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Da giovinetto si buccina che Tiburzi avesse indole perversa, il che
palerebbe per un delinquente-nato; tuttavia non risulta, all’esame
più diretto della sua vita, altro se non che da giovane era violento,
ed era pronto a reagire contro chi lo urtasse o gli facesse qualche
malestro.
Ma questi sono dati poco assodati; il fatto certo è che fino a trent’-
anni egli non aveva commesso alcun delitto e nemmeno alcuno di
quegli atti feroci in cui incappano sempre, e precocemente, i rei-
nati; fu a trentun’anno, nel 67, che egli per la prima volta uccise
un guardiano con cui aveva litigato; e pare che per quelle tristi
abitudini del Governo pontificio non venisse arrestato che molto
più tardi e condannato solo nel 69 a diciotto anni di galera.
Ma nel 72 fuggiva e si imbrancava in una banda brigantesca.
Da allora in poi commise due assassini, cinque omicidi o tentati-
vi di omicidi, tre grassazioni, due furti, due ferimenti, quattro
incendi; soprattutto le sue erano estorsioni, ventiquattro circa;
né mai commetteva, almeno negli ultimi anni, grassazioni nella
pubblica via; perciò sdegnò, dopo i primi anni della triste carrie-
ra, di associarsi a briganti di professione come Menichetti e An-
suini.
In genere tutti i suoi delitti di sangue non furono effetto di quella
libidine di ferocia di cui sono affetti i rei-nati, ma di quelle vendet-
te e di quelle rivendicazioni che rappresentano la giustizia nei pae-
si barbari, e senza cui la triste professione brigantesca non potreb-
be esercitarsi.
Uccise per esempio, un pastore, il Pecorelli, perché aveva ammaz-
zato un maiale al figlio Nicola, ma prima ne verificò, contando i
chiodi delle scarpe e confrontandoli colle orme lasciate nel terreno,
la sua identità, come avrebbe fatto un giudice qualunque; uccise il
collega Pastorini in una specie di vero grossolano duello provocato
da insulto; uccise il Becchinelli per metter fine agli eccessi che com-
metteva e che lo avrebbero compromesso, uccise il Gabrielli perché
lo credette una spia.
Insomma, i delitti suoi non erano a scopo di rapina, ma esecuzioni
di spie e di neobanditi che pretendevano invadere il suo dominio e
che turbavano la tranquillità dei suoi feudatari – vulgo mantenitori.
Più volte, potendo uccidere impunemente nella macchia guardie e
carabinieri, se ne astenne e mandò ad avvisarneli poi.
‘Egli’, dice Sighele, ‘trasformò il crimine in un contratto, il frutto in
una tassa. Metamorfosi strana, in cui non sai se più ammirare l’-
astuzia di chi la compie o la vigliaccheria di chi vi si presta’.
Ed un procuratore del Re confessava a Sighele che, ‘dopo che c’è
Tiburzi, i crimini nel comune di Viterbo sono notevolmente dimi-
nuiti, perché i malfattori hanno più paura di lui di quello che non
avessero per la giustizia’.
Ed al processo di Viterbo un delegato di pubblica sicurezza di
Acquapendente disse che i proprietari consideravano il Tiburzi
come un ‘male necessario’, e gli pagavano le tasse sia per non es-
sere molestati, sia perché erano i briganti che facevano realmente
il servizio di pubblica sicurezza – confessione che equivale a dire
che il brigantaggio adempiva una vera missione sociale o politica.
E non solo purgava le macchie dai banditi e vi teneva una relati-
va giustizia, ma esercitava perfino la polizia negli scioperi, obbli-
gando i mietitori scioperanti a tornare al lavoro, col solo dispie-
gamento delle forze sue proprie.
Coi castellani, coi cacciatori viterbesi conversava da gentiluomo,
del più e del meno, senza che alcun tratto indicasse l’uomo san-
guinario.
Come i land-lords inglesi, molti mesi dell’anno s’assentava egli
dai suoi domini e viveva a Roma, a Parigi da gran signore, senza
mai atto alcuno vanitoso o impulsivo lo tradisse, il che è prova di
quella forza di inibizione che si vede solo fra i criminaloidi, e non
nei delinquenti-nati.
Per tutto ciò, per esercitare per più di ventiquattr’anni un domi-
nio incontrastato, occorse anche una singolare intelligenza, una
abilità amministrativa e strategica, ed una temperanza, una fa-
coltà di inibizione, come non hanno certo i criminali nati; ed an-
che una relativa, forse un’assoluta genialità d’azione; è il secolo
propizio che gli mancò per divenire uno Sforza, un Piccinino,
un Medici delle Bande Nere; ma quanto all’abilità personale l’-
aveva tutta, e forse era già pronta la dinastia.
E son tratti veramente Sforzeschi quelli in cui egli, solo accom-
pagnato da Fioravanti, si presenta in un cascinale ove son cin-
quanta mietitori, certo armati di falci o di flagelli, e intima loro
di farsi da parte e lasciargli uccidere il Gabrielli.
(Cesare Lombroso, Delitto, genio, follia)