiso.
Subito, con religioso amore, asciugò la macchia e con il raschietto cancellò
anche l’ombra che restava. Quindi prese la penna e intinse la punta d’inchiostro,
con l’intenzione di ribadire la parola cancellata, ma poi rimase con la mano
sospesa in un dubbio:
– Se la goccia di sudore fosse segno che quel verbo non va bene?
In attesa dell’ispirazione, l’inchiostro seccava.
Questo alternarsi di penna, di raschietto o di pietra pomice aveva sempre
messo a dura prova la resistenza delle sue pergamene.
Nuove visioni e revisioni, ancora a cantica conclusa. Quell’estate poi certi
punti degli ultimi canti erano diventati così sottili che le pergamene non
avrebbero sopportato altri ripensamenti, pena il bucarsi. Soprattutto dal
giorno in cui, in ginocchio nel tempio della sua anima aveva sigillato la
Commedia scrivendo l’ultimo verso:
…l’amor che muove il sole e l’altre stelle.
E invece la notte seguente si era ritrovato a vegliare, a pregare, a tentare
ancora le pergamene. Insomma non si risolveva a rendere pubblici ben
tredici canti del Paradiso. E nemmeno i figli sapevano con certezza se
l’opera fosse conclusa.
Dante depose la penna e guardò fisso davanti a sé.
L’astrolabio di ottone rifletteva il suo volto: le cicatrici dei pensieri sulla
fronte, le rughe del pianto tra i sopraccigli, la bocca dalla piega sempre
più amara, gli occhi un po’ tristi che hanno le puerpere. Si vedeva più
vecchio dei suoi 56 anni. Come se un palinsesto dove l’antica scrittura
non sia stata completamente raschiata via e ancora sia visibile in contro-
luce, così Dante rileggeva sul proprio volto i sentimenti profondi e
nascosti del cammino di sua vita.
– La Commedia è finita?
Il dubbio mi oscilla tra un accento e una rima.
Per tutti i versi del poema, nella mente ne avrò scartati centomila…
O forse più, molti di più.
Qui dentro c’è uno sterminato cimitero di versi gettati alla rinfusa,
di aborti del pensiero, di parole non del tutto formate.
Metamorfosi per sempre incompiute.
Un cielo coperto di ragnatele. Miei poveri feti della poesia.
In quanti siete morti di crepacuore? Ma non potevo battezzarvi tutti con
l’inchiostro. Solo i migliori, gli eletti.
Quanti anni mi ci sono voluti per arrivare a questo punto!
I soli giorni perduti sono stati quelli che ho consumato senza ispirazione.
Perché ci sono giorni in cui scrissi forse una sola parola e mesi così sterili
che non mi venne nessun canto. A volte una notte intera non mi bastò per
una zoppicante terzina.
Allora mi sentivo come un granello di sabbia risucchiato verso il fondo della
clessidra.
Ma d’improvviso un colpo di penna!
Quasi incredulo, sentivo che l’ispirazione incominciava a sgorgare….
(Enzo Fontana, Tra la perduta gente)