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Quando sono arrivato alla sorgente, sono sceso e ho legato
i muli, il sole era calato dietro un banco di nuvole nere co-
me una catena di monti rovesciata, come una carrata di
cenere scaricata laggiù, e niente vento.
Cash lo sentivo segare già a un miglio di distanza. Anche
se è in cima allo strapiombo sopra il sentiero.
– Il cavallo dov’è?
dico.
– Jewel ha preso e se n’è andato,
dice lui.
– Non c’è nessun altro che lo può acchiappare. Dovrà veni-
re su a piedi, mi sa.
– Io venir su a piedi, col mio quintale e passa?
dico io.
– Venire a piedi su per questo maledetto muro?
Se ne va lassù accanto a un albero. Peccato che il Signore
abbia fatto lo sbaglio di dare radici agli alberi e piedi e gam-
be agli Anse Bundren che mette al mondo.
Se solo avesse fatto all’incontrario, non ci sarebbe da preoc-
cuparsi che un giorno questo nostro paese rimanga disbo-
scato. O qualsiasi altro paese.
– Che cosa vuoi che faccia?
dico.
– Che resti qui a farmi spazzar via dalla contea appena
quel nuvolone si rompe?
Anche a cavallo ci sarebbe voluto un quarto d’ora per risa-
lire il pascolo fino in cima alla collina e arrivare alla casa.
Il sentiero sembra un ramo storto sbattuto dal vento con-
tro la scarpata. Sarà una dozzina d’anni che Anse è stato
in paese.
E come avrà fatto sua madre a arrivare fin lassù per farlo
nascere, lui che è figlio di sua madre.
– Vardaman è andato a prendere la corda,
dice.
Dopo un po’ appare Vardaman con la corda dell’aratro.
Ne dà un capo a Anse e viene giù per il sentiero, srotolan-
dola.
– Tienila forte,
dico.
– L’ho già segnata sul mio registro, questa visita, sicché la
metto in conto lo stesso, ci arrivi lassù in cima o non ci arri-
vi.
– Ce l’ho,
dice Anse.
– Può cominciare. Venga.
Mi prenda un accidente se capisco perché non la smetto.
Uno di settant’anni, che pesa un quintale e passa, farsi ti-
rare su e giù per un accidente di montagna con una corda.
Sarà perché prima di smettere devo arrivare al traguardo
dei 50.000 $ non riscossi sui miei registri.
– Che diavolo le è preso, a tua moglie,
dico,
– andarsi a ammalare in cima a una maledetta montagna?
– Mi dispiace, davvero,
dice lui.
Lascia andare la corda, buttata per terra e via, e si è già
avviato verso la casa.
Quassù in alto c’è ancora un po’ di luce, del colore dei fiam-
miferi di zolfo.
Cash non si volta.
Dice Vernon Tull che porta ogni asse alla finestra perché
lei la veda e dica che va bene.
Il bambino ci raggiunge.
Anse si volta a guardarlo.
– Dov’è la corda?
dice.
– E’ dove l’hai lasciata,
dico io.
– Ma non badare a quella corda. Devo tornarci giù, per
quella scarpata. Non ho nessuna intenzione di farmi tro-
vare qui dal ciclone. Una volta preso l’avvio, chissà dove
accidenti mi ritroverei.
La ragazza è in piedi accanto al letto che le fa vento.
Quando entriamo lei volta la testa e ci guarda.
Sono dieci giorni che è morta. Sarà perché è stata parte
di Anse per tanto tempo che non può neanche fare quel
cambiamento, se cambiamento è.
Mi ricordo quando ero giovane credevo che la morte fos-
se un fenomeno del corpo; ora so che è soltanto una fun-
zione della mente – della mente, dico, di chi subisce il lut-
to.
I nichilisti dicono che è la fine; i fondamentalisti, il prin-
cipio; mentre in realtà non è altro che un affittuario o una
famiglia che se ne va da un appartamento o da una città.
Ci guarda.
Soltanto gli occhi sembrano muoversi.
E’ come se ci toccassero, non con la vista o il senso, ma
come si tocca il getto di una canna, il getto nell’istante del-
l’impatto, dissociato dal boccaglio come se non ci fosse mai
passato.
Anse non lo guarda per niente.
Guarda me, e poi il bambino.
Sotto la trapunta, non è altro che una fascina di stecchi
marci.
– Be’, signora Addie,
dico.
– La ragazza non smette di far vento.
– Come sta, sorella?
dico.
La testa giace sparuta sul guanciale, a guardare il ragazzo.
– Bel momento, ha scelto per farmi venire quassù a scatena-
re una tempesta……
(W. Faulkner, Mentre morivo)