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La diatriba religiosa e il fratricidio in nome di Dio….erano la causa
principale del caos tedesco, ma non la sola.
Altre vi concorrevano.
Ciascun principe germanico sognava di cingere la corona di Sacro
Romano Imperatore, anche se da secoli non era che un simbolo vuoto
e screditato. Per inseguire l’impossibile chimera d’una restaurazione
carolingia, i signori tedeschi abdicavano all’unità nazionale, rintuzzando
e soffocando ogni tentativo di dare al Paese una guida centralizzata.
Ciascuno badava al suo ‘particulare’ e mirava solo all’ingrandimento
del proprio territorio a spese di quelli vicini e rivali.
Batteva moneta, arruolava eserciti, faceva e disfaceva alleanze,
dichiarava guerre.
Anche all’interno di questi mini-reami c’era una gran baraonda.
Le leggi di successione erano incerte e anacronistiche.
Nell’Assia-Cassel il diritto di primogenitura era sconosciuto, il
principe spartiva i suoi possedimenti tra i figli, e questi a loro
volta li dividevano fra gli eredi.
I Principati spuntavano come funghi: in una provincia se ne potevano
contare fino a dieci, molti erano limitati a una città, alcuni non
uscivano dai confini d’un villaggio con poche centinaia di anime,
strette attorno a un rozzo padiglione di caccia, capitale e palazzo
del Signore.
C’erano le cosiddette città libere, sottoposte alla giurisdizione
platonica dell’Imperatore.
C’erano i feudi della Chiesa, in mano a Principi-vescovi, indipendenti
da tutti, specialmente dal Papa.
C’erano i liberi cavalieri, come quel certo Gotz von Berlichingen,
che si vantava d’obbedire solo a Dio, all’Imperatore e a se stesso.
(……) In quale baratro le dispute teologiche, le persecuzioni religiose,
le divisioni dei principi, il guazzabuglio di leggi, la riottosità dei
piccoli nobili, l’impotenza dell’Imperatore avessero piombato la
Germania, è facile da immaginare.
Il Paese, spezzato e incapace di darsi un assetto unitario, di diventare
cioè una nazione, non aveva, e non poteva avere una società, ch’è
articolazione e fusione di classi.
Non che in Germania mancassero.
C’erano, ma non comunicavano e anche all’interno non avevano
un ricambio.
Le gerarchie erano rigide come nell’età feudale.
I nobili se ne stavano arroccati nei loro manieri, dediti alla caccia,
ai tornei, alla guerra, refrattari a ogni novità, spavaldi, rozzi,
ignoranti.
Vivevano di rendite, gabelle e rapine, andavano di rado in città
e trattavano dall’alto in basso i borghesi. Questi – commercianti,
artigiani e piccoli industriali – sfruttavano il popolo minuto,
diseredato e inerme.
Il clero campava, come al solito di decime ed elemosine.
La moralità pubblica e privata lasciava molto a desiderare.
In nessun Paese d’Europa i costumi erano rilassati come in
Germania.
Specie l’alcolismo dilagava.
‘I buoi’ scriveva un contemporaneo ‘cessano di bere quando non
hanno più sete.
I tedeschi invece, cominciavano allora’.
Nelle città e nelle campagne, vino e birra scorrevano a fiumi.
Un principe cattolico si congedava dagli amici con questa frase:
“Valete et inebriamini” (state bene e sbronzatevi).
Il Langravio d’Assia, in un accesso di temperanza, fondò una lega
antialcolica, il cui primo presidente morì ubriaco.
Luigi del Wurttemberg sfidò due noti beoni a chi tracannava più
vino e birra. Quando costoro furono completamente ebbri, li fece
caricare su un carro con alcuni maiali e rinchiudere in un porcile.
Il vizio era comune a tutte le classi e diffuso a tutti i livelli.
Le leggi contro gli eccessi del bere restavano lettera morta.
Uguale effetto sortivano quelle contro le prostitute, i lenoni,
i pederasti, gli usurai.
(Indro Montanelli, Storia d’Italia)