ANCHE SE PENSO AD ALTRI RICORDI SPARSI NEL TEMPO

 anche se penso ad altri ricordi sparsi nel tempo

 

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Alcuni lo chiamavano ‘il folk singer ebreo errante’.

Era spinto da un enorme desiderio di far parte delle cose che

cantava: gli chiedevo sempre: ‘Come stai oggi, uomo della ter-

ra?’ perché lui tale era.

Aveva ripreso il messaggio di Jesse Fuller e voleva essere vici-

no alla terra, stabilire dei legami stretti col suolo anche se non

era altro che il figlio di un mercante di mobili ebreo del Range.

La cosa buffa è che quelli del Range erano circondati da un alo-

ne di mistero perché erano considerati dei duri, onesti e solidi

minatori. 

 

anche se penso ad altri ricordi sparsi nel tempo

 

Quelli del Range andavano molto fieri di questa loro reputa-

zione. Bob invece avrebbe preferito essere nato da qualche

parte dell’Arkansas. Voleva rifarsi ad un altro tipo di tradizio-

ne: quella gloriosa, romantica e contadina della Dust Bowl.

Ma come poteva essere un uomo della terra con un nome co-

me Zimmerman?

Fra settembre e dicembre, i mesi in cui imparai a conoscerlo

molto bene, si era completamente immedesimato in Woody

Guthrie. E mi diceva sempre: ‘Andremo a New York a trova-

re Woody’. I suoi sentimenti erano così sinceri che, qualche

volta, faceva pena.

La sua idea fissa era Woody Guthrie; aveva un solo desiderio:

andarlo a trovare; e la gente qualche volta ne aproffittava per

prenderlo in giro, soprattutto quando aveva bevuto. Alle feste,

per esempio, c’era sempre qualcuno che gli diceva: ‘Bob, di

fuori c’è Woody che vuole vederti’. E Bob correva fuori, in ma-

niche di camicia, sulla neve e urlava: ‘Ehi, Woody, dove sei?’

Woody, aspettami!’ e quelli ridevano. Che gente schifosa’. 

 

anche se penso ad altri ricordi sparsi nel tempo

 

La madre di Ellen capì che la personalità di Dylan era scossa

da conflitti interni. Ecco i suoi ricordi: ‘Mi dava l’impressione

di essere un ragazzino sperduto. Capivo che stava rifiutando

parecchie cose e come dire…, che si stava creando un perso-

naggio. Il suo doveva essere uno sforzo assai penoso perché

è difficile trasformarsi in un altro.

Sul principio pensai che la sua era una posa e che in lui c’era

qualcosa di fasullo; mi sembrava strano che quel ragazzo pren-

desse per modello Woody Guthrie. In lui non vedevo il genio,

pensavo che fosse un imitatore. Per me fin dall’infanzia, Woody

era stato un personaggio esclusivamente politico; ed ecco che

Bob si metteva a cantare motivi tratti dal ‘Little Red Songbook’,

e suonava le canzoni dei Wobblie.

Mi pareva un ragazzo estremamente giovane ed insicuro.

Al tempo stesso però in lui c’era una volontà ferma, una dedizio-

ne totale allo scopo che si era prefissato ed era animato da una

grande forza interiore. Rifiutava i compromessi. Doveva fare il

cantante, non c’erano santi.

Era chiuso in se stesso, ma credevo che dentro di sé fosse sem-

pre disponibile. Una volta arrivato a Guthrie per lui le cose co-

minciarono ad avere un senso’.

(Anthony Scaduto, Bob Dylan la biografia) 

 

 

 

 

anche se penso ad altri ricordi sparsi nel tempo

 

LO DICO E LO RIPETO: AMO SOLO LEI (sotto questo cielo e sotto questo tetto)

 lo dico e lo ripeto: amo solo lei

 

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Un limpido meriggio invernale….

Il gelo è compatto, scricchiola, e a Nadèn’ka, che mi tiene a

braccetto, si coprono d’una brina argentea i riccioli delle 

tempie e la peluria sopra il labbro superiore.

Stiamo su un alto poggio.

Dai nostri piedi fino al suolo si stende un piano in pendio,

nel quale il sole si guarda in uno specchio. Accanto a noi,

piccole slitte rivestite di panno rosso vivo.

‘Scivoliamo giù, Nadezda Petrovna!’ supplico io.

‘Una volta soltanto! Vi assicuro che rimarremo sani e salvi’.

Ma Nadèn’ka ha paura. Tutto lo spazio delle sue piccole so-

prascarpe al termine del poggio ghiacciato le sembra una 

terribile voragine, smisuratamente profonda.

Le manca il fiato e le si ferma il respiro, quando guarda in

basso, quando le propongo solo di salir nella slitta, ma che

sarebbe mai, se si arrischiasse giù nella voragine!

Morrebbe, impazzirebbe.

‘Vi supplico!’ dico. ‘Non bisogna aver paura! Capitelo, ques-

ta è pusillanimità, è viltà!’.

Nadèn’ka cede, e io vedo dal suo volto che cede a rischio del-

la vita. Io la faccio sedere, pallida, tremante, nella slitta, la

cingo col braccio e insieme con lei mi precipito nell’abisso.

La slitta vola come un proiettile.

L’aria solcata ci percuote in viso, urla, fischia negli orecchi, ci

morde, ci pizzica dolorosamente dalla rabbia, vuole strappar-

ci la testa dalle spalle. Per la pressione del vento non s’ha la

forza di respirare. Sembra che il diavolo in persona ci abbia

avvinghiati con le zampe e urlando ci trascini all’inferno.

Gli oggetti circostanti si fondono in una lunga strscia che fug-

ge impetuosamente…

Ecco, ecco, ancora un attimo, e pare che saremo perduti!

‘Io vi amo, Nadja!’ dico io sottovoce.

La slitta comincia a correre sempre più piano, l’urlio del ven-

to e il ronzio degli strisci non sono più così paurosi, il respiro

cessa di venir meno, e noi, finalmente, siamo in fondo.

Nadèn’ka è più morta che viva.

E’ pallida, respira appena…Io l’aiuto ad alzarsi.

‘Per nulla al mondo ci verrò un’altra volta’, dice, guardandomi

con occhi dilatati, pieni di sgomento.

‘Per nulla al mondo! Per poco sono morta!’.

Dopo un po’ di tempo ella torna in sé e già mi guarda interro-

gativamente negli occhi: sono stato io a dire quelle quattro pa-

role, o le è solo sembrato di udirle nel frastuono del turbine?

E io sto accanto a lei, fumo e osservo con attenzione il mio

guanto.

Ella mi prende sottobraccio, e noi passeggiamo a lungo attor-

no al poggio. L’enigma, evidentemente, non le dà pace. Sono

state dette quelle parole o no?

Sì o no?

E’ una questione d’amor proprio, d’onore, di vita, di felicità,

una questione importantissima, la più importante al mondo.

Nadèn’ka, impaziente, malinconica, mi getta occhiate in viso

con uno sguardo penetrante, risponde a sproposito, sta a ve-

dere se mi metterò a parlare. 

Oh, che giuco su quel caro volto, che giuco!

Io lo vedo, ella lotta con se stessa, ha bisogno di dire qualcosa,

di domandare qualcosa, ma non trova le parole, è a disagio, ha 

paura, la gioia gliel’impedisce…

‘Sapete?’ ella dice, senza guardarmi.

‘Che cosa?’ domando.

‘Andiamo ancora una volta….giù in slitta’.

Saliamo per una scala sul poggio. Di nuovo io faccio sedere la

pallida, tremante Nadèn’ka nella slitta, di nuovo voltiamo nella

paurosa voragine, di nuovo urla il vento e ronzano gli strisci, e

di nuovo, al momento della più forte e fragorosa volata della

slitta, io dico sottovoce: ‘Io vi amo, Nadèn’ka!’.

Quando la slitta si arresta, Nadèn’ka avvolge con uno sguardo

il poggio per il quale siamo appena discesi, poi fissa a lungo

il mio viso, tende l’orecchio alla mia voce indifferente e impos-

sibile, ed ella tutta, tutta, perfino il manicotto e il cappuccio,

tutta la sua figurina esprimono estrema perplessità.

E sul suo volto le sta scritto: ‘Ma di che si tratta? Chi ha pronun-

ciato quelle parole? Lui, o m’è solo parso di udirle?’

(prosegue….)


 

 

 

lo dico e lo ripeto: amo solo lei