CON UNA VECCHIA LEICA

 con una vecchia leica

 

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con una vecchia leica

 

 

 

 

 

Non è sempre facile sapere cosa può far felice una persona.

Spesso non conosciamo abbastanza i nostri amici e conoscenti

per saperli far felice e spesso, anche se lo sapessimo, non ne 

siamo capaci o non lo vogliamo.

Non credo che il mio conoscente Osvaldo, rinomato collezio-

nista e commerciante di macchine fotografiche, sapesse della

mia passione per i viaggi polari, per le spedizioni che aveva-

no affascinato i nostri nonni ad inizio secolo e che avevano

preso anche me, ormai da qualche decennio.

Mi aveva iniziato a questo tema un vecchio filatelico, mercan-

te e creatore di quella che filatelicamente è stata la famosa Ba-

se Atlantica di Bordox. Aveva conosciuto Parigi durante l’ulti-

ma guerra Umberto Nobile e ne era rimasto affascinato.

Per una strana coincidenza si chiama anche lui Osvaldo ed era

stato fotografo militare.

Ogni tanto l’Osvaldo, collezionista di macchine fotografiche, mi

telefonava per informarmi delle Leica trovate in qualche angolo

di mondo o presso qualche collezionista o commerciante italiano

o straniero.

Ci accomunava la conoscenza, la passione per Leica, soprattut-

to a vite.

 

con una vecchia leica

 

Poi un giorno ecco la notizia.

Un noto collezionista si stava disfacendo di diverse Leica: una

in dotazione ad un dirigibile tedesco Zeppelin, una con una par-

ticolarità piuttosto rara, una con un obiettivo speciale, una con

qualche strana modifica, ma soprattutto una in dotazione alla 

spedizione scientifica scandinava comandata dall’esploratore

Rasmussen.

Che fosse appartenuta all’esploratore Rasmussen mi sembrava

possibile ma difficilmente documentabile. Chiesi di poterla ve-

dere e studiare per qualche giorno. 

All’interno del fondello della Leica c’era effettivamente l’iscrizio-

ne ‘Kongsbak & Cohn Kobenhavn’, il nominativo dell’importato-

re di Copenaghen.

Ma da qui dedurne tutto il resto ne correva.

Espressi questa mia incertezza all’amico e da questi dopo qual-

che ora ebbi la risposta che da qualche parte c’era anche una let-

tera della Leica. 

Il collezionista inoltre diceva di aver trovato nella macchina foto-

grafica una pellicola vecchia, che l’aveva fatta sviluppare e stam-

pare, che quindi c’erano anche delle foto che avrebbe cercato di

ritrovare.

Dopo circa un’ora ecco la conferma. Era stato rintracciato il tutto

e mi sarebbe stato spedito per espresso.

(prosegue)

 

 

 

 

con una vecchia leica

        

ALLORA IN UN LONTANO MARE TI VOGLIO PORTARE

 allora in un lontano mare ti voglio portare

 

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allora in un lontano mare ti voglio portare

 

 

 

 

 

I nomi, i luoghi e le persone hanno spesso un destino che li

accomuna.

Ognuno di noi è attratto nei luoghi che devono divenire il

teatro ove il destino stesso vede recitare i suoi attori.

Esiste un luogo, apparentemente fuori dallo spazio e fuori

dal tempo, un luogo deputato a sede dell’irripetibile.

Si chiama Dyrolhey. 

Sono gli archi delle porte di un’isola che diviene terraferma:

infido approdo e guardiano di una laguna paradiso dei sen-

za nido dominati dall’istinto territoriale. 

 

allora in un lontano mare ti voglio portare

 

Dopo essere stato un’isola Dyrolhey è ora un promontorio che

si affaccia alto sul mare, sovrastato dalla bianca torre di un faro.

E’ un luogo di pace interiore dove un giorno, stanca di vita in

Europa, dei limiti orizzontali che costringono il suo sguardo,

Aivlis Aleunam, posseduta ed attratta dall’infinita totalità di

quell’orizzonte decise di trasferirsi a vivere.

Vivere nel faro.

E’ stata giudicata strana la scelta di Aivlis, una scelta ardita,

incompresa. Fino a trasformarla quasi in un’attrazione turisti-

ca. Molti avevano saputo che quella ragazza dai lunghi capel-

li viveva racchiusa nel faro in compagnia del vento e dei suoi

innumerevoli libri che a fatica erano stati portati lassù al suo

arrivo.

E tutti chiedevano, ma come fa a vivere senza telivisione, sen-

za telefono, non vuole sapere cosa succede nel mondo?

Ma qualcun’altro sapeva.

 

allora in un lontano mare ti voglio portare

 

Infatti Aivlis, quasi di nascosto, con grande pudore, avvicina-

va i suoi messaggeri che di tanto in tanto rifornivano anche i

suoi frugali pasti: gli autisti che accompagnavano i gitanti che

periodicamente e senza regolarità, salivano al faro. Ed erano

solo loro a dialogare con gli occhi di Aivlis che è vero, non si

allineavano più davanti al telivisore, ma erano ormai abituati

a vedere oltre, come aveva loro insegnato l’orizzonte che sem-

pre più lontano chiudeva quella linea bianca di spuma di ma-

re.

Di quell’oceano grigio che trasformato in schiuma bianca si

infrange, si trascina e si ritrae sui sandur nell’unico legame fra

l’infinito e Dyrolhey. 

Anche gli uccelli portano messaggi ad Aivlis.

Tornano tutti gli anni per spiegarle che la vita continua ed oc-

corre deporre le uova. Si schiuderanno nelle notti chiare d’esta-

te. E proprio Aivlis diviene parte di Dyrolhey. Lontano il suo

nome è solo mormorato quasi nel timore lei possa sentire. 

Ma gli uccelli lo urlano con quel loro grido stridente e rapido….

Aivlis, Aivlis, Aivlis. 

Ad ogni battito d’ali è una festa.

  

allora in un lontano mare ti voglio portare

 

Loro sanno che a lei piacciono le feste. E lei esiste.

Quando c’è il vento, invece, lasciano che sia questo a chiamarla

attraverso gli spifferi delle finestre del faro. Qui Aivlis, la chia-

mano.   

Qui Aivlis, qui Aivlis.

E lei corre dall’una all’altra finestra, mai stanca di scrutare nella

notte del giorno invernale, quando nemmeno gli uccelli volano.

E lei esiste.

E’ così che gli occhi di Aivlis cambiano, mutano espressione, ra-

pidi nel movimento, enigmatici nel guardare al di là del presen-

te. Solo Runar oggi scuote la testa e riconosce. E’ arrivato con i

suoi gitanti, ignari di quella solitudine che si consuma lassù.

Ha subito notato la porta del faro: è aperta, spalancata.

Sbatte col vento.

Oggi gli uccelli non chiamano Aivlis, Aivlis, Aivlis.

Il mare non è il solito.

Ecco, Runar vede e capisce.

Non c’è schiuma nel mare capace di nascondergli dov’è Aivlis.

Oggi ha voluto volare col vento, verso quella porta scolpita nel

mare, quella porta attraverso la quale raggiungerà l’orizzonte.

Lentamente, come quelle pagine, quei foglietti, quei frammenti

di libri che ancora galleggiano e si confondono con le schiume

del mare, anche loro liberati da Aivlis e dal suo amico vento.

In silenzio Runar chiude la porta del faro.

Aivlis Aleunam non abita più qui.

(Ma io e Aivlis esistiamo…. e degli altri poco sappiamo…)

(Manuela Silvia Campanini)

 

 

 

 

allora in un lontano mare ti voglio portare

 

IN SILENZIO SCRUTARE

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Immaginate una città dove nessuno

cammina per le strade.

Dove i marciapiedi sono ripulti come soffitti

e l’insegna del barbiere è immobile

come un cadavere.

Non c’è alito di vento.

Le finestre sui palazzi di mattoni a vista

son chiuse da imposte

e una sola luce risplende nel ristorante

aperto tutta la notte mentre il resto

della città rimane nella sua ombra.

 

Fra un’ora sarà giorno.

Nel ristorante il cameriere conta gli sgabelli vuoti

e guarda la sua immagine riflessa nelle caffettiere.

Alla radio l’annunciatore dice che gli alleati hanno

avuto un’altra vittoria.

Ci sono state poche perdite.

Un uomo con un cappello a falde larghe e

la donna che gli siede accanto stan bevendo caffè o tè;

dall’altra parte del banco un forestiero li guarda

come se non avesse altro su cui mettere a fuoco

lo sguardo.

Si chiede, forse, se essi aspettano l’arrivo

del pulmann del mattino,

se aspettano dei famigliari che portino loro

notizie importanti.

O forse saliranno da soli sul pulmann,

chiederanno all’autista dove sta andando,

e qualunque sarà la risposta gli diranno

che non sarebbe abbastanza lontano.

 

Quando arrivano al sorgere del sole

i pulmann sono vuoti come letti d’ospedale –

il ronzio del motore è distante come una voce

che venga dal profondo del corpo.

L’uomo e la donna si sono allontanati a piedi,

verso qualche strada buia,

mentre lo sconosciuto rimane incollato

alla sedia.

Quando raccoglie il giornale del mattino

non è sorpreso di leggere che non ci sarà scambio

di prigionieri,

la guerra andrà avanti per sempre,

i Cardinals vinceranno lo scudetto,

non ci sarà cambiamento di tempo.

(Ira Sadoff, I Nottambuli di Hopper, La poesia del silenzio)

 

 

 

 
 
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PER ASCOLTARE SOLO I POTENTI CIARLARE

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la tecnologia

 

 

 

 

 

Un noto parlamentare americano, ritiene che il 5% delle azioni

di una grande impresa sia a volte sufficiente perché un individuo,

una famiglia, o un gruppo economico possa detenerne il completo

controllo.

Se il 5% basta per detenere l’egemonia sulle onnipotenti imprese

statunitensi, quale percentuale di azioni è necessaria per controllare

un’impresa latino-americana?

In effetti, basta anche meno: le società miste, che costituiscono uno

dei pochi motivi d’orgoglio ancora consentiti alla borghesia, danno

soltanto decoro al capitale straniero con la partecipazione di capitali

nazionali che possono anche essere maggioritari ma non sono mai

decisivi a paragone della potenza dei coniugi che vengono da fuori.

Spesso, è lo stato stesso ad associarsi all’impresa imperialista che, in

questo modo trasformata in impresa nazionale, ottiene tutte le garan-

zie più ambite e un generale clima di collaborazione per non dire

addirittura di affetto.

La partecipazione ‘minoritaria’ dei capitali stranieri viene giustifi-

cata, di solito, in nome della necessità di trasferire tecniche e bre-

vetti.

La borghesia latino-americana, borghesia di mercanti senza capa-

cità creative, legata con il cordone ombellicale al potere della terra,

s’inchina davanti agli altari della dea Tecnologia.

Se, come prova di denazionalizzazione, si prendessero in considera-

zione le azioni in mano straniera, per quanto poche, e la dipendenza

tecnologica, che ben di rado è poca, quante fabbriche potrebbero

essere a buon diritto ritenute davvero nazionali, in America Latina?

In Messico, per esempio, accade spesso che i proprietari della tecno-

logia esigano una parte del pacchetto azionario delle imprese, oltre

ai decisivi controlli tecnici e amministrativi, all’obbligo di vendere

la produzione a determinati intermediari anch’essi stranieri, e di

importare macchinari e altri beni dalla loro casa-madre, in cambio

di contratti per il trasferimento di brevetti o know-how.

Ma non succede soltanto in Messico.

E’ significativo che i paesi del cosiddetto Gruppo Andino abbiano

elaborato un piano per applicare un comune regime ai capitali stra-

nieri nell’area, che si basa sul rifiuto dei contratti che contengono

condizioni come quelle indicate. Inoltre, propone che i vari paesi

respingano le pretese straniere, padrone dei brevetti, di stabilire i

prezzi dei prodotti fabbricati loro tramite o di proibirne l’esporta-

zione in determinate nazioni.

Il primo sistema di brevetti, teso a proteggere la proprietà delle

invenzioni, venne creato quasi quattro secoli fa da sir Francis Ba-

con. Bacon era solito proclamare che ‘la scienza è potere’, e fu

subito evidente che aveva ragione.

In effetti, la scienza universale ha ben poco di universale; è obiet-

tivamente confinata entro le frontiere delle nazioni avanzate. 

L’America Latina non applica a proprio vantaggio i risultati della

ricerca scientifica per la semplicissima ragione che manca di una

ricerca scientifica, e pertanto si condanna a subire la tecnologia dei

potenti, che punisce i detentori di materie naturali, senza riuscire a

creare una propria tecnologia che difenda e sostenga il suo sviluppo.

Il puro e semplice trapianto della tecnologia dei paesi avanzati

implica non solo la subordinazione culturale e, in ultima analisi,

la subordinazione economica, ma non risolve neppure i problemi

del sottosviluppo come dimostrano quattro secoli e mezzo di 

esperienza nella moltiplicazione delle oasi di modernità importate

in deserti d’arretratezza.

Questa vasta regione d’analfabeti investe nelle ricerche tecnologi-

che una somma duecento volte inferiore a quella che gli Stati Uniti 

destinano allo stesso fine. 

Nel 1970, negli Stati Uniti c’erano 50.000 computer e in America

Latina neppure 1000. E negli Stati Uniti si disegnano modelli elet-

tronici e si elaborano i linguaggi di programmazione che poi l’Ame-

rica Latina importa. 

Il sottosviluppo latino-americano non è una tappa nel cammino

verso lo sviluppo, anche se si ‘modernizzano’ le sue deformità.

La regione va avanti senza liberarsi della struttura della propria

arretratezza e a nulla vale, osserva Manuel Sadosky, il vantaggio

di non partecipare al progresso con programmi e obiettivi propri. 

I simboli della prosperità sono anche simboli della dipendenza.

Si ‘riceve’ la tecnologia moderna come nel secolo scorso si ricevet-

tero le ferrovie, al servizio di interessi stranieri che modellano e

rimodellano lo stato coloniale dei nostri paesi.

(E. Galeano, Le vene aperte dell’America Latina)

 

 

 

 

la tecnologia

  

E ANCOR PIU’ INDIETRO SCRUTARE

 e ancor più indietro scrutare

 

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e ancor più indietro scrutare

 

 

 

Breve appunto……

 

 

In ogni inizio è già annunciato un destino, è definito il

tono e la struttura di ciò che seguirà: così il fatto che l’

Inquisizione sorga nella lotta contro il catarismo, ci per-

mette di cogliere la logica che reggerà per tutti i secoli

successivi la storia dell’Inquisizione stessa; le persecu-

zioni di ebrei, moriscos, streghe, liberi pensatori, misti-

ci, ….minoranze etniche, si differenzieranno quanto ad

oggetto, ma non quanto alla motivazione di fondo che

sostiene e giustifica la persecuzione: il rifiuto della dif-

ferenza, della diversità di opinioni e credenze come

sgorgante da una coscienza – da un’anima – irriducibil-

mente libera e individuale.

Questo rifiuto dell’individualismo come liberamente

esprimentesi, questa ricerca ossessiva di una assoluta

compattezza e omogeneità nella sfera della prassi reli-

giosa e quindi di riflesso, sociale; si spiega solo se si

comprende che, nei secoli in cui l’Inquisizione nasce e

si sviluppa, il fenomeno religioso non è considerato co-

me un dato proprio innanzitutto ed esclusivamente del-

la spiritualità del singolo, ma come un elemento caratte-

rizzato da una fondamentale rilevanza sociale, politica

e morale.

(Prosegue…)

 

 

 

e ancor più indietro scrutare

  

MENTRE FACEVAMO L’ ‘AMORE’

 mentre facevamo l'amore

 

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mentre facevamo l'amore

 

 

(DOCUMENTO: 25/4/62. Registrazione microfonica da una

camera da letto del Carlyle Hotel. Effettuata da Fred Turentine

Copie su nastro e scritte a P. Bondurant W. Littell.)

16, 24 – 17,30: attività sessuale ( si ascolti registrazione su nastro.

Ottima qualità sonora. Voci riconoscibili.)

 

 

mentre facevamo l'amore

 

 

 

 

JFK: Merda la mia schiena.

BJ: Lascia che ti aiuti.

JFK: No, lascia stare.

BJ: Smettila di guardare l’orologio. Abbiamo appena finito.

JFK (ridendo): Avrei dovuto far mettere l’orologio a muro.

BJ: Già che ci sei, di’ allo chef di impegnarsi. Era un pessi-

mo club sandwich.

JFK: Hai ragione. Il tacchino era secco e il bacon troppo mol-

le.

BJ: Sembri distratto, Jack.

JFK: Ragazza acuta.

BJ: E’ il peso del mondo?

JFK: No, di mio fratello. E’ sceso sul sentiero di guerra per i

miei amici e le donne che frequento, e si sta comportando

come un enorme dito nel culo.

BJ: Per esempio?

JFK: E’ una vera caccia alle streghe. Frank Sinatra conosceva un

paio di gangster, e così niente più Frank. Le donne che mi pre-

senta Peter, come quella Marylin che incontrai sulla neve…, so-

no sgualdrinelle portatrici di gonorea, e tu sei troppo raffinata

e cosciente dei tuoi mezzi per essere soltanto una ballerina di

twist, dunque sei sospetta in linea di principio. 

BJ (ridendo): Cosa succederà? Devo aspettarmi di essere pedi-

nata da agenti dell’Fbi?

JFK (ridendo): Difficile. Bobby e Hoover si odiano troppo per

collaborare su una faccenda così delicata. Bobby lavora troppo

ed è nervoso perché è una checca nazista che odia chiunque

abbia normali appetiti sessuali. Bobby dirige il Dipartimento

di Giustizia, dà la caccia ai mafiosi e si occupa della questione

cubana. E’ costantemente circondato dalla feccia, e Hoover non

gliene dà vinta una sulle questioni di protocollo. E io sono

quello che deve sopportare le conseguenze delle sue frustra-

zioni. Senti, che ne dici di scambiarci i lavori? Tu fai il presi-

dente degli Stati Uniti e io mi metto a ballare il twist in quel

posto, come si chiama il locale nel quale ti esibisci?

BJ: Il Del’s Den di Stamford, nel Connecticut.

BJ: Affare fatto. Subito dopo essere entrata alla Casa Bianca,

licenzierò J. Edgar Hoover e dirò a Bobby di prendersi una

vacanza.

JFK: Stai già ragioando come un Kennedy.

BJ: In che senso?

JFK: Lascerò che sia Bobby a scaricare Hoover.

BJ: Smettila di controllare l’orologio.

JFK: La prossima volta me lo dovresti nascondere.

BJ: Lo farò.

JFK: Devo andare. Ti spiace passarmi i pantaloni?

BJ: Sono spiegazzati.

JFK: Colpa tua. 

(J. Ellroy, American Tabloid)

 

 

 

 

mentre facevamo l'amore

    

MENTRE UN VENTO IDIOTA SI ODE LA NOTTE

 mentre un vento idiota si ode la notte

  

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mentre un vento idiota si ode la notte

 

 

 

 

Qualcuno lo fa apposta per me; escogitano delle

storie per la stampa.

Chiunque sia, vorrei che la smettesse, ma quando

questo succederà lo posso solo immaginare.

Dicono che ho sparato ad un tipo di nome Gray

e che sua moglie ho portato via con me

in Italia,

che lei aveva ereditato un milione di dollari

e quando è morta quei soldi sono finiti a me.

Non posso farci niente se sono fortunato.

La gente mi vede sempre e ancora non ricorda

come deve comportarsi.

La loro mente è piena di grandi idee, immagini

falsate e fatti distorti.

Persino tu, ieri, mi hai chiesto dove una cosa era

successa.

Non riuscivo a credere che dopo tutti questi anni

insieme non mi conoscevi meglio di così, mia

cara signora.

 

mentre un vento idiota si ode la notte

 

Vento idiota,

che esce fuori ogni volta che apri

bocca,

che soffia sulle strade dirette al Sud.

Vento idiota,

che esce fuori ogni volta che muovi

i denti.

Sei una stupida, ragazza; è un miracolo che tu

ancora sappia respirare.

 

Ho incontrato un giorno un’indovina che mi ha

detto ‘attento ai fulmini che possono colpirti’.

E’ così tanto che non ho più pace e tranquillità

che non ricordo più come son fatte.

C’era un soldato ad un incrocio; fumo che

usciva dalla porta di un treno merci.

Tu non lo sapevi, tu non ci potevi credere;

alla fine vinse la guerra perdendo ogni battaglia.

Mi sono svegliato sul ciglio della strada mentre

fantasticavo sul modo in cui le cose a volte

vanno.

Visioni della tua cavalla castana mi trafiggono la

testa e mi fan vedere le stelle.

Fai del male proprio a quelli che amo di più e

con bugie la verità nascondi. 

Ma un giorno o l’altro tu t’infognerai; mosche ti

ronzeranno intorno agli occhi,

vedrai sangue sulla tua sella.

 

mentre un vento idiota si ode la notte

 

Vento idiota,

che soffia sui fiori della tua tomba,

che soffia sulle tendine della tua stanza.

Vento idiota,

che soffia ogni volta che apri bocca.

Sei una stupida, ragazza; è un miracolo che tu 

ancora sappia respirare.

 

E’ la gravità che ci ha tirato giù ed il destino

che ci ha divisi.

Tu hai addomesticato il leone dentro me, ma non

è stato abbastanza per cambiarmi il cuore.

Adesso tutto l’ordine è sconvolto; a dir la verità,

le ruote si son fermate.

Il bene è diventato male e il male bene;

tu scoprirai che quando sei arrivato in cima

in realtà sei solo al fondo.

Ho notato alla cerimonia che i tuoi modi corrotti

ti hanno infine reso cieca.

Non riesco a ricordare più il tuo viso;

la tua bocca è cambiata, i tuoi occhi non guardano

nei miei.

Il prete era vestito di nero il settimo giorno

e rimase impietrito quando vide bruciare l’edificio.

Ti ho aspettato nella pedana vicino al cipresso

quando la primavera

a poco a poco diventava autunno.

 

mentre un vento idiota si ode la notte

 

Vento idiota,

che soffia a mulinello intorno al

mio cranio,

dalla diga del Gran Coulee al Capitol.

Vento idiota,

che soffia ogni volta che apri bocca.

Sei una stupida ragazza, è un miracolo che tu

ancora sappia respirare.

 

Non riesco più a sentirti; non riesco neppure

a toccare i libri che tu hai letto.

Ogni volta che ho strisciato davanti alla tua

porta , avrei voluto esser qualcun altro.

Nella strada, sui binari, nella via dell’estasi,

ti ho seguito sotto le stelle, inseguito dal tuo

ricordo

e dalla tua furiosa gloria.

Ho finito ormai di fare il doppio gioco e sono

finalmente libero.

Ho dato il bacio dell’addio alla bestia urlante sul

precipizio che separava te da me.

Tu non saprai mai il male che ho sofferto ed il

dolore che da me si leva.

E pure io di te le stesse cose ignorerò, la tua

santità o il tuo tipo d’amore,

e questo mi dispiace tanto. 

 

mentre un vento idiota si ode la notte

 

Vento idiota,

che soffia fra i bottoni dei nostri

cappotti,

che soffia nelle lettere che ci siamo scritti.

Vento idiota,

che soffia sulla polvere dei nostri

scaffali.

Noi siamo degli stupidi, ragazza; è un miracolo

che riusciamo ancora a sopravvivere.

(Bob Dylan, Idiot wind)

 

 

 

 

mentre un vento idiota si ode la notte

     

E SOLO CON LA MIA CHITARRA VADO ALL’APPUNTAMENTO

 e solo con la mia chitarra vado all'appuntamento

 

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e solo con la mia chitarra vado all'appuntamento

 

 

 

 

Quando Johnson cominciò a cantare, fu come uno che fosse

uscito dalla testa di Zeus già coperto dall’armatura.

Immediatamente posi una differenza tra lui e chiunque altro

avessi ascoltato fino ad allora. Le canzoni non erano dei tipi-

ci blues.

Erano pezzi portati alla perfezione.

Ogni canzone era fatta di quattro o cinque strofe, ogni distico

collegato al successivo senza che il legame risultasse troppo

ovvio.

Erano straordinariamente fluide.

 

e solo con la mia chitarra vado all'appuntamento

 

Al primo ascolto andavano via veloci, troppo veloci per riusci-

re ad afferrarle. In fatto di gamma espressiva e di soggetto co-

privano tutto il terreno che si poteva immaginare, brevi strofe

pungenti che alla fine creavano una sorta di storia panoramica.

I fuochi dell’umanità si alzavano dalla superficie di quel pezzo

di plastica ruotante.

La voce e la chitarra di Johnson risuonavano nella stanza e io

mi ci sentivo immerso. Non capivo come avrebbe potuto esse-

re altrimenti.

Ma Dave non lo era.

 

e solo con la mia chitarra vado all'appuntamento

 

Ripetutamente mi fece notare che questa canzone viene da

quest’altra e che una era l’identica replica di un’altra.

Non pensava che Johnson fosse molto originale.

Capivo il suo punto di vista, ma per me era tutto il contrario.

Ero convinto che Johnson fosse assolutamente originale, e che

né lui né le sue canzoni potessero essere paragonate a nient’alt-

ro. 

Dave pensava che Johnson andasse bene, avesse una certa forza,

ma fosse un imitatore. Era inutile discutere con Dave, non sul

piano intellettuale e musicale…in ogni caso! 

 

e solo con la mia chitarra vado all'appuntamento

 

…Lasciai che Dave tornasse al suo giornale, gli dissi arrivederci

e rimisi l’acetato nella busta di cartone bianco. Non era una co-

pertina stampata. L’unico segno di identificazione era scritto a

mano sul disco stesso e riportava semplicemente il nome, Robert

Johnson, e la lista delle canzoni.

Lo stesso disco che non aveva catturato l’attenzione di Dave più

di tanto aveva lasciato me stordito, come se fossi stato colpito

da una pallottola al sedativo. Più tardi, nel mio appartamento

sulla 4th Street, lo misi sul giradischi e me lo ascoltai da solo.

Non volevo farlo sentire a nessun altro. 

 

e solo con la mia chitarra vado all'appuntamento

 

Nelle settimane successive lo ascoltai ripetutamente, incisione

dopo incisione, canzone dopo canzone, seduto a fissare il gira-

dischi. E ogni volta mi sembrava che uno spettro mi entrasse

nella stanza, un’apparizione paurosa.

Le canzoni erano costruite con una sorprendente economia di

versi. La presenza di Johnson mascherava quella di altri venti

uomini. Mi concentrai su ogni canzone, chiedendomi come

avesse fatto Johnson. Scrivere canzoni per lui era una faccenda

estremamente sofisticata. 

Le composizioni sembravano uscirgli dalla bocca, non dalla

memoria, e io cominciai a meditare sulla costruzione delle

strofe, constatando come erano diverse da quelle di Woody. 

 

e solo con la mia chitarra vado all'appuntamento

 

Le parole di Johnson mi facevano vibrare i nervi come corde

di pianoforte. Erano elementari in fatto di significato e di sensa-

zione e insieme rivelavano tutto il quadro interiore.

Non è che si potesse isolare con cura ogni momento, perché

non si può. Mancano troppi termini e l’esistenza è troppo du-

plice. Johnson fa a meno di descrizioni noiose sulle quali altri

autori del blues avrebbero scritto intere canzoni.

 

e solo con la mia chitarra vado all'appuntamento

 

Non c’è garanzia che uno qualunque dei suoi versi sia acca-

duto, sia stato detto, o anche immaginato. Quando canta di

ghiaccioli che pendono da un albero mi fa venire i brividi, o

quando dice del latte che diventa blu…

Mi dava nausea e invidia e non avevo idea di come facesse…. 

(Bob Dylan, Chronicles)

 

 

 

 

e solo con la mia chitarra vado all'appuntamento

 

PER QUESTO TE NE CANTO UNA

 per questo te ne canto una

 

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per questo te ne canto una

 

 

 

Splenda su di me la luce

del diretto di mezzanotte

splenda su di me la luce amorosa

del diretto di mezzanotte.

 

Ti svegli la mattina

senti suonare la campana

vai marciando in mensa

e trovi la solita roba.

 

Coltelli e forchette sulla tavola

niente nella mia scodella

e se dici una parola

sei nei guai col capo.

 

Se per caso vai a Houston

attento a filare dritto

attento a non barcollare

e a non cacciarti nelle risse.

 

Lo sceriffo ti arresta

e il giudice ti spedisce qui

puoi scommettere fino all’ultimo dollaro

dritto al penitenziario.

(Leadbelly, Midnight Special) 

 

per questo te ne canto una

 

 

Io e mia moglie abbiamo girato la città

dovunque andavamo ci cacciavano via.

 

Dio, in quella città borghese,

una città borghese

ho il blues borghese

e lo voglio raccontare a tutti.

 

Io e mia moglie abbiamo girato tutta la città

dovunque andavamo la gente di colore ci cacciava via

Dio è una città borghese…

 

Nella terra dei prodi, la patria dei liberi

non mi voglio fare insultare da nessuna borghesia

Dio, è una città borghese….

(Leadbelly, Bourgeois Blues)

 

 

 

per questo te ne canto una