PIETRO AUTIER

L’UOMO CON LA LUPARA

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Da giovinetto si buccina che Tiburzi avesse indole perversa, il che

palerebbe per un delinquente-nato; tuttavia non risulta, all’esame

più diretto della sua vita, altro se non che da giovane era violento,

ed era pronto a reagire contro chi lo urtasse o gli facesse qualche

malestro.

Ma questi sono dati poco assodati; il fatto certo è che fino a trent’-

anni egli non aveva commesso alcun delitto e nemmeno alcuno di

quegli atti feroci in cui incappano sempre, e precocemente, i rei-

nati; fu a trentun’anno, nel 67, che egli per la prima volta uccise

un guardiano con cui aveva litigato; e pare che per quelle tristi

abitudini del Governo pontificio non venisse arrestato che molto

più tardi e condannato solo nel 69 a diciotto anni di galera.

 


Ma nel 72 fuggiva e si imbrancava in una banda brigantesca.

Da allora in poi commise due assassini, cinque omicidi o tentati-

vi di omicidi, tre grassazioni, due furti, due ferimenti, quattro

incendi; soprattutto le sue erano estorsioni, ventiquattro circa;

né mai commetteva, almeno negli ultimi anni, grassazioni nella

pubblica via; perciò sdegnò, dopo i primi anni della triste carrie-

ra, di associarsi a briganti di professione come Menichetti e An-

suini. 

 


In genere tutti i suoi delitti di sangue non furono effetto di quella

libidine di ferocia di cui sono affetti i rei-nati, ma di quelle vendet-

te e di quelle rivendicazioni che rappresentano la giustizia nei pae-

si barbari, e senza cui la triste professione brigantesca non potreb-

be esercitarsi.

Uccise per esempio, un pastore, il Pecorelli, perché aveva ammaz-

zato un maiale al figlio Nicola, ma prima ne verificò, contando i

chiodi delle scarpe e confrontandoli colle orme lasciate nel terreno,

la sua identità, come avrebbe fatto un giudice qualunque; uccise il

collega Pastorini in una specie di vero grossolano duello provocato

da insulto; uccise il Becchinelli per metter fine agli eccessi che com-

metteva e che lo avrebbero compromesso, uccise il Gabrielli perché

lo credette una spia.

 


Insomma, i delitti suoi non erano a scopo di rapina, ma esecuzioni

di spie e di neobanditi che pretendevano invadere il suo dominio e

che turbavano la tranquillità dei suoi feudatari – vulgo mantenitori.

Più volte, potendo uccidere impunemente nella macchia guardie e

carabinieri, se ne astenne e mandò ad avvisarneli poi. 

‘Egli’, dice Sighele, ‘trasformò il crimine in un contratto, il frutto in 

una tassa. Metamorfosi strana, in cui non sai se più ammirare l’-

astuzia di chi la compie o la vigliaccheria di chi vi si presta’.

Ed un procuratore del Re confessava a Sighele che, ‘dopo che c’è

Tiburzi, i crimini nel comune di Viterbo sono notevolmente dimi-

nuiti, perché i malfattori hanno più paura di lui di quello che non

avessero per la giustizia’.

 


Ed al processo di Viterbo un delegato di pubblica sicurezza di

Acquapendente disse che i proprietari consideravano il Tiburzi

come un ‘male necessario’, e gli pagavano le tasse sia per non es-

sere molestati, sia perché erano i briganti che facevano realmente

il servizio di pubblica sicurezza – confessione che equivale a dire

che il brigantaggio adempiva una vera missione sociale o politica. 

E non solo purgava le macchie dai banditi e vi teneva una relati-

va giustizia, ma esercitava perfino la polizia negli scioperi, obbli-

gando i mietitori scioperanti a tornare al lavoro, col solo dispie-

gamento delle forze sue proprie.

Coi castellani, coi cacciatori viterbesi conversava da gentiluomo,

del più e del meno, senza che alcun tratto indicasse l’uomo san-

guinario.

Come i land-lords inglesi, molti mesi dell’anno s’assentava egli

dai suoi domini e viveva a Roma, a Parigi da gran signore, senza

mai atto alcuno vanitoso o impulsivo lo tradisse, il che è prova di

quella forza di inibizione che si vede solo fra i criminaloidi, e non

nei delinquenti-nati.

 Per tutto ciò, per esercitare per più di ventiquattr’anni un domi-

nio incontrastato, occorse anche una singolare intelligenza, una

abilità amministrativa e strategica, ed una temperanza, una fa-

coltà di inibizione, come non hanno certo i criminali nati; ed an-

che una relativa, forse un’assoluta genialità d’azione; è il secolo

propizio che gli mancò per divenire uno Sforza, un Piccinino,

un Medici delle Bande Nere; ma quanto all’abilità personale l’-

aveva tutta, e forse era già pronta la dinastia.

E son tratti veramente Sforzeschi quelli in cui egli, solo accom-

pagnato da Fioravanti, si presenta in un cascinale ove son cin-

quanta mietitori, certo armati di falci o di flagelli, e intima loro

di farsi da parte e  lasciargli uccidere il Gabrielli.

(Cesare Lombroso, Delitto, genio, follia)





 

 

      

L’UOMO CON LA LUPARAultima modifica: 2012-08-10T00:00:00+02:00da
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