I ROGHI DELLA STORIA (qualche anno dopo ‘l’Enigma’)

i roghi della storia

 

In riferimento a questa breve

parentesi o pagina storica..

leggi anche: rogo al campo rom…

http://www3.lastampa.it/torino/sezioni/cronaca/articolo/lstp/433896/

Precedente capitolo:

della-guerra.html

Prosegue in:

l-enigma-si-complica.html

Foto del blog:

i-roghi-della-storia.html

Libri, appunti, dialoghi, …da non bruciare:

imieilibri.myblog.it

 

i roghi della storia

 

 

 

Il 20 agosto 1942, Hitler nomina Otto Thierack, fervente nazista,

nuovo ministro della Giustizia e lo autorizza ‘ad odottare tutte

le misure necessarie alla creazione di una particolare forma di

giustizia detta appunto ‘Giustizia nazionalsocialista’, anche

uscendo dal quadro del diritto vigente’.

Tra i primi provvedimenti adottati da Thierack in ottemperan-

za al mandato ricevuto figurano norme più severe nei confron-

ti degli elementi asociali.

 

i roghi della storia

 

Secondo l’opinione di Thierack non aveva senso che i criminali

se ne stessero tranquilli in prigione mentre i tedeschi onesti ris-

chiavano la vita combattendo al fronte.

Il 14 settembre Thierack incontra Goebbels che gli prospetta l’

uccisione di ebrei, zingari e polacchi condannati a una pena de-

tentiva dai tre ai quattro anni, e di cechi e tedeschi condannati

a morte o all’ergastolo.

 

i roghi della storia

 

‘L’idea dello sterminio mediante il lavoro è la migliore.

Thierack si dice d’accordo con la proposta e la sottopone ad Himmler.

In un incontro avvenuto il 18 settembre, Thierack e Himmler concor-

dano sul fatto che certi ‘elementi attualmente carcerati siano consegna-

ti al Reichfuhrer-SS per essere sterminati mediante il lavoro’.

 

i roghi della storia

 

Rientrano in questo gruppo: tutti gli ebrei, gli zingari, i russi,

gli ucraini e i polacchi detenuti negli istituti di pena con con-

danne superiori ai tre anni; cechi e tedeschi condannati a oltre

otto anni.

Si concorda inoltre che, d’ora in avanti, le violazioni del codice

penale da parte di ebrei, polacchi, zingari, russi e ucraini resi-

denti nei territori orientali annessi al Reich non saranno più

giudicate da tribunali ordinari, bensì dall’apparato poliziesco

nominato e voluto dal popolo di cui Himmler è esecutore ma-

teriale; ovverosia verranno inviati in campo di concentramen-

to, dopo essere spogliati di beni e diritti.

 

i roghi della storia

 

Il 29 settembre a Berlino, Thierack prende la parola a una riu-

nione di pubblici ministeri sull’argomento e dichiara che circa

7600 carcerati ‘indegni di vivere in sommo grado’ verranno im-

piegati in lavori nei quali potranno trovare la morte.

D’ora in avanti, polacchi, ebrei, russi, ucraini e zingari non co-

stituiranno più un fardello per i tribunali tedeschi; verranno

presi in consegna dalla polizia (del popolo).  

In una lettera a Martin Bormann il 13 ottobre, Thierack solleci-

ta, tramite il capo della cancelleria del partito, l’approvazione

di Hitler al suo piano che illustra nei termini seguenti:

 

i roghi della storia

 

Nella prospettiva di liberare il popolo tedesco da polacchi, russi, ebrei

e zingari, e nella prospettiva di rendere i territori orientali incorporati

nel Reich disponibili per l’insediamento di popolazione germanica, in-

tendo trasferire l’azione giudiziaria contro polacchi, russi, ebrei e zin-

gari al Reichsfhurer-SS. Avanzo questa proposta basandomi sul prin-

cipio secondo cui l’apparato giudiziario può soltanto fornire un con-

tributo minimo all’estirpazione degli appartenenti a questi popoli.

Indubbiamente, la magistratura pronuncia sentenze severe contro

questi individui, ma ciò non è sufficiente a fornire un contributo ef-

fettivo e concreto alla realizzazione dell’intento summenzionato. 

Né è di alcuna utilità rinchiudere per anni questi individui in pri-

gione o penitenziari tedeschi, ancorché impiegandoli quale forza la-

voro per la produzione bellica come avviene oggi in ampia misura.

Sono peraltro convinto della possibilità di ottenere risultati assai

migliori consegnando tali individui alla polizia (del popolo), che

può adottare le misure necessarie senza le pastoie della prova giu-

diziaria.

 

i roghi della storia

 

Thierack fissava condizioni ben precise per l’inserimento di 

polacchi e russi in questo piano. 

D’altra parte, aggiungeva, ‘la polizia può perseguire esclusi-

vamente (per giudizio di popolo) ebrei e zingari indipenden-

temente da queste condizioni’. 

(G. Lewy, La persecuzione nazista degli zingari) 

 

 

 

i roghi della storia

  

L’ENIGMA DELLA GUERRA

l'enigma della guerra

 

Precedente capitolo:

not-now-john.html

Prosegue in:

della-guerra.html

Foto del blog:

l-enigma-della-guerra.html

Libri, appunti, dialoghi in:

imieilibri.myblog.it

 

l'enigma della guerra

 

 

Nei primi anni dopo la grande guerra, i crittoanalisti conti-

nuarono a sorvegliare le comunicazioni tedesche, ma nel

1926 cominciarono a intercettare messaggi di cui non ve-

nivano a capo.

Era arrivato ‘Enigma’, e col diffondersi del congegno l’effi-

cienza della Stanza 40 nel raccogliere informazioni calò bru-

scamente.

Anche americani e francesi si cimentarono coi crittogrammi

‘Enigma’, ma senza alcun risultato, e dopo qualche mese de-

sistettero. Le comunicazioni cifrate erano diventate le più si-

cure del mondo.

La rapidità con cui i crittoanalisti alleati si diedero per vinti è

in netto contrasto con la perseveranza dimostrata fino a qual-

che anno prima.

Di fronte al pericolo di una disfatta militare, essi erano pronti

a lavorare giorno e notte per volgere in chiaro un solo messag-

gio.

 

l'enigma della guerra

 

Si direbbe che il timore della catastrofe fosse la loro più impor-

tante fonte di energia, una delle basi dei loro successi.

In modo analogo, era stata l’ansia a galvanizzare i crittoanalisti

francesi alla fine dell’Ottocento, di fronte alla crescente potenza

della Germania.

Ma all’indomani della Grande guerra gli Alleati non temevano 

nessuno, per il momento, la potenza tedesca era solo un ricordo

e il predominio di America, Francia e Inghilterra era indiscusso.

Così, lo zelo crittoanalatico si spense e i decrittatori alleati dimi-

nuirono in numero e peggiorarono in qualità.

 

l'enigma della guerra

 

C’era però una nazione cui non era permesso rilassarsi.

Dopo Versailles, la Polonia aveva riconquistato l’indipendenza

ma temeva l’aggressività dei vicini. A est incombeva la Russia;

l’immenso Paese era ora governato dai comunisti, che sembra-

vano intenzionati a diffondere ovunque il sistema di vita insta-

urato nell’ex impero zarista.

A ovest, la Germania desiderava con tutte le forze recuperare i

territori che aveva dovuto cedere a Varsavia. 

Stretti da due potenziali avversari, i polacchi erano affamati di

informazioni riservate e si affrettarono a munirsi di un ufficio

cifre, il ‘Biuro Szyfròw’.

Se la necessità è la madre delle invenzioni, il timore del nemico

è probabilmente il padre della crittoanalisi. L’efficienza del ‘Biu-

ro Szyfròw’ è dimostrata dai suoi successi durante il conflitto 

russo-polacco del 1919-20. Nel solo agosto del 1920, quando i

sovietici raggiunsero i sobborghi di Varsavia, esso decifrò 400

messaggi.

 

l'enigma della guerra

 

Anche la sorveglianza delle comunicazioni tedesche fu assai 

efficace, finché nel 1926, furono captati i primi crittogrammi di

‘Enigma’.

La sezione tedesca del ‘Biuro Szyfròw’ era comandata dal capita-

no Maksymiliam Ciezki, grande patriota cresciuto nella città di

Szamotuty, una culla del nazionalismo polacco.

Egli aveva accesso a una versione commerciale di ‘Enigma’, che

gli aveva svelato i princìpi costruttivi dell’invenzione di Scher-

bius.

Purtroppo la versione commerciale era molto diversa da quella

militare per quanto riguardava i circuiti degli scambiatori. Non

conoscendo questo particolare, Ciezki non aveva alcuna possi-

bilità di decifrare i messaggi delle forze armate germaniche. 

Quella situazione di impotenza gli diventò così insopportabile,

che egli chiese aiuto a un chiaroveggente. Com’era da attender-

si, questi non fu in grado di fornire al ‘Biuro Szifròw’ il tipo di

illuminazione di cui aveva bisogno.

Fu invece un tedesco deluso, Hans-Thilo Scmidt, a far compa-

rire la prima crepa nel muro dei crittogrammi ‘Enigma’.

(prosegue…)

 

 

 

l'enigma della guerra

      

LE FERITE

 le ferite

 

Precedente capitolo:

delitto-contro-l-umanita.html

Prosegue in:

not-now-john.html

Foto del blog:

not-now-john.html

Ricordi, appunti, dialoghi…in:

imieilibri.myblog.it 

 

le ferite

 

 

 

Trova il bicchiere e beve avidamente.

Poi sospira e mormora:

Mio Dio, mio Dio.

Parla di Dio? Ma Dio è assente, in vacanza, come ha detto la donna

del ghetto. Tutti avevano bisogno di Lui, tutti cercavano disperata-

mente un segno della Sua onnnipotenza.

Ma per questo soldato morente e per i suoi simili non c’è Dio. Lo ha

sostituito il Fuhrer. E il fatto che le loro atrocità restino impunite li

rafforza nella credenza che Dio è un’invenzione, un’odiosa invenzio-

ne degli ebrei. 

L’impunità li assolve da ogni responsabilità e li rafforza nella barbarie.

Non si stancano mai di ‘dimostrarlo’. E ora quest’uomo morente 

invoca Dio?

Per noi è davvero assente, anche se noi non Lo abbiamo bandito, pro-

vocato, schernito, umiliato, sfruttato, …truffato.

Credenti e atei vengono massacrati dalla stessa diabolica macchina

di sterminio, anche i bambini, che non hanno potuto diventare dei

peccatori.

Perché Dio ha abbandonato anche i bambini?

Perché non aiuta il piccolo Eli, che per la fame deve rubare le briciole

agli uccelli?

 

le ferite

 

– Le battaglie in Crimea durarono settimane. 

Subimmo gravi perdite.

Dappertutto nascevano cimiteri militari. Ho sentito dire che

sono ben curati. Su ogni tomba crescono fiori. Nel giardino

di mio zio ce n’erano tanti. 

Me ne stavo per delle ore sdraiato nell’erba a osservare le

loro corolle.

 

le ferite

 

Lo sa già, dunque, che avrà un girasole quando sarà nella

tomba. L’assassino possiederà qualche cosa anche nella

morte.

E io?

 

le ferite

 

– Ci avvicinammo a Taganrog, dove i russi si erano trincerati.

Noi stavamo di fronte a loro, a un centinaio di metri, tra le

colline. La loro artiglieria sparava ininterrottamente. Noi sta-

vamo accoccolati nelle nostre trincee e cercavamo di scacciare

la paura passandoci borracce piene di acquavite.

Aspettavamo il segnale dell’attacco. 

Quando finalmente venne, strisciammo fuori dalle trincee e

ci gettammo contro il nemico.

 

le ferite

 

Ma improvvisamente mi fermai, come impietrito.

Qualcosa veniva verso di me.

Le mie mani che tenevano il fucile con la baionetta inastata, 

si misero a tremare.

E allora vidi con terribile chiarezza la famiglia in fiamme, il

padre col bambino in braccio e dietro la madre – e mi veniva-

no incontro.

No, non sparerò su di loro una seconda volta, mi balenò nel-

la mente….E in quel momento accanto a me esplose una grana-

ta e perdetti i sensi.

Quando mi risvegliai all’ospedale, seppi che avevo perduto

la vista. Il mio viso è straziato e anche il torace ha sofferto.

Ho ferite dappertutto.

Un’infermiera mi ha detto che il medico mi ha estratto dal cor-

po un vaso intero di schegge. E’ un miracolo che sia ancora 

vivo – e del resto sono già morto…

(S. Wiesenthal, Il girasole)

 

 

 

le ferite

   

IL SOLDATO MORENTE

il soldato morente

 

Precedente capitolo:

un-nuovo-giorno.html &

la-lettera.html

Prosegue in:

delitto-contro-l-umanita.html

Foto del blog:

un-nuovo-giorno.html &

la-lettera.html 

Scritti, appunti, memorie…dialoghi in:

imieilibri.myblog.it 

 

il soldato morente

 

 

– Io so,

dice il malato,

– che in ogni istante muoiono migliaia di uomini. La morte

oggi è dappertutto, non è né rara né insolita. Mi sono rasse-

gnato all’idea di morire presto.

Ma prima vorrei ancora parlare di qualcosa che mi tormenta.

Altrimenti non posso morire in pace.

Respira con affanno.

Ho la sensazione inquietante che mi fissi tra le bende.

Forse vede attraverso le macchie giallastre. E’ vero che non

sono all’altezza degli occhi, eppure mi sento osservato.

Non riesco a staccare lo sguardo.

– Ho saputo da una delle infermiere che nel cortile lavorano

dei prigionieri ebrei. Poco fa mi ha portato una lettera di mia

madre… me l’ha letta….poi se ne è andata di nuovo.

Sono qui da tre mesi. Allora ho deciso… ci pensavo già da

molto…

Quando l’infermiera è tornata, le ho chiesto di aiutarmi.

Appena poteva doveva pregare un prigioniero ebreo di veni-

re da me. Ma senza che nessuno se ne accorgesse.

L’infermiera non sa perché le ho chiesto una cosa così strana.

Non mi ha risposto niente e se ne è andata.

Avevo già perso la speranza che volesse correre questo ris-

chio per me. Ma poco fa è tornata, si è chinata sul mio pet-

to e mi ha sussurrato che fuori c’era un ebreo.

Me lo ha detto come se esaudisse l’ultimo desiderio di un

morente. Lei conosce le mie condizioni.

Sono nella camera dei gravissimi, lo so. 

I casi disperati preferiscono lasciarli finire da soli, forse per

non disturbare gli altri.

Chie è quest’uomo a cui siedo accanto?

Che ha da dirmi di così importante?

Forse è un ebreo che si fa passare per tedesco, e ora, prima di morire,

vuole vedere uno dei suoi.

Perché non ha più nulla da temere.

Nel ghetto, e più tardi anche nel lager, raccontavano che in Germania

c’erano perfettamente ‘ariani’ all’aspetto che riuscivano a penetrare

nell’esercito con documenti falsi, e qualcuno si era perfino inflilrato

nelle SS. 

Volevano sopravvivere.

Forse il morente era uno di questi?

O un mezzo ebreo, nato da un matrimonio misto?

Si è mosso un poco, biascica qualche parola..a stento…;

l’altra mano era posata su una lettera che ora scivola per terra.

Mi chino e la rimetto sulla coperta.

Non ho toccato la sua mano, e lui non può aver visto il mio mo-

vimento: eppure ha una reazione.

– Grazie, è la lettera di mia madre. 

Le parole escono piano dalle sue labbra.

Ho di nuovo la sensazione che mi stia fissando.

La sua mano cerca a tentoni la lettera, ora guarda qualcosa. 

Poi la tira più vicino, come se nel contatto con la carta volesse

ritrovare un po’ di forza e di coraggio.

Non posso fare a meno di pensare a mia madre: lei non mi scrive-

rà mai più lettere. E’ stata portata via dal ghetto cinque settimane

fa, durante un’operazione di rastrellamento. L’unica cosa che c’era

rimasta di molti saccheggi era un orologio d’oro. Lo aveva passato

di nascosto a mia madre, perché tentasse di comprarsi la libertà

quando fossero venuti a prenderla. Una vicina, che aveva un per-

messo valido, mi raccontò più tardi la storia di quell’orologio.

Mia madre lo aveva dato al poliziotto ucraino che doveva portarla

via. E lui prima se ne andò, ma dopo pochi minuti tornò indietro

e condusse via mia madre. Nel cortile lei attese insieme con altri

l’arrivo di un autocarro. E fu portata via, dove non si scrivono

più lettere…

Il tempo sembra fermo.

– Mi chiamo Karl… Mi sono arruolato volontario nelle SS.

Certo la parola SS…

Si ferma.

Forse ha la gola asciutta.

Cerca convulsamente di inghiottire.

Non credo più che sia un ebreo, o un mezzo ebreo, mimetizzato 

sotto una divisa tedesca. 

Come ho potuto pensarlo?

Ma in questi tempi succedono tante cose.

– Devo raccontarle una cosa orribile… disumana. 

E’ accaduta un anno fa, ma è già passato un anno?

Le ultime parole le dice più a se stesso che a me.

– Sì, è passato un anno,

continua.

– Un anno dal delitto che… ho commesso.

Devo assolutamente parlarne con qualcuno, forse mi

farà bene.

La sua mano afferra la mia. Le dita si aggrappano più forte quando

io, alla parola delitto, quasi inconsciamente cerco di ritirare la mano.

Dove prende la forza?

O sono io così debole, che non riesco a svincolarmi?

Devo dire a lei questa cosa orribile, a lei perché….è ebreo.

C’è dunque qualcosa di orribile che io ancora non conosco?

Tutte le atrocità e gli orrori che un cervello malato può inventare,

mi sono ben noti. Li ho provati sulla mia pelle, li ho visti nel lager.

Il racconto di questo malato non potrà essere più orribile di quello

che i compagni si sussurravano la notte nel lager rabbrividendo.

La sua storia non mi interessa.

Spero soltanto che l’infermiera abbia pensato di dire a un ascaro

dove sono. Forse mi stanno già cercando, credono che sia fuggito…

Sono molto preoccupato.

Sento delle voci, fuori, ma riconosco quella dell’infermiera, e mi

tranquillizzo.

– Non mi sono reso subito conto della colpa che avevo com-

messo.

Il mio sguardo è fisso alla sua testa bendata.

Non so ancora quale delitto mi voglia confessare, ma so che quando

sarà morto sulla sua tomba crescerà un girasole. Lo vedo chiaramen-

te, vedo già il fiore che si volge verso la finestra, la finestra attraverso

cui il sole manda il suo raggio in questa camera di morte.

(S. Wiesenthal, Il girasole)

 

 

 

il soldato morente

 

LA LETTERA

la lettera

 

 

Precedente capitolo:

il-giorno.html

Prosegue in:

un-nuovo-giorno.html

Foto del blog:

la-lettera.html

 

 

 

 

Eravamo seduti sui tavolacci, nella nostra baracca soffocante.

Parlai della nostra marcia attraverso la città e dei girasoli.

– Nessuno di voi li ha mai visti?

chiesi.

– Certo che li avevo visti,

fece Josek.

– Che cos’hanno di così strano?

Non volli spiegargli la profonda impressione che mi avevano

fatto i girasoli.

Non dissi che per amore di quei fiori invidiavo i tedeschi, e

che mi aveva preso un violento infantile desiderio di avere

anch’io un girasole…dei fiori.

Arthur intervenne:

– Sì, è tutta esteriorità. I tedeschi sono dei grandi romantici.

Ma a quelli che marciscono là sottoterra non serve più niente.

I girasoli marciranno come loro, l’anno venturo non ne resterà

più traccia a meno che non ne piantino di nuovi. Ma chi può

dire cosa succederà l’anno venturo?

Continuai il mio racconto.

Parlai dell’infermiera che era venuta a prendermi per condurmi

nell’ex segreteria di architettura. E raccontai della SS morente

al cui capezzale ero rimasto per ore, e della sua confessione.

Il bambino che in braccio a suo padre era saltato incontro alla

morte, lo chiamai col nome di Eli.

– Allora la SS sapeva come si chiamava il bambino?

chiese uno.

– No, sono io che gli ho dato quel nome, perché mi ricordava

un ragazzino del ghetto di Leopoli.

…Raccontai e raccontai (pagine e pagine…ricordi, libri…), e …

quando mi fermai un attimo a riordinare i miei pensieri, tutti

mi incalzarono a continuare.

Come mai non mi canzonavano?

E non mi trattarono male?

Eppure dovevano sentirsi chiamati direttamente in causa dalla

mia storia.

Quando dissi alla fine che il morente aveva chiesto a me il per-

dono del suo delitto, e io me ne ero andato senza una parola,

notai sul viso di Josek un lieve sorriso…

 

la lettera

 

 

Egregio signore,

 

 nel giugno del 1942, a Leopoli, in circostanze insolite, una giovane SS

che stava per morire mi confessò i suoi delitti. Voleva morire in pace,

mi disse, dopo aver ottenuto il perdono da un ebreo. Ritenni di dover-

glielo rifiutare.

Ne discussi poi a lungo con i miei compagni di deportazione, e, finita

la guerra, andai a trovare la madre del giovane nazista, ma non trovai

il coraggio di rivelarle la verità su suo figlio.

Questa vicenda continuava a tormentarmi.

Così decisi di fissarla per iscritto, e alla fine del mio racconto rivolgo

la domanda che ancora oggi merita una risposta, per il suo significato

politico, filosofico e religioso: ho avuto ragione o torto negando il perdo-

no? E ho voluto rivolgerla direttamente ad alcune persone importanti

di diverse nazionalità, persone al cui parere tengo in modo particolare.

      

                                                                          Simon Wiesenthal 

 

la lettera

  

                                              SVEN ALKALAJ

 

Primo ambasciatore della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina negli USA.

 

La lettura degli avvenimenti descritti nel Girasole ha suscitato in

me grande interesse e commozione.

In qualità di bosniaco ed ebreo, posso affermare che mi trovo ad

affrontare lo stesso problema e lo stesso dilemma che ci propone

il Girasole.

Dopo la seconda guerra mondiale e il processo di Norimberga

pensavamo che non si sarebbe mai più ripetuto quanto era acca-

duto agli ebrei d’Europa.

‘Mai più’.

 

la lettera

 

Invece è accaduto di nuovo e proprio nel cuore dell’Europa.

Gli avvenimenti che hanno scosso la Bosnia e l’Erzegovina

negli scorsi tre anni e mezzo hanno qualche analogia con l’

Olocausto e possono servire da guida per cercare una rispos-

ta al problema del perdono.

Non voglio in alcun modo paragonare il genocidio in Bosnia

ed Erzegovina con l’Olocausto, né asserire che siano identici.

Voglio tuttavia affermare che esistono evidenti analogie nella

valutazione del valore della vita umana.

 

la lettera

 

A Sarajevo eravamo costretti a vivere come topi, alla ricerca

frenetica di cibo. L’unico accesso al mondo esterno era una

galleria fangosa e buia, di un metro e sessanta per un metro

e ottanta. Perfino il nostro presidente dovette adattarsi all’

insidia mortale di quel percorso.

Vivevamo nel terrore di non vedere l’indomani, ben consa-

pevoli che avremmo potuto essere le prossime vittime del-

la campagna di ‘indiscriminati’ cannoneggiamenti meglio

organizzata della storia.

Abbiamo assistito al massacro di Srebrenica, nel quale sono

stati uccisi 8000 innocenti, nonostante fossero protetti dalle

Nazione Unite.

In Bosnia Erzegovina abbiamo visto perire intere famiglie –

bambini deliberatamente uccisi, torturati e violentati – e ab-

biamo visto lo stupro diventare arma di guerra.

Nella sola Sarajevo sono state uccise più di 10.000 persone,

tra cui 1.700 bambini, e in tutto il paese più di 200.000.

 

la lettera

 

Ora riposano disseminati in tutta la città: troviamo le loro

tombe in quelli che erano i giardini, nei parchi, nei cortili.

Questa generazione bosniaca, e quella dei sopravvissuti

all’Olocausto, sono forse le uniche ad avere il diritto di

dare una risposta al problema del perdono: parafrasando

le parole di un compagno di Simon dirò:

nessuno che non abbia materialmente vissuto quello che

abbiamo vissuto noi, sarà mai in grado di capire del tutto. 

Anche se questo può sembrare poco attinente al tema del

perdono, posso assicurare che non è così.

Simon forse non era sicuro se fosse giusta la sua risposta

alla SS morente, ma una cosa invece era certa: non avrebbe

mai potuto dimenticare i delitti commessi.

Possiamo perdonare assassini ancora in vita?

 

la lettera

 

Il problema si può porre anche in questi termini: quanto,

quanto velocemente, con quanta facilità può un singolo

perdonare un massacratore e un aguzzino?

Chi ha diritto di parlare a nome delle vittime?

E si deve dimenticare, prima di perdonare?

Posso io perdonare un cecchino nazionalista serbo, che

con il fiato pesante di alcol piazzava granate in mezzo

alla gente in coda per il pane o per l’acqua?

Oppure un delinquente che, tra un sorso di alcol e una

sigaretta aspettava o forse ancora aspetta, di inquadrare

nel mirino un padre, un fratello, una sorella, o una figlia,

…un innocente comunque sia?

In questo contesto, la risposta per quel cecchino è no! 

(S. Wiesenthal, Il Girasole)

 

 

 

la lettera

     

OPERAZIONE ODESSA (chi aiutò Mengele e Eichmann…?)

 operazione odessa

 

Precedente capitolo:

l-ideale-di-bellezza.html

Prosegue in:

sentieri-di-morte.html

Foto del blog:

operazione-odessa.html 

 

operazione odessa

 

 

 

 

 

Il 17 gennaio 1945 Mengele raccolse le note della sua sperimenta-

zione sui gemelli (in appunti, diari …e disegni), zoppi e nani nel

campo di sterminio di Auschwitz, caricò le carte e i campioni di

sangue su un’auto e iniziò la sua lunga fuga dalla giustizia.

Si lasciò alle spalle gli innumerevoli atti di crudeltà criminale

che gli avrebbero conferito uno status senza uguali tra gli assas-

sini nazisti.

 

operazione odessa

 

Chiamato a dirigere il campo femminile della vicina Birkenau

allorché giunse nel complesso di Auscwitz dal fronte russo nel

1943, Mengele aveva risolto i problemi di scarsità di cibo o di

epidemie di tifo mandando a morte fino a 4000 donne al giorno.

Smessa l’uniforme da SS, Mengele vestì i panni di un normale

medico dell’esercito tedesco e si unì a un’unità militare in riti-

rata.

Affidò i suoi appunti a un’infermiera con cui aveva allacciato

una relazione. Allorché l’unità fuggì incalzata dalle truppe so-

vietiche, il nome di Mengele iniziò a spuntare come uno dei

criminali di guerra nazisti più ricercati.

 

operazione odessa

 

Il suo primo ingresso documentato nell’elenco degli alleati fu

nell’aprile 1945. A maggio la Commissione crimini di guerra

delle Nazioni Unite lo ricercava per ‘omicidio di massa e altri

crimini’.

I rapporti sulle atrocità da lui perpetrate iniziarono a essere

trasmessi alla radio alleata. 

A giugno la sua unità fu catturata dalle truppe americane nella

cittadina tedesca di Weiden. Anche l’infermiera che conserva i

suoi preziosi appunti venne arrestata ma subito rilasciata.

Mengele fece in modo che fosse protetta e promossa di grado.

Benché fosse registrato nel campo di detenzione con il suo vero

nome, gli americani non si resero conto che Mengele era un

criminale di guerra ricercato, o finanche che era un ufficiale

della SS, semplicemente perché a differenza degli altri ufficiali,

allorché era entrato nelle SS nel 1938 si era rifiutato di farsi

controllare o tatuare sul braccio il proprio gruppo sanguigno.

Questo non significa che non fosse ricercato: l’11 giugno 1945

tre poliziotti militari americani si erano presentati alla porta

di casa della moglie Irene ad Autenreid chiedendo dove fosse

il marito.

 

operazione odessa

 

A settembre Mengele fu rilasciato dall’esercito americano nel-

la sua natia Baviera. Mentre si trovava nel campo di prigionia

aveva ottenuto un documento di rilascio alleato redatto a nome

di un altro medico, Fritz Ulman, che egli alterò in modo che

si leggesse Fritz Hollmann.

Con questo documento in tasca si recò nella zona tedesca occu-

pata dalla Russia, trovò l’infermiera alla quale aveva affidato

gli appunti e i campioni e quindi si ritirò a Monaco, lasciando

una cospicua rendita per l’aiuto offerto, e si nascose a casa 

di amici.

 

operazione odessa

 

Nell’ottobre 1945 Mengele aveva già trovato impiego presso

una piccola fattoria a Mangolding, in Baviera. Lì visse indis-

turbato da allevatore per tre anni, mentre la stampa pubblicava

rapporti sui suoi orrendi crimini e il suo nome saltò fuori ai

processi di Norimberga (accusato di strage e genocidio).

Ma sebbene fosse riuscito a sfuggire al braccio della legge, nel-

la mente di Mengele prese a svolgersi un lungo, infinito proces-

so.

Verso aprile 1948 Mengele iniziò a organizzare la propria fuga

in Argentina. Al pari di altri criminali di guerra, i suoi docu-

menti di viaggio furono preparati con estrema cura, Mengele

si trovava in mano a dei veri professionisti: anziché acquisire

un nome fasullo o un documento falso, il medico di Auschwitz

cambiò completamente identità.

 

operazione odessa

 

Il sistema impiegato consistette nel trasferirlo in Italia setten-

trionale camuffato da altotesino di lingua tedesca. Cosa interes-

sante, il vescovo Alois Hudal a Roma aveva sollevato la ques-

tione degli ufficiali delle SS incriminati in Italia settentrionale

con il cardinal Montini, che guardava il loro caso con simpatia.

Nel periodo post-bellico Hudal tenne una fitta corrispondenza

con questi uomini, organizzando il trasferimento in Argentina

per molti di essi. 

I servizi segreti americani sapevano che i ‘tedeschi nazisti’ incri-

minati stavano attraversando il confine con l’Italia. Un rapporto

del 1947 sosteneva che viaggiassero ‘via Treviso e Milano al

solo scopo di ottenere dei documenti d’identità falsi…e rientra-

re legalmente nelle zone di occupazione britannica, francese o

americana’. 

Mengele superò se stesso, divenne anche giudice in una contro-

versia, nella quale pensò risolvere talune questioni di carattere 

medico-legale.

Proprio questo, comunque, fu il metodo impiegato da Mengele

ed Eichmann per procurarsi documenti falsi per il successivo

passaggio in Argentina.

 

operazione odessa

 

Tra aprile e giugno 1948 i due criminali SS ricevettero un docu-

mento di identificazione dal comune di Termento. Attraverso la

carta d’identità numero 114, Mengele divenne Helmut Gregor,

mentre la carta numero 131 trosformò Eichmann in Riccardo

Klement.

(U. Goni, Operazione Odessa)

 

 

 

operazione odessa

      

CIFRE NUMERI STATISTICHE

Precedente capitolo:

il-risveglio-2.html

Prosegue in:

il-risveglio-3.html 

Foto del blog:

cifre-numeri-statistiche.html

 

05276.jpg

 

 

Anna Hanas caricata, con un primo gruppo di 644 polacchi

‘non desiderabili’, sul treno che partì da Zamosc il 10 dicembre

1942, alle ore 16, e arrivò ‘puntuale’ al campo il 12 dicembre,

alle ore 23.

Dal punto di vista tedesco il trasporto si svolse in condizioni

soddisfacenti. ‘Soltanto’ tre detenuti dovettero essere fucilati

durante il tragitto per un tentativo di fuga.

 

17_Uplatz2_383.JPG

 

Undici riuscirono a fuggire passando attraverso le assi del

vagone. Contrariamente all’uso, gli ‘evacuati’ non furono re-

gistrati nominalmente al loro arrivo al campo.

Lì l’Hauptsturmfuhrer della SS Haumeier, attento ad applicare

con rigore i criteri di classificazione prescritti dall’EWZ, si

preoccupò della presenza di ‘casi II’, vale a dire di quasi tedes-

chi sotto il profilo razziale, ed esigette un loro riesame.

D’altra parte, cercando di incrementare il rendimento medio del

lavoro dei detenuti, Haumeier auspicava vivamente che ‘i mino-

rati, gli idioti, gli storpi e le persone malate fossero allontanati

il più rapidamente possibile, tramite liquidazione, al fine di 

allegerire il campo’.

 

1229773686.jpg

 

Ma l’Hauptsturmfuhrer della SS, puntiglioso deve riconoscere

che: ‘Questa misura si scontra con un mare di difficoltà, giacché

in base a direttive del RSHA, i polacchi, contrariamente al prov-

vedimento applicato agli ebrei, devono morire di morte naturale.

Da quanto detto, bisognerebbe forse trarre la conclusione che 

la famiglia Hanas ha, tutto sommato, beneficiato di un ‘trattamento

di favore’?

Parliamo piuttosto del trattamento ordinario: l’uccisione col gas

degli sfollati costituisce un procedimento eccezionale, mentre

molti di loro muoiono per sfinimento dovuto ai lavori forzati.

Tendono a sopravvivere solo i più giovani, che sono riusciti a

eludere la sventura di contrariare in una qualche occasione i

propri carcerieri.

Per evitare le situazioni imbarazzanti, la direzione del campo

chiede che le vengano ormai inviati soltanto espulsi in condi-

zioni fisiche di lavorare; per gli internati, ciò equivale, secondo

le previsioni della SS, a una speranza di vita di circa sei mesi.

 

17_Uplatz_549.JPG


Il destino ultimo di ognuno risponde alla perequazione del

suo statuto razziale, della sua età e della sua capacità di lavoro.

Tale ‘giudizio finale’ è riassunto in una sigla di due iniziali,

segnata sulla carta di registrazione conservata nello schedario

di Zamosc, un duplicato della quale è depositato anche presso

lo schedario centrale di Litzmannstadt.

La stessa sigla si trova anche sulla carta di identità degli inte-

ressati:

– WE: idoneo a essere germanizzato, sia nel Reich sia in una

colonia tedesca dell’est;

– RD: reclusione in un ‘villaggio di pensionati’ nel Governatorato

generale;

– KI: operazione bambini, sottrazione del minore al genitore e

sua adozione da parte di una famiglia tedesca residente nel

vecchio Reich;

– AG: assegnazione come lavoratore nel Governatorato generale;

– KL: internamento a Birkenau.

Questa classificazione, elaborata dai funzionari dell’UWZ, ven-

ne applicata alla lettera durante la prima grande operazione di

espulsione, avviata il 27 novembre 1942.

 

bigtele.jpg

 

In ventuno giorni sono state espulse da 60 villaggi complessivamente

9771 persone.

Sono rimaste sul luogo, come lavoratori agricoli o operai specializzati

2716 persone.

Le 7055 persone trasferite al campo di Zamosc sono state filtrate e accor-

pate ai seguenti gruppi di valutazione:

– gruppo II, (da rigermanizzare): 314 persone ossia il 4,4%;

– gruppo III (importanti solo al riguardo della loro capacità di lavoro):

5147 persone ossia il 73%;

– gruppo IV (previste per il campo di lavoro di Auschwitz): 1594 persone

ossia il 22,6%.

Le persone del gruppo III come anche i bambini fino ai 14 anni e i 

vecchi di più di 60 anni del gruppo IV, i quali devono essere detenuti

internati nei cosiddetti villaggi di pensionati, sono state ripartite come

segue:

– AA: 1751;

– R: 1436;

– KI: 1838;

– AG: 806.

Del gruppo di valutazione IV, tolti i vecchi e i bambini, 910 persone 

sono previste per il campo di lavoro di Auschwitz.

Con quattro trasporti, sono state mandate a lavorare a Berlino 1310 

persone, con tre trasporti, 2207 persone nei villaggi di pensionati, con

due trasporti, 285 persone in rigermanizzazione, con un trasporto, 644

sono state portate al campo di lavoro di Auschwitz.

La popolazione restante e le perdite dovute a decesso, fuga ecc. ammon-

tano a 2609 persone. 

(Conte/Essner, Culti di sangue)    

 

 

Three elderly Jews walk arm-in-arm through the streets of Krakow during the final liquidation action of the ghetto.jpg