L’UOMO CON LA ‘LUPARA’ (2)

Precedente capitolo:

Messaggi & Messaggeri

Prosegue in:

Cosa è il genio…

Foto del blog:

Il Tempo & la Memoria (1)   (2)   (3)   (4)

Da:

i miei libri 

 2737274333

 

 

 

 

Da giovinetto si buccina che Tiburzi avesse indole perversa, il che

palerebbe per un delinquente-nato; tuttavia non risulta, all’esame

più diretto della sua vita, altro se non che da giovane era violento,

ed era pronto a reagire contro chi lo urtasse o gli facesse qualche

malestro.

Ma questi sono dati poco assodati; il fatto certo è che fino a trent’-

anni egli non aveva commesso alcun delitto e nemmeno alcuno di

quegli atti feroci in cui incappano sempre, e precocemente, i rei-

nati; fu a trentun’anno, nel 67, che egli per la prima volta uccise

un guardiano con cui aveva litigato; e pare che per quelle tristi

abitudini del Governo pontificio non venisse arrestato che molto

più tardi e condannato solo nel 69 a diciotto anni di galera.

 

579037342

 

Ma nel 72 fuggiva e si imbrancava in una banda brigantesca.

Da allora in poi commise due assassini, cinque omicidi o tentati-

vi di omicidi, tre grassazioni, due furti, due ferimenti, quattro

incendi; soprattutto le sue erano estorsioni, ventiquattro circa;

né mai commetteva, almeno negli ultimi anni, grassazioni nella

pubblica via; perciò sdegnò, dopo i primi anni della triste carrie-

ra, di associarsi a briganti di professione come Menichetti e An-

suini.

 

688332834

 

In genere tutti i suoi delitti di sangue non furono effetto di quella

libidine di ferocia di cui sono affetti i rei-nati, ma di quelle vendet-

te e di quelle rivendicazioni che rappresentano la giustizia nei pae-

si barbari, e senza cui la triste professione brigantesca non potreb-

be esercitarsi.

Uccise per esempio, un pastore, il Pecorelli, perché aveva ammaz-

zato un maiale al figlio Nicola, ma prima ne verificò, contando i

chiodi delle scarpe e confrontandoli colle orme lasciate nel terreno,

la sua identità, come avrebbe fatto un giudice qualunque; uccise il

collega Pastorini in una specie di vero grossolano duello provocato

da insulto; uccise il Becchinelli per metter fine agli eccessi che com-

metteva e che lo avrebbero compromesso, uccise il Gabrielli perché

lo credette una spia.

 

3273829526

 

Insomma, i delitti suoi non erano a scopo di rapina, ma esecuzioni

di spie e di neobanditi che pretendevano invadere il suo dominio e

che turbavano la tranquillità dei suoi feudatari – vulgo mantenitori.

Più volte, potendo uccidere impunemente nella macchia guardie e

carabinieri, se ne astenne e mandò ad avvisarneli poi.

‘Egli’, dice Sighele, ‘trasformò il crimine in un contratto, il frutto in

una tassa. Metamorfosi strana, in cui non sai se più ammirare l’-

astuzia di chi la compie o la vigliaccheria di chi vi si presta’.

Ed un procuratore del Re confessava a Sighele che, ‘dopo che c’è

Tiburzi, i crimini nel comune di Viterbo sono notevolmente dimi-

nuiti, perché i malfattori hanno più paura di lui di quello che non

avessero per la giustizia’.

 

578010592

 

Ed al processo di Viterbo un delegato di pubblica sicurezza di

Acquapendente disse che i proprietari consideravano il Tiburzi

come un ‘male necessario’, e gli pagavano le tasse sia per non es-

sere molestati, sia perché erano i briganti che facevano realmente

il servizio di pubblica sicurezza – confessione che equivale a dire

che il brigantaggio adempiva una vera missione sociale o politica.

E non solo purgava le macchie dai banditi e vi teneva una relati-

va giustizia, ma esercitava perfino la polizia negli scioperi, obbli-

gando i mietitori scioperanti a tornare al lavoro, col solo dispie-

gamento delle forze sue proprie.

Coi castellani, coi cacciatori viterbesi conversava da gentiluomo,

del più e del meno, senza che alcun tratto indicasse l’uomo san-

guinario.

Come i land-lords inglesi, molti mesi dell’anno s’assentava egli

dai suoi domini e viveva a Roma, a Parigi da gran signore, senza

mai atto alcuno vanitoso o impulsivo lo tradisse, il che è prova di

quella forza di inibizione che si vede solo fra i criminaloidi, e non

nei delinquenti-nati.

Per tutto ciò, per esercitare per più di ventiquattr’anni un domi-

nio incontrastato, occorse anche una singolare intelligenza, una

abilità amministrativa e strategica, ed una temperanza, una fa-

coltà di inibizione, come non hanno certo i criminali nati; ed an-

che una relativa, forse un’assoluta genialità d’azione; è il secolo

propizio che gli mancò per divenire uno Sforza, un Piccinino,

un Medici delle Bande Nere; ma quanto all’abilità personale l’-

aveva tutta, e forse era già pronta la dinastia.

E son tratti veramente Sforzeschi quelli in cui egli, solo accom-

pagnato da Fioravanti, si presenta in un cascinale ove son cin-

quanta mietitori, certo armati di falci o di flagelli, e intima loro

di farsi da parte e  lasciargli uccidere il Gabrielli.

(Cesare Lombroso, Delitto, genio, follia)

 

 

 

 

 1798792263.2

L’HANNO PRESO IN CASTAGNA (2)

Precedente capitolo:

L’hanno preso in castagna &

Mentre crescevo: l’olivo

Foto del blog:

Gente di passaggio  (1)  &  (2)

Da:

i miei libri

 

pag1

 

 

 

 

 

Le castagne, infatti hanno un alto valore nutritivo, conosciuto

fin dall’antichità.

Ma Plinio non mostrava di apprezzarle molto, tant’è vero che

scriveva:

‘Esse sono protette da una cupola irta di spine, ed è veramente

strano che siano di così scarso valore dei frutti che la natura ha

con tanto zelo occultato.

Sono più buone da mangiare se tostate, vengono anche macinate

e costituiscono una sorta di surrugato del pane durante il digiu-

no delle donne’.

Nonostante le sue riserve, erano consumate abbondantemente

dai Romani, come testimoniano Columella e Apicio. Quest’ulti-

mo offriva anche la ricetta di un piatto di castagne che poteva

sostituire le lenticchie.

A sua volta Marziale, nell’elenco delle vivande servite all’amico

Toronio, ricorda del pranzo ‘castagne a lento fuoco abbrustolite’,

provenienti dalla ‘dotta Napoli’.

Nell’alto Medioevo le castagne entrarono nel patrimonio alimen-

tare del popolo come alimento integrativo o sostitutivo del grano

grazie alla farina che se ne ricavava, o come frutti da minestra al

pari dei legumi o abbinati ai legumi, specialmente alla fava.

‘Appaiono poi le castagne’ scrive Bonvesin de la Riva ‘quelle co-

muni e quelle nobili, vendute per l’intero corso dell’anno, in

quantità immensamente abbondante, tanto ai cittadini quanto ai

forestieri.

Cucinate in diverse maniere, esse rificillano abbondantemente le

nostre famiglie.

Si fanno cuocere verdi sul fuoco e si mangiano dopo gli altri cibi

al posto dei datteri, e a mio giudizio hanno un sapore migliore di

quello dei datteri. Spesso si lessano senza guscio e, cotte,  molti le

mangiano con i cucchiai; oppure, buttata via l’acqua della cottura,

spessissimo le masticano senza pane, o anzi al posto del pane.

Si danno ai malati dopo averle dissecate al sole e poi cotte a fuoco

lento’.

I naturalisti del Rinascimento, dal Mattioli al Durante, non manca-

vano di sottolinearne i limiti accanto ai pregi, fra cui quello sorpren-

dente di essere afrodisiache.

Scriveva il Durante: ‘Le castagne arrostite sotto la cenere, e mangia-

te con pepe, con sale, o con zuccaro, son meno dure a digerire, me-

no stiticano il corpo, generano ventosità e fanno minor dolore di

testa.

Se si digeriscono danno notabile nutrimento, ma non però buono:

e per essere molto ventose provocano al coito’.

Fin dal Medioevo questi frutti sono stati considerati anche cibo

per i morti, e come tali simbolicamente omologhi alla fave e ai ceci.

A Marsiglia si consigliava di metterne sotto il cuscino per far sì che

gli spiriti non venissero a tirare per i piedi di notte.

Nella Vienne, in Francia, durante la notte che precedeva la Com-

memorazione dei Defunti ci si riuniva nei castagneti per cuocervi

le castagne.

In Piemonte, come a Venezia, venivano consumate, secondo il ri-

to, nel giorno dei Morti, ma anche a San Martino, tant’e vero che

un proverbio rammenta: ‘Oca, castagne e vino, tieni tutto per San

Martino’.

In Val d’Aosta, nel pomeriggio di Ognisanti, nei caffè e nelle

osterie venivano offerte caldarroste agli avventori, mentre nel-

le famiglie si era soliti cospargerle di grappa e di zucchero e

servirle in tavola alla fiamma.

In Liguria, ricorda il Mantovano, nel giorno dei Defunti si

mangiavano i ‘bacilli’ (fave secche) quanto i ballotti (castagne

fresche bollite con la scorza).

In Brianza si consumavano lesse sia a Ognisanti sia nella festa

della Giubianna, che si svolgeva il giovedì grasso ed era dedicata

alle donne.

Infine divennero cibo voluttario venduto dagli ambulanti nelle

vie cittadine, come accade ancora oggi, sebbene in misura mino-

re rispetto al passato. Lo testimonia un’incisione, pubblicata alla

fine del XVI secolo nel repertorio degli ambulanti: ‘Nuovo et ul-

timo ritratto di tutte le arti che vanno vendendo per la città di

Roma’, con le seguenti didascalie in funzione d’imbonimento:

 

‘Maron francesi, delicati e buoni,

mangiarli dopo il pranzo sono buoni.

O là chi è di voi che sia affamato,

eccovi i castagnacci a buon mercato.

Io vo vendendo talora i marroni

un giulio il scorzo, ma son tutti buoni.

Ecco castagne arrosto cotte adesso,

chi le vuol calde mandi presto il messo.

Gridando vo’ per Roma calde alesse

le mani spesso mi scaldo con esse.

E di giorno, e di notte vado a torno

vendendo le castagne cotte al forno.

Chi vuol mangiare dopo pasto marroni

mangi de’ miei, che son tutti buoni.

(Florario, Miti, leggende e simboli di fiori e piante)

 

 

 

 

pag2

IL VILLAGGIO (5)

Precedenti capitolo:

Il villaggio (1)  (2)  (3)  (4)

Prosegue in:

Mentre crescevo

Foto del blog:

Mentre crescevo (3)  &  (4)

Da:

i miei libri

 

 

 

 

In una certa stagione della nostra vita siamo soliti considerare

ogni pezzo di terra come possibile luogo di dimora. Per questo

ho esaminato ogni parte della campagna, per una dozzina di

miglia a partire dalla zona in cui vivo.

Con l’immaginazione ho acquistato, una dopo l’altra, tutte le fat-

torie là attorno, perché tutte erano in vendita e di tutte conosce-

vo il prezzo.

Ho attraversato le terre di ogni contadino, ne ho assaggiato le me-

le selvatiche, ho parlato con lui d’agricoltura, e ho comprato la sua

terra al prezzo richiesto – a qualunque prezzo – ipotecandolo nella

mia mente.

Ho offerto addirittura un prezzo più alto – prendendo tutto tranne l’-

atto di vendita, ché mi bastava solo la sua parola, perché io amo

parlare – e ne ho coltivato la terra, e in qualche modo anche lui

stesso: non appena finito me ne sono andato, lasciandolo conti-

nuare il lavoro che avevo iniziato.

Quest’esperienza ha spinto i miei amici a considerarmi una spe-

cie di agente immobiliare.

Potevo vivere dovunque mi fermassi, e dovunque il paesaggio mi

appariva amico.

Cos’è mai una casa, se non una sede? Meglio se è di campagna.

Scoprii molti luoghi dove abitare, luoghi che difficilmente avrei potu-

to migliorare; qualcuno lì avrebbe forse considerati troppo lontani dal

villaggio, ma per me era il villaggio a  essere troppo lontano.

Bene: “ci potrei vivere”, mi dicevo. E per un’ora vi ho trascorso una

vita, d’estate e d’inverno; vedevo come avrei potuto passarci gli anni,

affrontare l’inverno, veder giungere la primavera.

I futuri abitanti di questa regione, dovunque posino le loro case, pos-

sono star certi di essere stati preceduti.

Mi era sufficiente un pomeriggio per trasformare quella terra in un

frutteto, un boschetto, un pascolo, e per decidere quali belle quer-

ce e quali bei pini si dovesse lasciare in piedi, di fronte alla porta,

e da dove ciascun albero potesse essere visto nel modo miglio-

re; poi la lasciavo, anche incolta, ché un uomo è ricco in propor-

zione al numero di cose di cui può fare a meno.

(H.D.Thoreau, Uomini non sudditi)

 

 

 

 

 

150942027

IL VILLAGGIO (2)

Precedente capitolo:

Il villaggio

Prosegue in:

Il villaggio (3) &

Mentre crescevo…

Da:

i miei libri

 

hj11.jpgbis

 

 

 

 

 

C’erano insegne che pendevano da tutte le parti, per adescare

il viaggiatore; alcune tentavano di prenderlo per la gola, come

le insegne della taverna e della cantina; altre per la fantasia,

come le insegne dei negozi di stoffe e gioielli; altre ancora di

prenderlo per i capelli, o per i piedi, o per la camicia, come l’-

insegna del barbiere, del calzolaio o del sarto. Inoltre, c’era u-

no stabile e ancor più terribile invito a entrare in visita in ognu-

na di queste case, dove la compagnia era sempre attesa.

Di solito evitavo questi pericoli meravigliosamente: o proce-

dendo alla méta con coraggio e a precipizio, come si racco-

manda a quelli che devono fare la corsa al palo, oppure te-

nendo i miei pensieri su cose elevate, come Orfeo, il quale

‘cantando a voce spiegata le lodi degli dei sulla sua lira, co-

prì le voci delle Sirene e si tenne lontano dal pericolo’.

Talvolta sfrecciavo via all’improvviso e nessuno poteva dire

dove me ne fossi andato, ché non badavo molto essere ag-

graziato nei movimenti e non esitavo mai di fronte al buco

della siepe.

Era piacevolessimo, quando restavo in città fino a sera, lan-

ciarsi nella notte, specialmente se il tempo era buio e tem-

pestoso e da qualche brillante salotto del villaggio, o da qual-

che biblioteca, alzare le vele, con un sacco di farina di sega-

la o di granturco in spalla, verso il mio porto tranquillo, in

mezzo ai boschi, dopo avere chiuso tutto in coperta, ed es-

sermi ritirato sottocoperta con una gioiosa ciurma di pensieri,

lasciando fuori solo il mio uomo esterno, al timone, o persino

legando il timone, quando veleggiavo senza intoppi.

Avevo (ed…ho…) molti allegri pensieri, presso il fuoco in cabi-

na, ‘mentre veleggiavo’. Non fui mai tormentato o spinto fuori

rotta qualunque tempo facesse, sebbene incontrassi certe

violente tempeste.

E’ più buio di quanto si creda, nei boschi, persino nelle notti nor-

mali. Spesso dovevo alzare lo sguardo alle zone di cielo tra le

cime degli alberi, sopra il sentiero, per sapere dove mi trovavo,

e dove non c’era il sentiero carraio dovevo cercare con i piedi

la leggera traccia che avevo lasciato le altre volte che ero pas-

sato; oppure, dovevo guidarmi con certi alberi che conoscevo

e sentivo con le mani, per esempio passando tra due pini a

non più di diciotto pollici di distanza l’uno dall’altro, in mezzo ai

boschi, invariabilmente, nella notte più fonda.

(Thoreau, Walden o vita nei boschi)

 

 

 

 

 kh6

QUANDO PERSI MIO FIGLIO

Precedenti capitoli:

Quando persi (mio figlio) &

Mentre nascevo &

La Genesi

Foto del blog:

Quando persi

Mio figlio

Da:

i miei libri 

 

mio figlio

 

 

  

 

Da:  Quando persi (mio figlio)

Una spaccatura la fendeva per una ventina di metri, facen-

dosi sempre più sottile fino a perdersi nell’aerea parete.

Senza parole, Giovanni alzava lentamente la mano come

per indicare la via; finché il braccio si fermò a segnare le

rocce umide e assurde sopra la fessura.

Proprio là era successo.

Teresa guardò intorno, ai piedi, quasi cercando qualche se-

gno. Nel punto dove lei si trovava era piombato, sfracellan-

dosi, Andrea, per la rottura della corda.

Dopo nove anni lei cercava una traccia di sangue, un lem-

bo di vestito, qualche cosa dimenticata dal figlio?

No. Forse pensava ad altro.

Poi all’improvviso chiese:

– Giovanni, è vero che mi assomiglia?

– Chi?

– Andrea, no? Dicono tutti così. Tu non lo trovi?

– Ma certo, certo.

– Doveva tornare da Venezia ieri sera,

disse ancora Teresa dopo una pausa

– Si sarà fermato in paese con gli amici a fare un po’ di

festa… non credi?

Giovanni era sulle spine:

– Certo,

disse

– In paese…. probabilmente è così.

Anche lui si era seduto sopra una roccia e con pazienza

aspettava, fissando indifferentemente, dall’altra parte del

vallone, una forcelletta tra due picchi con un curioso tor-

roncino che pareva un gatto accovacciato.

– Giovanni,

fece la sorella con ansia improvvisa

– Giovanni, vero che non è successo ancora niente?

Che cosa intendeva dire? Che quei nove anni non erano

passati? Che il figlio non era ancora morto?

– Ma certo,

rispose Giovanni

– Che cosa dovrebbe essere successo?

– Perché

ribatté lei.

– Perché è oggi che questa maledetta montagna…. è oggi che

lui dovrebbe venire….

– Ma che cosa ti metti in mente Teresa? Tra poco….

Lo interruppe:

– Ci sono qui io, però…. Sono qui apposta…. Sua mamma. Vuoi

che non mi ascolti? Vuoi che non mi obbedisca? Che si ostini?…

….No, no, non deve ostinarsi,

sembrava che si lasciasse prendere dalla paura.

– Oh, Dio, mio Dio, perché devono essere così testardi questi

ragazzi?

– Ma no, Teresa,

cercò di consolarla lui, genericamente, senza però capire be-

ne che cosa lei intendesse

– Vedrai che tutto si sistemerà.

Teresa parve tranquillizzarsi, si aggiustò il fazzoletto sui ca-

pelli. Poi si volse a esaminare di nuovo la parete incombente.

I suoi sguardi parevano divorarla. Nel silenzio, dalle profon-

dità del vallone, uscì una voce: Glup! o un suono simile, sor-

do e sinistro.

– Che cos’è?

chiese Teresa con apprensione.

 

mio figlio

 

– Niente. E’ il ghiaccio che si spacca,

spiegò Giovanni e fece segno a un ghiacciaietto acquattato

sotto le pareti di fronte, tutto striato di crepe nere e insudi-

ciate dai detriti.

‘Glup!’ si udì ancora, più piano, e subito dopo uno scroscio

di sassi cadenti che si perse a poco a poco.

E fino a quando staremo qui a aspettare? pensava Giovan-

ni, cominciando a impazientirsi.

Intanto il tempo passava sulle rupi deserte, non c’era né

vento né freddo.

Quand’ecco Teresa si levò in piedi d’impeto, tenendo un

braccio verso il basso:

– Là, là….. guardalo!….. E’ lui!…..

gridava, ma non le usciva dalla gola che una voce spenta.

Giovanni si sentì mancare il fiato. guardò verso i ghiaioni

e vide uno che di buon passo saliva per il sentierino con una

specie di rabbioso impegno.

– E’ lui, è lui, Andrea. Adesso viene,

balbettava la mamma. E poi, smarrita:

– Dio, aiutami, ora aiutami!

come disponendosi a una prova.

Ma Giovanni, esaminando con occhio pratico il solitario

alpinista, si era subito tranquillizzato.

Non era Andrea, quello. Grazie a Dio gli spettri non gira-

no per le montagne. Un vago dubbio tuttavia gli restava.

– Teresa,

disse

– Guarda che non è mica lui.

– Oh, adesso non farmi impazzire. Non vedi in che stato

sono? Perché vuoi tormentarmi? Chi vuoi che sia, oggi,

se non è lui?

Era ancora lontano l’uomo, poco più di un puntino ai pie-

di delle solitarie pareti. Continuava alacremente a salire

con passo da giovane e lieto. Ma quando fu arrivato al

punto dove loro due avevano piegato a sinistra continuò

diritto dirigendosi al versante opposto.

– Guarda, Giovanni!

balbettò Teresa.

– Dove va adesso? Madonna, che cosa faccio io?

Era salita fin lassù – pareva dire – per impedirgli di anda-

re alla morte, si era messa in agguato ai piedi della parete

destinata; e lui adesso le sfuggiva.

– Andrea! Andrea!

gridò, sperando di fermarlo.

Ma lo spazio era immenso.

L’omino si fermò, probabilmente per cercare intorno donde

venisse quel richiamo, quindi proseguì deciso.

Teresa gridò ancora, ma inutilmente. Finché lo vide inerpi-

carsi attraverso il piccolo ghiacciaio per la linea della mas-

sima pendenza. Si fermò soltanto sotto le rocce, là dove si

innalzava un precipitoso spigolo nerastro, solcato da lugu-

bri camini.

– Andrea! Andrea!

Ma l’uomo, arrampicandosi agilmente su quelle rocce, di-

sparve entro un canale tenebroso. A quella distanza non

era possibile distinguerlo.

Giovanni lasciò passare qualche minuto.

– Teresa,

poi disse, persuasivo

– Hai visto? Non è venuto….. Tra poco piove…. Vuoi che

scendiamo?

Ma la donna era tesa ad ascoltare, in un’ansia massima,

tremando lievemente.

– Teresa,

fece lui allarmato

– Cos’hai, Teresa?

– Dio! Lo sapevo!

gemette la donna.

In quell’istante stesso, dall’opposto lato del vallone, giun-

se il fragore sinistro di una frana.

Giù dalla parete, lungo il tetro camino, sassi scrosciavano

in rovina e in mezzo parve di udire anche un grido acuto,

umano, tosto spento nel rimbombo delle pietre. Una coda

di polvere serpeggiò giù per la rupe perdendosi sul picco-

lo ghiacciaio.

Poi tornò il silenzio.

(Dino Buzzati, I fuorilegge della montagna, Uno strano

caso in montagna)

 

In memoria di Giovanni Segantini

 

 

 

 

mio figlio