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Il viaggio della Speranza (16) &
Giacché l’ultima a morire (18)
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Ma era tutto una ridicola stupidaggine, perché dopo essermi
avvicinato con qualche colpo di remo al relitto in questione,
finii col lasciarmi andare a un parossismo di rabbia dopo l’-
altro, vedendo frustrati tutti i miei tentavi di salirvi sopra, per
quanto i suoi fianchi bassi; infatti, perfino dove il bordo della
nave mi si mostrava a portata di mano, non c’era modo di
vedere un appiglio in quella massa viscida, e le tre corde al-
le quali cercai di aggrapparmi erano anch’esse disperata-
mente scivolose, e così ogni volta ricascavo nella mia scia-
luppa, sempre più coperto di sudiciume, con in mente un
solo pensiero: una carica di dieci chili di cotone fulminante,
giacché ne avevo in abbondanza, per far saltare in aria il
sedere di quella disgraziata e mandarla nel girone più pro-
fondo dell’Inferno.
Alla fine dovetti risalire sulla Speranza, prendere una cor-
da e ritornare al bastimento, sebbene fosse già calato il
buio, appena mitigato da una lontana mezza luna, e comin-
ciai ad avere fame, e a sentirmi ogni minuto che passava
più diabolicamente feroce; finché, dopo molti tentativi falliti,
non riuscii a infilare il cappio della corda intorno a un albero
mozzo e poi ad arrampicarmi sulla trave, con un bel taglio
nella mano provocato da una infernale conchiglia sporgente.
E tutto perché?
Per soddisfare un capriccio imperioso.
La luce penombrosa luna mi mostrò un’ampia coperta, in
gran parte invisibile sotto rotoli di alghe putrescenti, e nes-
sun cadavere: soltanto una concava spianata di vegetazio-
ne marina; era un veliero sulle tremila tonnellate, con quattro
alberi (meccanici…). Quando volli scendere a poppa, con
le mie gambe protette dalle spesse babush, vidi che della
scaletta non rimanevo che quattro gradini; lo steso mi calai
con un salto in quella desolazione, dove il rancido fetore
marino sembrava concentrato fino all’essenza stessa dell’-
acrimonia, e a un tratto mi prese uno spavento, un timore
spettrale, all’idea che il bastimento potesse affondare con
me dentro, o qualcosa di simile; ma alla luce di alcuni fiam-
miferi, vidi che mi trovavo in una normale cabina: qualche
fungoide, teschi, ossa, stracci, ma nessuno scheletro inte-
ro; nella seconda cabina a tribordo, un tavolo, e sul pavi-
mento un calamaio, che a forza di rotolare di qua e di là
mi costrinse ad abbassare lo sguardo, e fu allora che
scoprii un quaderno di note, con la copertina nera, incur-
vata e aperta dall’umidità.
Presi il quaderno e ritornai sulla Speranza: perché quell’al-
tra nave era soltanto un grande vuoto, e un fetore dei più
crudi elementi dell’esistenza, quasi assimilata già al disgu-
stoso abisso al quale era sposata, pronta a venir risucchi-
ata nella sua stessa natura e nel suo essere, a diventare
un mare-in-piccolo, come io, col tempo, santo Dio, diven-
terò una Terra-in-piccolo.
Metà mentre pranzavo, e metà dopo, lessi il quaderno;
non senza difficoltà, perché era scritto in francese, con
l’inchiostro in certi punti molto sbiadito; era il diario di un
passeggero, di un viaggiatore, che diceva di chiamarsi
Albert Tissu; la nave si chiamava Marie Meyer; non c’e-
ra nulla di notevole nel suo racconto: descrizioni di sce-
ne nei Mari del Sud, note sul tempo che faceva, sui cari-
chi della nave… finché non arrivai all’ultima pagina, che
era notevole.
Portava la data del 12 aprile – che strana cosa, santo
cielo, lo stesso giorno, venti anni fa, in cui raggiunsi il
Polo; e la scrittura in quell’ultima pagina era molto di-
versa, molto meno curata e linda, a dimostrare l’inten-
sa agitazione, la folle fretta….
Cominciava: ‘Cinq Heures, a.m.’: poi: ‘Mostruoso avve-
nimento! Fenomeno mai visto, i cui testimoni vivranno
immortali negli annali dell’Universo! Finalmente Maman e
Juliette dovranno ammettere che avevo ragione di intra-
prendere questo viaggio. Mi trovavo a chiacchierare col
capitano Tombarel, a prora, quando gli scappa tra i denti:
‘Mon Dieu!’ Il suo viso si sbianca!
Seguo la direzione del suo sguardo, verso levante, e che
cosa vedo! A sette chilometri forse di distanza, dieci getti
d’acqua, che sgorgano in alto, in alto, immensi tutti in fila,
a intervalli di novecento metri, molto regolarmente distri-
buiti; ma non si spostano, né ondeggiano in aria, come
sono soliti fare i getti d’acqua, né hanno la forma di un
giglio, come i getti d’acqua: sono semplicemente delle
colonne di acqua, qua e là leggermente attorcigliate, e
larghe, direi ad occhio e croce, circa cinquanta metri.
Per sei minuti rimanemmo a guardare, mentre il capi-
tano Tombarel ripeteva e ripeteva tra i denti, ‘Mon Dieu!
Mon Dieu!’, e tutto l’equipaggio era adesso sopra coper-
ta, e io, agitato benché senza perdere il controllo osser-
vavo il fenomeno, orologio in mano; finché a un tratto tut-
to viene cancellato: le colonne, che indubbiamente erano
ancora lì, non si scorgono più, perché l’intero oceano in-
torno comincia a fumare, a emanare una nube sibilante
di vapore più alta ancora delle colonne, di dimensioni im-
mense, e i fischi sono così forti che perfino a quella di-
stanza si possono udire chiaramente.
E’ spaventevole!
E’ intollerabile!
Gli occhi a malapena riescono a sopportare lo spettacolo,
gli orecchi a tollerare quel rumore! Sembra un travaglio
dell’altro mondo, un parto mostruoso! Ma non dura a lungo:
tutt’a un tratto la Marie Meyer comincia a beccheggiare e a
rollare, perché il mare, immobile fino ad un momento prima,
è diventato molto mosso!
Contemporaneamente, attraverso il vapore bianco, scorgi-
amo un’ombra che si erge, un’ombra come un immenso
dosso, una terra neonata, che innalza verso il cielo dieci
colonne di fiamma, lentamente, inarrestabilmente, dal…
mare fino alle nuvole…..
(M. P. Shiel, La nube purpurea)