L’INVASIONE (2)

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l’invasione &

al cinema con il Dalai Lama 

Prosegue in:

catturato in Tibet

La Genesi in:

il giardino dell’eden (11)

Da:

i miei libri &

Frammenti in rima

 

l'invasione 2

 

 

 

 

 

 

Mi unii alla grande carovana del dio-re, che agli inizi di dicembre

lasciò Gyantse per dirigersi a sud.

Durante il viaggio il clima divenne ancora più freddo.

Com’era tipico degli inizi d’inverno tibetani, verso mezzogiorno

le ampie distese degli altipiani cominciavano a essere spazzate da

tempeste di sabbia simili a uragani, per cui bisognava arrotolare

in fretta i vessilli.

 

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Da giorni vedevamo in lontananza la piramide possente del Cho-

molhari, alto 7328 metri, a ovest del quale sorgeva il capoluogo

della provincia di Phari, la nostra prossima meta. Per arrivarci

dovevamo attraversare il grande altopiano di Tuna.

Per combattere il freddo viaggiavamo a piedi, compreso il Dalai

Lama, sostenuto da due abati. Per i nobili si trattava di un’espe-

rienza del tutto nuova, e la fotografia che riuscii a scattare in

quella circostanza dice più di tante parole.

 

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Dopo ore di marcia, bisognava allestire l’accampamento per uo-

mini e animali. Eravamo ancora sul terreno scoperto e ventoso

dell’altopiano, ma verso il tardo pomeriggio l’aria si calmava.

Si potevano spiegare i vessilli, e mentre, già immersi nel freddo

e nell’ombra, montavamo le tende, sulla cresta del Chomolhari

vedemmo una immensa striscia di neve orizzontale illuminata

dal sole calante.

 

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Durante la lunga marcia avevo riflettuto sulla sicurezza del Dalai

Lama. I cinesi erano nel Tibet orientale già da tre mesi, e i 400

chilometri quadrati dell’altopiano di Tuna costituivano una pista

d’atterraggio ideale per i loro aerei.

D’altra parte un aereo avrebbe anche potuto essere il modo più

rapido per portare al sicuro il Dalai Lama. Io ero sempre stato a

favore della scelta dell’esilio, prima e dopo l’invasione, perché

credevo che ciò avrebbe aumentato le possibilità del Dalai Lama

di tornare un giorno in un Tibet libero; lo si può leggere pure

nelle memorie di Sua Santità.

Alla fine di maggio giunse da Pechino la notizia che i delegati

del Dalai Lama, guidati dal ministro Ngabo, avevano firmato

un accordo in 17 punti con i cinesi su cui avevano apposto il

sigillo di Stato.

 

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Era chiaro che un simile accordo poteva essere stato estorto

solo con la forza; inoltre il sigillo del governo del Tibet si tro-

vava con il Dalai Lama presso il monastero di Dungkhar. 

Quindi il timbro sul documento era sicuramente un falso.

Il destino del Tibet sembrava segnato: l’accordo non lasciava

dubbi riguardo al fatto che il paese fosse da considerarsi par-

te della Cina.

Come si sarebbe comportato adesso il Dalai Lama?

Avrebbe deciso di accettare l’accordo e di tornare a Lhasa op-

pure di andare in esilio e di combattere da lì contro gli invasori?

Il Dalai Lama ascoltò la notizia via radio.

Cercai di immaginare i sentimenti di quel sovrano poco più che

bambino: la situazione doveva sembrargli sconfortante.

Soltanto la sua intelligenza, il suo senso di responsabilità e la

sua calma interiore potevano aiutarlo a sostenere l’assedio dei

tanti consiglieri che gli presentavano ognuno una proposta di-

versa, seppure a fin di bene.

 

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Lo ammiravo, ma purtroppo non potevo aiutarlo, per quanto gli

fossi amico. Non avemmo occasione di parlarci: qui non mi era

consentito fargli visita facilmente come al Norbulingka. 

Era evidente che i vecchi monaci avevano osservato con diffiden-

za la nostra amicizia, così, in quella situazione di crisi, mi tene-

vano alla larga.

Presi congedo dal giovane sovrano con una lettera in cui gli consi-

gliavo di ‘cercare asilo in India’, come si può leggere nell’autobio-

grafia del Dalai Lama del 1990.

Il generale cinese Zhang Jingliu era atteso nella valle di Chumbi

per un colloquio con il Buddha vivente.

Io avevo deciso di proseguire per l’India…ma un altro presagio

come il terremoto del 15 agosto del 50….mi aveva scosso e turba-

to…..

(H. Harrer, La mia sfida al destino) 

 

 

 

 

 

 

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L’INVASIONE (2)

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I cinesi invasero il Tibet il ventitreesimo giorno del nono mese

dell’anno della tigre di ferro – o, secondo il nostro calendario,

il 7 novembre 1950.

Avevano atteso questo momento fin da quando 37 anni prima

i loro predecessori Manchu erano stati cacciati via da Lhasa in

modo umiliante.

Uno tra i primi ad apprendere che avevano oltrepassato la fron-

tiera fu un inglese di nome Robert Ford.

Impiegato del governo tibetano in qualità di operatore radio,

era stato destinato alla remora città di Chamdo, circa 800 chilome-

tri a est di Lhasa e a un centinaio dal confine cinese.

 

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Per via dell’estremo isolamento del luogo, l’ex sergente istruttore

della RAF era definito dai quotidiani in Inghilterra come ‘il britan-

nico più solitario al mondo’.

La sua solitudine sarebbe diventata presto assoluta.

I cinesi infattti, schiacciando ogni resistenza tibetana, attaccarono da

est. Nel giro di pochi giorni Chamdo – e con essa Robert Ford – fu

nelle loro mani. Non prima, però, che l’inglese fosse riuscito a lancia-

re l’allarme sull’invasione a Lhasa.

 

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Se avesse voluto, avrebbe fatto in tempo a fuggire verso ovest per

salvarsi la pelle. Invece lavorò freneticamente al suo radio-trasmetti-

tore, riferendo man mano a Lhasa i progressi dell’avanzata cinese nel 

Tibet orientale. 

Quando alla fine abbandonò la radio per dirigersi verso la salvezza

insieme alle truppe tibetane in ritirata, era troppo tardi. I tibetani

catturati furono semplicemente disarmati e spediti a casa.

Ford fu preso prigioniero.

 

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La dedizione al dovere gli costò i quattro anni successivi della

sua vita, che passò sopportando interrogatori implacabili e la-

vaggi del cervello in una prigione comunista.

L’invasione, in verità non era avvenuta senza preavviso. 

In precedenza quell’anno, subito dopo aver preso il potere,

i comunisti cinesi avevano annunciato pubblicamente che

consideravano il Tibet parte dello Stato sovrano della Cina,

avvertendo che si riproponevano a breve di liberarlo dall’

imperialismo britannico e americano e ricongiungerlo una volta

per tutte alla grande madre-patria.

 

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Dalla sua remota postazione d’ascolto, Ford stesso aveva sentito il

notiziario in tibetano della radio di Pechino annunciare che questo

era uno dei compiti dell’esercito di liberazione del popolo per il

1950.

Aveva passato questa informazione a Lhasa, insieme alle altre 

notizie che monitorava regolarmente dalla radio cinese, nella

sgradevole consapevolezza di essere proprio un esempio di 

imperialismo che i cinesi intendevano debellare.  

Per mesi le autorità di Lhasa avevano tenuto sott’occhio con cre-

scente apprensione la Cina comunista, con il suo credo ateistico

e il potere militare che si andava rapidamente rafforzando.

Ora che le intenzioni di Pechino verso il Tibet all’improvviso 

diventavano chiare, l’Assemblea Nazionale inviò urgenti richieste

d’aiuto al mondo esterno.

 

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Furono spediti telegrammi a Gran Bretagna, Stati Uniti, India

e Nepal.

Il Dalai Lama, all’epoca solo sedicenne, ricorda nelle sue memo-

rie: 

Le risposte ai telegrammi furono tremendamente scoraggianti. Il

governo britannico espresse la sua più profonda solidarietà al 

popolo del Tibet, rammaricandosi che la nostra posizione geografica

e il fatto che all’India fosse stata concessa l’indipendenza non 

permettessero loro un aiuto diretto. Il governo degli Stati Uniti 

rispose a sua volta, allo stesso modo, e rifiutò di ricevere la nostra

delegazione. Anche il governo indiano disse esplicitamente che non

avrebbe fornito un aiuto militare e ci consigliò di non opporre 

alcuna resistenza armata, ma di aprire ai negoziati per un accordo

pacifico. 

Ancora una volta, nel momento del bisogno i tibetani scopriro-

no di essere soli…..

(Peter Hopkirk, Alla conquista di Lhasa)

 

 

 

 

 

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