PIONIERI e NATIVI: anatomia di un incontro (33)

Precedenti capitoli:

pionieri e nativi: anatomia di un incontro (30) &

pionieri e nativi: anatomia di un incontro (31) &

pionieri e nativi: anatomia di un incontro (32)

Prosegue in:

una fotografia (analisi e considerazioni…)

 

 

 

1

 

 

 

 

 

 

 

Il giorno di Capodanno del 1898, di primo mattino, guardai fuori

da una finestra della casa di Cambaceres. Di là dal porto esterno,

a circa 800 metri verso sud, c’era un piccolo vascello adagiato su

una secca, con lo scafo profondamente incagliato e molto inclina-

to (…sembrava guardarmi…).

Scesi alla spiaggia, spinsi la barca in acqua e cominciai a remare

verso la nave. L’incidente era avvenuto già da un po’ e la marea

si stava abbassando. L’equipaggio aveva calato una barca in mare

e, dopo aver fissato alla sua poppa un ancorotto, stava srotolando

la catena dal ponte inclinato della nave.

Sulla barca quattro uomini remavano furiosamente, mentre altri,

dal ponte, li incitavano ancor più furiosamente in francese. Grazie

agli sforzi dei rematori, la scialuppa era riuscita ad allontanarsi 

di una decina di metri dalla nave. A quel punto, la pesante cate-

na si era adagiata sul fondo del mare e tratteneva la barca come

un’ancora, così che a ogni colpo di remi balzava avanti, ma tra l’-

uno e l’altro tornava esattamente al punto dove si trovava prima

(non progrediva di un metro…).

 

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Sembrava che a nessuno fosse venuto in mente di tirare la catena

a bordo della barca e di farla sfilare man mano che avanzavano

per poi gettare l’ancora alla fine. 

Il Belgica non era meno singolare del suo equipaggio: uno strano

ibrido, né vapore né veliero, ma con qualcosa dell’uno e dell’altro.

Il suo ponte, che non si sarebbe inclinato a quel modo se avesse

spiegato le vele, era completamente ricoperto da uno strano as-

sortimento di merci. Grandi pile di carbone, rotoli di corde, slitte,

sci e tende da campo contribuivano alla confusione generale.

Mentre osservavo gli sforzi della ciurma con l’ancorotto, sul pon-

te di coperta apparve un uomo che mi salutò in un inglese dal leg-

gero accento americano. Vestito elegantemente e di bell’aspetto

doveva avere poco più di trent’anni e sprizzava energia da tutti

i pori, era di statura piuttosto bassa e snello di costituzione.

 

3

 

Si presentò come il dott. Frederick A. Cook, antropologo e medi-

co chirurgo, membro di una spedizione scientifica belga diretta 

all’Atlantico. Mi informò che la robusta nave in legno della spe-

dizione era stata appositamente equipaggiata per l’impresa. 

Dato che si era incagliata con l’alta marea, gli suggerii di allege-

rirla quanto più possibile in modo da permetterle di riprendere

il mare con la marea della sera.

Mi offrii di andare ad Harberton per prendere la chiatta da otto

tonnellate costruita da Despard. Potevano farla accostare al Bel-

gica e trasbordarvi il carico di carbone che ingrombava la coper-

ta del piroscafo, prima che giungesse l’alta marea. 

Il dottor Cook parlò al capitano in francese. 

La mia proposta fu accettata e insieme con il dottore partii per

Harberton. Tornammo con la chiatta e con un equipaggio com-

posto da yahgan e dagli ona più affidabili. Sbarcammo sulla

spiaggia più vicina due carichi di carbone e con l’arrivo dell’al-

ta marea e il favore del vento il Belgica si sfilò indenne dalla sec-

ca.

I suoi problemi tuttavia non erano finiti.

Il vento prese a soffiare così forte che gli ci vollero quasi due

ore per mettersi al riparo nel porto di Cambaceres.

 

4

 

Dalle mani consacrate alla scienza sarebbe probabilmente ingiu-

sto attendersi un particolare senso pratico, e pertanto non dovrem-

mo essere troppo severi nel condannare il lieve peccato di negligen-

za commesso dagli esploratori quando scesero a terra.

…. Seppure diretti verso il Polo Sud, il dottor Cook e gli altri scien-

ziati a bordo del Belgica erano anche interessati a tutto ciò che po-

tevano incontrare en-route. Li informai che un gruppo di ona, au-

tentici guerrieri delle foreste, con vestiti di pelle, lunghi capelli e

corpi pitturati, erano accampati a poco più di un chilometro da

Cambaceres.

I nostri ospiti manifestarono immediatamente il desiderio di fo-

tografarli. Il mattino seguente li accompagnai all’accampamen-

to. Sapendo che gli ona si sarebbero inquietati, precedetti gli

scienziati in modo da fugare i timori degli indiani.

 

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Arrivai che stavano per lasciare il campo, ma li persuasi a riman-

dare un’ora la partenza. Agli ona, uomini o donne che fossero,

non piaceva che l’occhio magico della macchina fotografica fos-

se rivolto verso di loro. Feci del mio meglio per rassicurarli; e co-

sì il dottor Cook poté scattare qualche bella fotografia, soprattut-

to alle donne, con i loro enormi fardelli aggiustati nella tipica for-

ma di sigaro e in cima uno o due marmocchi.

Terminati gli scatti (perché proprio da scatti…erano composti i

suoi ‘movimenti’…), il dottor Cook tirò fuori da un’ampia tasca

una calza con dentro un chilo scarso di caramelline dure multi-

colori, ciascuna con un semino al centro. Ne distribuì una picol-

la manciata a ciascuno dei tanti indiani presenti e si rimise in

saccoccia il mezzo chilo che gli era avanzato, dicendomi:

– Mi pare che tutti ne abbiano avute un po’.

Gli indiani non sapevano che farci con quelle strane perline,

perciò ne chiesi due o tre al dottor Cook, me le misi in bocca e

cominciai a sgranocchiarle, incurante del rischio che facevo cor-

rere ai miei denti. Gli indigeni mi imitarono. Ritenendo che la

sprezzante munificenza dell’antropologo non fosse un’adegua-

ta ricompensa per quanto gli ona avevano fatto dietro mia ri-

chiesta, ne feci venire due a casa mia e diedi loro un sacco di 

farina.

 

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Era sempre un dono gradito per fare il damper, un particolare

tipo di pane senza lievito e cotto nella cenere. 

Prima che si allontanassero dalle nostre coste per proseguire

nel loro viaggio verso sud, portai gli scienziati ad Harberton

e li presentai a mio padre. Il dottor Cook si mostrò molto inte-

ressato al dizionario yahgan-inglese su cui egli a quell’epoca

aveva speso più di trent’anni di fatiche e riflessioni.

Si parlò di una sua pubblicazione.

Tra le difficoltà maggiori c’era quella dei caratteri di stampa.

Papà si era servito del sistema fonetico di Ellis, ma aveva

dovuto apportarvi numerose modifiche e aggiunte per adat-

tarlo alla pronuncia yahgan di diversi termini.

Il dottor Cook gli assicurò che negli Stati Uniti esisteva una

società specializzata in lingue indigene americane, che dispo-

neva delle risorse necessarie (faceva tante promesse, mentre

degustava una immensità di portate, che una indigena gli

offriva durante questa conversazione….) per stampare l’ope-

ra e si disse convinto che sarebbe stata lieta di farlo…..

 

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Si offrì di prelevare il manoscritto in modo del tutto discreto,

con gli stessi scatti delle sue fotografie, sul momento. Era al-

la seconda bottiglia, e alla quinta portata. Papà temeva, però,

che il prezioso volume potesse perdersi tra i ghiacci polari

e non volle separarsene. Promise al dottor Cook di consegnar-

glielo al ritorno del Belgica dell’Antartico, sperando di veder-

lo in migliori condizioni di sobrietà.

Fummo tutti sollevati dal suo rifiuto, compresa l’improvvisa-

ta oste, alquanto preoccupata dall’ingordigia del dott…, dato

che nessuno in quel luoghi nutriva una grande stima per le

doti nautiche del capitano e dell’intero equipaggio della nave.

Neppure della loro famelica cultura… notammo… in silenzio…

Si erano incagliati su una secca segnalata dal kelp e da una lin-

gua di terra che la collegava alla spiaggia.

… Per gli stessi buoni motivi declinai i pressanti inviti a unirmi

a loro nella spedizione nelle regioni polari…..

(E. Lucas Bridges, Ultimo confine del mondo)

 

 

 

 

 

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PIONIERI e NATIVI: anatomia di un incontro (33)ultima modifica: 2013-03-19T00:00:00+01:00da giuliano106
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