PIETRO AUTIER

LO SPAVENTO DELL’ANTROPOLOGO

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Un giorno, in Val di San Lucano – raccontò il professore Cino B. – stavo

esplorando una piccola grotta quando all’imboccatura comparve un vecchio

che si fermò a guardarmi.

Era un pastore, aveva una faccia scarna e astuta, dai suoi panni veniva un

fetido tanfo di pecora.

Cerca ossa, signore?, mi domandò, sibilando tra i denti disgregati.

– Oh Dio, non solo ossa, risposi divertito, e gli spiegai:

Forse un giorno qui abitavano degli uomini. E io cerco se hanno lasciato

qualche cosa.

– Allora non deve cercare qui, fece lui come se la sapesse lunga.

Qui non c’è niente. E’ tempo perso. So io dove. A Tiei dovrebbe andare.

Tiei? Dov’è Tiei?

E’ il mio paese, in Val Cesilla. Là ci sono otto nove grotte. Io dico di una,

specialmente.

In quella sì ne troverà di roba.

Che roba?

Ah, io non so, io…

Nessuno è mai entrato. Ma ci sono le ossa del gigante….

Noi maniaci delle cose antiche stiamo sempre all’erta, con le orecchie in su,

sapete bene. Il minimo indizio ci fa venire il batticuore.



Gero non disse niente di preciso. Però insisteva su quella storia delle ossa

e ammiccava maliziosamente quasi gli fosse vietato di parlare. Sperava

così di guadagnare qualche soldo? O cercava di imbrogliarmi? Fosse stato

anche così, ormai ero troppo incuriosito. Meglio tentare. Gli offersi mille

lire se mi avesse accompagnato. Ne volle duemila.

Andammo in auto, la mattina dopo, e c’erano con me due giovani assistenti.

Il Vigoni e il Bettel, che conoscete. Gero, per l’occasione aveva cercato di

mettersi un po’ in ordine, ma ci voleva altro: averlo accanto era un supplizio.

Anche in Italia, qui da noi, nel Veneto, esistono paesi dove si può arrivare

con l’auto in meno di un’ora eppure sono lontani, una lontananza addirittura

di millenni.

Chi di voi li ha visti?

Sono squallidi, dimenticati, misteriosi.

Non ci va mai nessuno.

Paesi pieni di leggende.

La gente, per lo più pastori e contadini, è vestita come altrove, le case sono

in muratura, coi vetri alle finestre, c’è luce elettrica, gira anche qualche

motocicletta, si sente perfino qualche radio.

Cosa importa?

Anche col pieno sole c’è un’aria immensa di tristezza. Lo stesso aspetto delle

case, grigio, nudo, torvo, senza un fiore, ci toglie il respiro. E gli abitanti danno,

per quanto assurda, l’impressione di essere antichissimi, nati migliaia di anni

fa e mai cresciuti, con dentro una indefinibile stanchezza, anche i bambini.

Come se da tempo immemorabile tutto là sia rimasto fermo, mentre il

mondo camminava, fermo alle remote età quando non c’era ancora il ferro

e si lottava con le belve.

Esseri ottusi, diffidenti, bugiardi, senza speranze, manchevoli di Dio.

Così era Tiei.

Ma vidi anzi contrada più triste e sconsolata, benché il paesaggio fosse

verde. In realtà i monti intorno, tozze e insulse coperte di prati e di

cespugli, erano soltanto brutti, senza neanche la romantica mestilizia

che consola spesso i deserti.

Per di più, quando ci giunsi, era una giornata grigia. Questo poteva

influire sull’animo. C’era però ben altro: come un greve incanto, un’

aria di maledizione, una specie di paralisi che pesasse su quell’angolo

di terra.

Si attraversò il paese.

Qualche donna immota sulle soglie, due tre cani e basta.

Non si vedavano bambini.



Poi ci inoltrammo per una strada ripida, poco meglio di una mulattiera,

che si inerpicava per la valle. Qua e là, nei campi, dei contadini intenti al

lavoro.

Gero dal finestrino li chiamava. Quelli neppure si voltarono.

Ecco, laggiù, fece il pastore, finalmente, una stretta curva, indicando un

valloncello.

Qui ci fermammo, ma mi era passata la voglia. Non so, avevo un senso

di vergogna. Immaginate un ricco che entri a chiedere acqua in una

catapecchia di famelici pezzenti.

Pressappoco così.

E non vuol dire se lassù gli uomini non pativano la fame. Era peggio che

fame: soli, abbandonati a sé, in esilio, incapaci perfino di dolore.

Intorno, campi incolti, lunghi muretti di sassi nerastri, qualche vigna, pochi

alberi da frutta. Non si vedeva anima viva.

Lasciai il Vigoni a custodire l’auto e in tre scendemmo alla caverna. La quale

si apriva in un breve bastione di rocce seminascosto dai cespugli.

E’ qui?, chiesi al pastore.

E’ qui disse.

Tu mi aspetti fuori?



Non rispose, limitandosi a un sorriso. In quel mentre si udì il richiamo di un

uccello, querulo lungo. Un’altro rispose da lontano. Qualcosa si mosse alle mie

spalle.

Mi voltai, non c’era nessuno.

Che mi stessero spiando?

Dimmi Gero, chiesi con un inspiegabile disagio,

– Dimmi, c’è qualcuno?

– No, no, signore. E chi vuole che ci sia?

Andò avanti Bettel, aprendosi la strada tra i cespugli. Ecco la imboccatura.

Chinatici, entrammo nella grotta facendo lume con due torce elettriche. La

cavità subito si allargava così che si poteva stare in piedi. I raggi cercarono

qua e là.

Qui, professore, guardi, fece Bettel che si era spinto in fondo.

Da fuori, stranamente modulato, giunse di nuovo il richiamo dell’uccello.

Che c’è? chiesi, senza muovermi. Ero inquieto.

C’è un cranio, professore, disse Bettel dal fondo.

Un cranio d’uomo.

D’uomo? feci avvicinandomi.

Sei proprio sicuro?

Direi, almeno….Forse un Neanderthalensis

Da uno strato di fango fatto solido dagli anni la cupoletta candida sporgeva.

E si intravedevano le occhiaie, mezze dentro e mezze fuori, dall’espressione

intensamente amara. Sulla volta cranica una crepa.

Mi inginocchiai per vedere meglio. Un cranio d’uomo, senza dubbio. Ma di

quando? Abbastanza antico per essere di competenza mia?

Fu Bettel che cominciò a tossire. Qualcosa di aspro prese anche me poi

subito alla gola. Un rabbioso singulto mi scuoteva.

C’era aria cattiva qui, disse Bettel.

Forse qualche esalazione.

Ma questo è fumo, professore!

Fumo. Veniva dall’ingresso. Densi nembi irrompevano di là così compatti da

nascondere la luce del giorno.

Gli occhi ci bruciavano.

Bettel, gridai ansimando.

Presto! Fuori!

Ci lanciammo all’uscita mentre di là del fumo nere ombre umane dileguavano.

Sulla soglia bruciava un mucchio d’erba. Feci per sorpassarlo, ma una cosa

nera mi passò a un pel dalla faccia, piombando con un tonfo sul terreno.

Una pietra.

Ne seguì un’altra, sarà pesata dieci chili.

Fortuna che feci un balzo indietro.

Ne venne giù una cateratta.

Era un agguato. Non con bombe, o mitra, o schioppi.

Laggiù vigeva ancora la tecnica dei tempi favolosi, quando si dava la caccia

al drago col fuoco dinanzi alla caverna e il lancio dei pietroni sul mostro

obbligato a uscire.

Ma perché?

Per puro bestiale odio al forestiero? O per oscure superstizioni tramandate?

O per proteggere un segreto?

Dietro di me, Bettel, semiasfissiato, giaceva al suolo. Anch’io mi sentivo

soffocare. Dentro non potevo più resistere. Tentando il tutto per tutto

sollevai Bettel da terra e lo trassi all’aperto. I temuti proiettili non vennero.

Appena fuori all’aria libera, trovai invece Vigoni, spaventato.

Che cosa succede, professore?

Un uomo è venuto ad avvertirmi, ha detto che lei mi voleva…

– Uno ti ha avvertito, dici?

– Ma sì….Ah, guardi, guardi, le carogne!

Guardai, là dove sul ciglio della curva avevo lasciato l’automobile. Tra i fumi

del braciere che oscillavano, li vidi, i pazzi, i selvaggi, i bruti, gelosi della

loro stessa solitudine, e decisi a difenderla col sangue. Erano quattro e

controluce parevano preistorici giganti. Inarcati nello sforzo, sollevavano

da un lato la macchina, evidentemente per rovesciarla nel burrone.

Ehi, canaglie! urlai, mentre Vigoni, che aveva con sé la rivoltella,

sparava un colpo in aria.

In quel mentre, con un mugolio bestiale, i quattro riuscirono ad alzare

l’auto di quel tanto che bastava. Come fantasmi poi disparvero. La

macchina per un istante restò in bilico, quindi si rovesciò in fuori.

Volò tre quattro metri, batté con schianto su un roccione per rimbalzare

e a orrendi colpi precipitare in fondo, sconquassandosi.

Via, via, presto!

Bettel era intanto rinvenuto. Prendemmo a piedi la strada del ritorno.

Vigoni in testa con la rivoltella.

A Tiei qualcuno ci avrebbe pure dato una mano.

Vallette, campi, forre, tutto era deserto e silenzioso. Anche Gero era sparito.

E la sera stava per discendere.

Camminando, pareva di sentire cento occhi che ci spiassero alle spalle.

Ma anche Tiei era deserto.

Porte, finestre, botteghe, osterie sprangate come se fosse notte fonda.

Non una voce, un passo, neppure più una gallina. E invece sapevamo

che tutti erano là, dietro i battenti, col fiato sospeso, a controllarci.

Attraverso le minuscole fessure scintillavano le pupille fisse su di noi.

Battemmo l’uscio di una casa dall’apparenza più civile. Dalle profondità

dell’edificio rispose l’abbaiar di un cane.

Nessuno di noi diceva niente.

Come parlare in quel silenzio così carico di odio?

Ai compagni feci un muto cenno: andarcene, fuggire, non perdere un minuto,

prima che venisse buio.

Che suono smisurato fecero i nostri passi fra le case taciturne.

Ci voltavamo indietro.

Niente.

Non si muoveva un filo. Poi via per la campagna.

Questa è la storia. In seguito girai per la zona interrogando.

Seppi che già altri studiosi erano andati, prima di me, alle grotte di Tiei:

un professore di Napoli, mi dissero, due antropologhi olandesi, un prete

docente di geologia, uno scrittore…

I due olandesi li avevano trovati dinanzi alla caverna, morti, il professore

e il prete attraversarono Tiei, diretti alla montagna; non furono mai visti

di ritorno.

E lo scrittore….a parlare con voce da scrittore…

E dopo chiesi?

C’è stato qualche altro?

Non credo, disse il professore.

Il cranio del gigante, come diceva Gero, deve essere ancora là, nell’antro,

mezzo immerso nel fango. Personalmente non mi attira più. Temo che non

sia molto antico.

(Dino Buzzati)






LO SPAVENTO DELL’ANTROPOLOGOultima modifica: 2012-06-18T00:00:00+02:00da
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