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Mi unii alla grande carovana del dio-re, che agli inizi di dicembre
lasciò Gyantse per dirigersi a sud.
Durante il viaggio il clima divenne ancora più freddo.
Com’era tipico degli inizi d’inverno tibetani, verso mezzogiorno
le ampie distese degli altipiani cominciavano a essere spazzate da
tempeste di sabbia simili a uragani, per cui bisognava arrotolare
in fretta i vessilli.
Da giorni vedevamo in lontananza la piramide possente del Cho-
molhari, alto 7328 metri, a ovest del quale sorgeva il capoluogo
della provincia di Phari, la nostra prossima meta. Per arrivarci
dovevamo attraversare il grande altopiano di Tuna.
Per combattere il freddo viaggiavamo a piedi, compreso il Dalai
Lama, sostenuto da due abati. Per i nobili si trattava di un’espe-
rienza del tutto nuova, e la fotografia che riuscii a scattare in
quella circostanza dice più di tante parole.
Dopo ore di marcia, bisognava allestire l’accampamento per uo-
mini e animali. Eravamo ancora sul terreno scoperto e ventoso
dell’altopiano, ma verso il tardo pomeriggio l’aria si calmava.
Si potevano spiegare i vessilli, e mentre, già immersi nel freddo
e nell’ombra, montavamo le tende, sulla cresta del Chomolhari
vedemmo una immensa striscia di neve orizzontale illuminata
dal sole calante.
Durante la lunga marcia avevo riflettuto sulla sicurezza del Dalai
Lama. I cinesi erano nel Tibet orientale già da tre mesi, e i 400
chilometri quadrati dell’altopiano di Tuna costituivano una pista
d’atterraggio ideale per i loro aerei.
D’altra parte un aereo avrebbe anche potuto essere il modo più
rapido per portare al sicuro il Dalai Lama. Io ero sempre stato a
favore della scelta dell’esilio, prima e dopo l’invasione, perché
credevo che ciò avrebbe aumentato le possibilità del Dalai Lama
di tornare un giorno in un Tibet libero; lo si può leggere pure
nelle memorie di Sua Santità.
Alla fine di maggio giunse da Pechino la notizia che i delegati
del Dalai Lama, guidati dal ministro Ngabo, avevano firmato
un accordo in 17 punti con i cinesi su cui avevano apposto il
sigillo di Stato.
Era chiaro che un simile accordo poteva essere stato estorto
solo con la forza; inoltre il sigillo del governo del Tibet si tro-
vava con il Dalai Lama presso il monastero di Dungkhar.
Quindi il timbro sul documento era sicuramente un falso.
Il destino del Tibet sembrava segnato: l’accordo non lasciava
dubbi riguardo al fatto che il paese fosse da considerarsi par-
te della Cina.
Come si sarebbe comportato adesso il Dalai Lama?
Avrebbe deciso di accettare l’accordo e di tornare a Lhasa op-
pure di andare in esilio e di combattere da lì contro gli invasori?
Il Dalai Lama ascoltò la notizia via radio.
Cercai di immaginare i sentimenti di quel sovrano poco più che
bambino: la situazione doveva sembrargli sconfortante.
Soltanto la sua intelligenza, il suo senso di responsabilità e la
sua calma interiore potevano aiutarlo a sostenere l’assedio dei
tanti consiglieri che gli presentavano ognuno una proposta di-
versa, seppure a fin di bene.
Lo ammiravo, ma purtroppo non potevo aiutarlo, per quanto gli
fossi amico. Non avemmo occasione di parlarci: qui non mi era
consentito fargli visita facilmente come al Norbulingka.
Era evidente che i vecchi monaci avevano osservato con diffiden-
za la nostra amicizia, così, in quella situazione di crisi, mi tene-
vano alla larga.
Presi congedo dal giovane sovrano con una lettera in cui gli consi-
gliavo di ‘cercare asilo in India’, come si può leggere nell’autobio-
grafia del Dalai Lama del 1990.
Il generale cinese Zhang Jingliu era atteso nella valle di Chumbi
per un colloquio con il Buddha vivente.
Io avevo deciso di proseguire per l’India…ma un altro presagio
come il terremoto del 15 agosto del 50….mi aveva scosso e turba-
to…..
(H. Harrer, La mia sfida al destino)