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conversazione con il grande capo 2
Da:
– Sai una cosa, Capo? Stavo ricordando tempi passati….nella Valle
Willamette….raccoglievo fagioli nei dintorni di Eugene e mi rite-
nevo maledettamente fortunato per aver trovato quel lavoro.
Erano i primi anni Trenta, e non molti giovani riuscivano a lavo-
rare.
Io ci riuscii dimostrando al capoccia dei braccianti che potevo co-
gliere fagioli con la stessa sveltezza di uno qualsiasi degli adulti.
In ogni modo, ero il solo ragazzo nelle file; intorno a me non ave-
vo altro che uomini fatti.
E, dopo aver tentato un paio di volte di attaccare discorso con lo-
ro, capii che non volevano ascoltarmi… un piccolo e scarno pel di
carota coperto di stracci a scacchi, figurarsi.
Pertanto tenni la bocca chiusa.
Ce l’avevo a tal punto con loro, perché non mi avevano ascoltato, che
continuai a tacere per tutte e quattro le settimane durante le quali col-
si fagioli in quei campi, lavorando accanto a loro e ascoltandoli cicala-
re di questo zio o di quel cugino.
Oppure, se qualcuno non si presentava al lavoro, pettogolare di lui.
Quattro settimane e non un pigolio mi uscì dalle labbra.
Finché pensai: per Dio, hanno dimenticato che so parlare, questi fos-
sili di bastardi.
Ma continuai ad aspettare.
Poi, l’ultimo giorno, mi scucii la bocca e andai a dire a tutti quanti
che erano uno schifoso branco di stronzi!
– Una cosa mi stavo domandando, Capo: non parli perché aspetti
l’occasione favorevole, perché aspetti il giorno in cui deciderai di
cantargliele chiare?
– No, rispose,
– Non potrei.
– Non potresti dargli quello che meritano? E’ più facile di quanto
tu creda.
– Tu sei….molto più grosso, molto più forte di me, farfugliai.
– Come, come? Non ho capito bene, Capo.
Riuscii a deglutire un po’ di saliva e a inumidirmi la gola.
– Tu sei più grosso e più forte di me. Tu puoi farlo.
– Io? Stai scherzando? Cribbio, ma guardati! Sei più alto dell’intera
testa di ogni altro nella corsia. Non c’è uomo, qui, che non potresti
conciare per le feste, questa è la sacrosanta verità!
– No, sono di gran lunga troppo piccolo. Un tempo ero grosso, ma
ora non più. Tu sei il doppio di me.
– Ehi, figliolo, ti ha proprio dato di volta il cervello, eh?
La prima cosa che vidi, quando entrai qui dentro, fosti tu seduto su
quella sedia, grande come una dannata montagna. Te lo assicuro, sono
stato dappertutto, a Klamath, nel Texas e nell’Oklahoma, e nei dintorni
di Gallup, e, giuro, tu sei il pellerossa più grosso che abbia mai vedu-
to.
– Sono della Gola del Columbia, disse, e lui aspettò che continuassi.
– Mio padre era un grande Capo e si chiamava Tee Ah Millattona.
Significa IL-Pino-Che-Svetta-Più-Alto-Sulla-Montagna, anche se non
abitavamo su una montagna. Era davvero grande durante la mia
fanciullezza. Mio padre diventò due volte più grande.
– Devi avere avuto un vero gigante di vecchia. Quanto era alta?
– Oh…alta, alta.
– Sì, ma in metri e centimetri, dico?
– Metri e centimetri? Un tizio al parco dei divertimenti la squadrò
e disse che era alta più di un metro e settanta e pesava più di ses-
santa chili, ma questo perché si limitò a guardarla. Diventò sem-
pre più grande.
– Ah sì? Più grande quanto?
– Più grande di mio padre e di me messi insieme.
– Cresceva a vista d’occhio, eh? Be’, questa mi riesce nuova.
Non avevo mai sentito dire una cosa simile di un pellerossa.
– Non era una pellerossa, era una donna di città di Le Delles.
– E si chiamava come? Bromden? Oh, capisco, aspetta un momen-
to.
Rifletté per qualche momento, poi disse:
– E quando una donna di città sposa un pellerossa, sposa qualcuno
che è inferiore a lei, non è così? Sì credo di capire.
– No, non fu soltanto lei a sminuirlo. Tutti ce l’avevano con lui per-
ché era grande, e non voleva cedere, e faceva quello che gli pareva.
Tutti se la prendevano con lui, proprio come se la stanno prenden-
do con te.
– Tutti chi, Capo?
Egli domandò con dolcezza, improvvisamente serio.
– La Cricca. Lo tormentò per decenni…
(Ken Kesey, Qualcuno volò sul nido del cuculo)