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(Dedicato all’anima di una donna ed alla….nostra…
causa…)
Introduzione da il Libro Tibetano dei Morti
Il Bar do t’os sgrol è conosciuto dal pubblico europeo fin dal
1927, quando l’Evans Wents ne pubblicò la traduzione fatta
dal suo maestro il Kazi Dava-samdup e da lui messa in buon
inglese.
Il libro destò grande interesse e seguirono nuove versioni in
altre lingue. Tutti ormai lo conoscono col titolo che gli dette
il suo primo divulgatore: il LIBRO TIBETANO DEI MORTI.
E’ un titolo letteralmente ben scelto; colpisce il lettore, e dà
a prima vista un’indicazione generica sull’argomento del
volume.
Il trattato si svolge ai morituri o ai morti: non serve ai vivi,
o serve soltanto perché, per ogni vivente, verrà il giorno della
morte, quando le cose dette in questo brevario dovranno tornar
chiare ed efficaci alla mente e confortare nel difficile momento.
Ma è anche vero che questo titolo può condurre fuori strada,
richiamando alla memoria il libro dei morti egiziano, il quale
esprime tuttavia una concezione religiosa ed escatologica tutta
diversa da quella tibetana.
Gli Egiziani cercarono di salvare il corpo dal corrompimento
che fatalmente dissolve ogni cosa creata: l’integrità del corpo
è necessaria per la continuazione della vita nell’oltretomba.
Per i Tibetani il cadavere si brucia o si squarta o si abbandona
sulle montagne, perché le bestie da preda e gli uccelli lo
divorino.
Per gli Egiziani la morte è definitiva, delimita due mondi.
La sopravvivenza nel mistero che essa dischiude è sopravvivenza
individua; cioè della medesima creatura che già visse in questo
mondo e così perdura con le stesse parvenze e lo stesso nome.
Per i Tibetani la morte è o il comincimento di una nuova vita,
come accade per le creature che la luce della verità non rigenerò
e trasse a salvazione, o il definitivo disparire di questa fatua
personalità – effimera e vana come riflesso della luna sull’acqua –
nella luce indiscriminata della coscienza cosmica, infinita
potenzialità spirituale.
Continuare ad esistere in una qualunque forma di esistenza,
anche come dio, è dolore: perché esistenza vuol dire divenire,
e il divenire è l’ombra dell’essere, un sempre rinnovato corrom-
pimento, un non mai soddisfatto desiderio, una pena che mai
si placa.
La pace è, nel dissolversi inconsapevole in quella luce incolore
da cui tutte le cose traggono nascimento e che, senza che ne
siamo consapevoli, brilla in noi stessi.
Per dirlo con altre parole, quando si muore, sono due le vie
che a noi si aprano: o un definitivo spegnimento della creatura
singola che è la sorte degli Eletti; oppure la rinascita, che attende
chi non seppe comprendere che tutto è sogno. Per la qual cosa,
questo trattato dovrebbe essere piuttosto conosciuto, anziché
come il libro dei morti, col suo vero nome tibetano che significa
libro della salvazione, o traducendo alla lettera: ‘il libro che
conduce alla salvazione dell’esistenza intermedia per il solo sentirlo
recitare’, perché la sua recitazione evoca il principio cosciente
del morituro o del defunto la verità redentrice.
(Il Libro Tibetano dei Morti)
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