GNOSI PAGANA (2)

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Gnosi Pagana

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Gnosi Pagana (3/63) &

Gnosi Pagana (4/64)

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Gnosi

Pagana

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gnosi pagana 2

 

 

  

 

(Gnosi Pagana)

Il vero Dio, il buon Dio, sarà un Dio nascosto, inconosci-

bile. Il Dio del saggio si conosceva attraverso la sola

contemplazione dell’ordine, espressa sovranamente dal-

la volta stellata.

Dio si confondeva infatti con questo stesso ordine, oppu-

re era il Pensiero fonte di tale ordine. Ne deriva che per

il saggio ammirare l’ordine, conoscere Dio e adorarlo è

tutt’uno. 

Novit et colit.

Nello gnosticismo bisogna ribaltare i due termini.

Colit et novit.

Il vero Dio è un Dio che non si può comprendere median-

te la sola considerazione del mondo, poiché il mondo è

cattivo, rifugio del male.

Si lascia contemplare unicamente attraverso la rivelazio-

ne concessa soltanto a un piccolo numero di eletti. Que-

sti, a loro volta, andranno a predicare agli altri uomini la

verità ricevuta.

Colui che li ascolta è libero di aderire a tale parola o di 

rifiutarla; può credere o dubitare: il fondamento della re-

ligione è d’ora innanzi una fede.

Nell’ermetismo s’incontra tutta una dottrina sulla fede, 

questa dottrina è un tratto essenziale della corrente erme-

tica: la fede è una condizione indispensabile alla gnosi.

Lo spirito stesso della religione finisce per essere trasfor-

mato da tale condizione iniziale.

Il saggio, scorgendo Dio nel mondo, contemplava il mon-

do e adorava Dio: la sua preghiera si riassumeva nella con-

templazione.

Lo gnostico crede in un Dio invisibile che non gli mostra

nulla di visibile. Non ha potuto avvicinarsi a Dio, in origi-

ne, se non sulla parola di un testimone. 

Anche questa richiede un favore celeste: la conoscenza è 

un dono di Dio, una grazia. La preghiera dello gnostico è

quindi innanzi tutto una preghiera di domanda, e il primo

oggetto della domanda è il dono della conoscenza. 

Non esiste conoscenza che non sia stata preceduta da una

preghiera. 

Non vi è gnosi senza devozione.

Il solo cammino verso Dio è la devozione accompagnata 

dalla conoscenza. 

Se il Dio degli gnostici è un Dio nascosto, se la gnosi è, in

origine la ricompensa di un atto di fede, è naturale, è psi-

cologicamente necessario, che lo gnostico provi il bisogno

di consolidarsi nella fede.

Un moto naturale dell’anima lo induce a ottenere da alcu-

ni segni sensibili la doppia certezza: di conoscere realmen-

te il proprio Dio e di esserne personalmente conosciuto.

Tutto dipende dalla logica interna di questo sistema: la 

fede in un  Dio nascosto (Straniero) esige come corollario

un’esperienza che renda autentica la fede nella sua quali-

tà di figlio di Dio e che egli gli garantisca l’unione con Dio

dopo la morte, vale a dire la risalita, fuori dal mondo, fino

al luogo ipercosmico…

(Prosegue…)

   

 

 

 

gnosi pagana 2

FUORI E DENTRO IL SUO GRANDE UNIVERSO

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infinito e zero (ugual pensiero di Dio)

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Un Eretico risponde ad un Papa

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fuori e dentro il suo grande universo

 

 







Così come altre religioni orientali, l’induismo era impregnato del

simbolismo della dualità.

Alla stregua dei principi yin-yang dell’Estremo Oriente e, in Medio

Oriente, del dualismo etico del Bene e del Male di Zoroastro, nella

religione Indù creazione e distruzione si intrecciano; il dio Shiva

è un agente a un tempo dell’una e dell’altra, tanto che viene

rappresentato con un tamburo della creazione in una mano e la

fiamma della distruzione in un’altra.

Shiva rappresentava, comunque, anche il nulla, essendo uno dei

volti della divinità, Nishkala Shiva, letteralmente Shiva ‘indivisi-

bile’ e ‘trascendente la forma’; egli era l’estremo vuoto, il supremo

niente, l’incarnazione dell’assenza di vita.

Però dal vuoto era scaturito l’Universo, e così parimenti l’Infinito.

A differenza dell’Universo come concepito in Occidente, il cosmo

Indù è sconfinato, con innumerevoli altri universi esistenti oltre

i limiti di quello noto agli umani.

  

fuori e dentro il suo grande universo


Al tempo stesso, però, questo cosmo, mantenne sempre qualche

cosa dell’originale vacuità; dal niente il mondo era venuto, e il 

rinnovato conseguimento del niente diveniva il fine ultimo dell’-

umanità.

Si narra come la Morte racconti dell’anima a un discepolo:

“Nel profondo del cuore di ogni creatura è l’Atman, lo Spirito, 

il Sé”.

“Più piccolo del più piccolo atomo, più grande dello spazio im-

menso”.

Codesta entità, che abita in ogni cosa, è parte dell’essenza univer-

sale ed è immortale; quando una persona muore, l’atman ne ab-

bandona il corpo accedendo ben presto a un’altra creatura, cosic-

ché l’anima trasmigra e determina la reincarnazione del defunto.

Meta degli Indù è svincolare completamente l’atman dal ciclo del-

la rinascita, arrestandone il samsara da un decesso al successivo, e

la via per ottenere la definitiva emancipazione attraverso la nega-

zione dell’esistenza consiste nel distacco dall’illusoria realtà materiale.

‘Il corpo, casa dello spirito, è in balia del piacere e del dolore’,

spiega un dio ‘e se uno è governato dal proprio corpo, costui

non potrà mai essere libero’.

 

fuori e dentro il suo grande universo


Ma nel momento in cui pervenga a separare se stessi dalle velleità

della carne e a volgersi al silenzio e al non-essere della propria

anima, allora il moksha, la liberazione, sarà raggiunto; librandosi

sopra le panie dei desideri umani, l’atman individuale potrà unir-

si alla coscienza collettiva o brahman, anima cosmica onnipervasi-

va e realtà presente ovunque e in nessun luogo al medesimo tem-

po.

Ecco, dunque, l’infinità ed ecco il nulla.

La cultura indiana era già dedita all’investigazione attiva del vuo-

to e dell’infinito, e….come tale accettò lo zero.

(C. Seife, Zero) 

 

 

 

 

 

 

fuori e dentro il suo grande universo

  

LA CENA SEGRETA

Precedenti capitoli:

il mercante di armature (1/5)

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Gli occhi di Atget:

Il giudice dei divorzi &

da Norimberga a Venezia

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la cena segreta









‘Avete sentito parlare del nuovo ospite del convento di Santa Maria?’

Leonardo era solito trascorrere le ultime ore di luce a contemplare il

suo dipinto.

Il sole del tramonto trasformava le figure sedute alla tavola in ombre

rossicce prima e in profili scuri, sinistri, poi. Si recava spesso al convento

di Santa Maria solo per ammirare la sua opera preferita e distrarsi dal

resto delle occupazioni quotidiane. Il duca lo tormentava perché

terminasse la colossale statua equestre in onore di Francesco Sforza,

un monumentale cavallo che era ormai la sua ossessione.

Tuttavia persino il Moro era consapevole che la vera passione di

Leonardo si trovava nel refettorio di Santa Maria.

Quei quasi cinque metri per nove di tempera a secco costituivano

il dipinto più grande che avesse mai affrontato. Dio solo sapeva

quando l’avrebbe terminato, ma questo particolare poco importava

al genio.

Quella sera era così assorto davanti al suo magico paesaggio umano

che Marco d’Oggiono, il più curioso discepolo del toscano, dovette

ripetere la domanda.

‘Davvero non avete sentito parlare di lui?’

Il maestro assente, scosse la testa.

Marco lo aveva trovato seduto su una cassa di legno in mezzo al

refettorio, la candida chioma sciolta, come era solito fare alla fine 

di una giornata di lavoro. 

‘No…’ esitò. ‘E’ qualcuno d’interessante, mio caro?

‘E’ un inquisitore, maestro.’

‘Dunque, un’occupazione terribile.’

‘Il caso vuole, messere, che anche lui sembri molto interessato ai

vostri segreti.’

Leonardo distolse lo sguardo dal Cenacolo e cercò gli occhi azzurri

del suo discepolo. Aveva un’espressione seria, come se la vicinanza

di un membro del Sant’Uffizio avesse risvegliato qualche arcano timore

nella sua anima.

‘I miei segreti? Ancora con queste domande, Marco? Ancora indaghi

con occhi indiscreti? Sono qui i miei segreti, te l’ho già detto ieri.

Sotto gli occhi di tutti. Da anni ho imparato che se desideri celare

qualcosa alla stupidità umana, il miglior posto per farlo è quello

in cui il mondo intero lo possa vedere. Lo capisci vero?’

Marco annuì senza troppa convinzione.

Il buon umore che il maestro esibiva il giorno precedente era del

tutto svanito.

‘Maestro, ho pensato molto a quello che mi avete detto. E credo

di aver capito qualcosa di più su questo luogo.’

‘Davvero?’

‘Nonostante il fatto che lavoriate su suolo sacro e sotto la supervisione

di uomini di Dio, nella vostra Cena non avete voluto dipingere la

prima messa di Cristo. Non è vero?’

Le sopracciglia rossiccie e folte del maestro s’inarcarono per lo stupore.

Marco d’Oggiono proseguì: ‘Non fingetevi sorpreso! Gesù non tiene

l’ostia in mano, non celebra la sua prima eucarestia. I suoi discepoli

non mangiano né bevono, e non ricevono nemmeno la benedizione.’ 

‘Perbacco’ esclamò. ‘Continua, sei sulla buona strada.’

‘Ciò che non capisco, maestro, è perché avete dipinto quel nodo

scorsoio all’estremità del tavolo. Il pane e il vino figurano nelle

Scritture; il pesce, benché non sia citato da nessun Vangelo, posso

comprenderlo come simbolo dello stesso Cristo. Ma chi ha parlato

mai di un nodo sulla tovaglia del banchetto pasquale?’

Leonardo allungò la sua mano verso d’Oggiono, chiamandolo

vicino a sé.

‘Vedo che hai cercato di entrare dentro la pittura. E questo va bene.’

‘Però sono ancora lontano dal vostro segreto, vero?’

‘Non dovresti proccuparti di raggiungere la meta, Marco. Preoccupati

solo di percorrere la strada.’

Marco spalancò gli occhi stupefatto.

‘Mi avete sentito, maestro? Non vi preoccupa che un inquisitore sia

venuto in questo convento e vada chiedendo in giro della vostra

santa Cena?

‘No.’

‘No? Tutto qui?’

‘Che cosa vuoi che ti dica? Ho faccende più importanti di cui occuparmi.

Come riuscire a terminare questa Cena e… il suo segreto’ Leonardo si

accarezzò la barba con un’espressione diverita, prima di proseguire.

‘Sai una cosa, Marco? Quando finalmente scoprirai il segreto che sto

dipingendo e sarai capace di leggerlo per la prima volta, non smetterai

più di vederlo. E ti domanderai come hai potuto essere così cieco.

Sono questi, non altri, i segreti meglio custoditi: quelli che stanno

davanti al nostro naso e non siamo capaci di vedere.’

(J. Sierra, La cena segreta)




 

 

la cena segreta

  

DALL’ALTARE ALLA POLVERE

Precedente capitolo:

Il matrimonio del cielo e dell’inferno

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Gli occhi di Atget:

I diavoli della montagna

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I diavoli della montagna

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dall'altare alla polvere,dalla polvere a nuova gloria (breve biografia di una reliquia)


 

 

 

 

 

 

 

 
 

(Breve premessa. La presente vuole essere un omaggio, con il beneficio del-

l’umorismo prestato alla storia, ad una delle tante ‘menti eccelse’ che im-

perversano nella nostra modesta cultura ereticale, nel riflesso e specchio

di una Chiesa che ci aiuta nell’ardua impresa, presa momentanea in ‘pre-

stito’ per questo scopo.

Sede delle prime preghiere di un fervido cristiano prima (uno dei tanti..),

un rivoluzionario poi… Solo uno dei tanti, uno dei troppi, cui né Mac-

chiavelli né i prodigiosi sovrani Bizantini, presterebbero la dovuta atten-

zione storica, ma che per ‘miracolo’ della politica e per suo mezzo, otten-

gono quanto la storia stenterebbe riconoscere loro (forse non solo la poli-

tica, ma prima, anche la natura…).

Ecco uno dei motivi per diffidare della politica e dei loro paladini e fieri 

uomini di corte, e coloro prestati alla ‘giustizia’. Intendiamoci, in que-

sta sede, al contrario di taluni ciarlatani e loro associati calunniatori,

non vengono formulati né nomi – cui la presente è dedicata – né i loro

misfatti o inganni.

Lascio il gravoso compito ed impegno (come in ogni regime masche-

rato da civile democrazia) alla fervida penna dello scrittore. Ma, at-

tenzione, raccontare al gregge una possibile verità anche con l’arte

antica della maschera è pur sempre una grande ed immonda eresia.)


 

dall'altare alla polvere,dalla polvere a nuova gloria (breve biografia di una reliquia)



Nel giro di tre secoli la sola Francia eresse ottanta cattedrali, 500

grandi chiese e migliaia di chiese parrocchiali. La media dell-

‘Occidente cristiano era di una chiesa ogni 200 abitanti. La chie-

sa era il centro della vita del popolo e quella di campagna si

chiamò pieve, dal latino plebempopolo, poi corrotto in piebe, pie-

ve.

Ecco quindi sorgere nel 1163 Notre-Dame di Parigi, con la volta al-

ta 33 metri, ma il suo primato durò poco, infatti nel 1194 glielo

strappò Chartrescon 36 metri e 52 centimetri.

Agli inizi del Duecento balzò in testa Reims, con 37 e 95, e nel

1221 Amiens, con 42 e 30. Con questo tour dell’orgoglio architet-

tonico cominciò la grande ‘crociata delle cattedrali’, chi vi parte-

cipava con offerte o prestazioni manuali otteneva le stesse in-

dulgenze di chi andava a combattere contro gli infedeli.

Nobili e popolani lavoravano a spezzare gratis le pietre, non

meno dure del cuore d’un mussulmano.

La crociata dilatò il regno di Dio in senso verticale, innalzando

guglie guizzanti verso le nubi come folgori capovolte: un affet-

tuoso assalto al cielo, quasi un’impazienza di lasciare questa val-

le di lacrime, il cui equivalente murario fu la vertiginosa vertica-

lità dello stile gotico.

I goti, nel nome, non c’entrano.

E’ un prodotto tipico della Francia del nord, subito dopo il Mil-

le.

Alla parola hanno tentato di dare due etimologie: una celtica, da

Ar Goat, paese del legno, in quanto la costruzione d’una chiesa

richiede parecchio legname; una greca, da gòes-gòetos, stregone,

che suggerisce, agli iniziati alle discipline esoteriche, l’idea dell’-

arte magica.

La Francia in quel tempo scopre l’amore, l’amore cortese e l’amo-

re per Maria, ambiguamente commisti. Compito dei prelati e so-

prattutto dei monaci fu di sublimare l’erotismo carnale, appro-

priandosi di tali correnti di sensibilità e incanalandone nella li-

turgia della chiesa.

Pietro il Venerabile, abate di Cluny, Bernardo di Chiaravalle e

molti altri composero in onore della maestà della Vergine inni

sequenze che fra lo splendore delle luminarie e il fumo dell’-

incenso s’inserivano come gemme nella cadenza del canto litur-

gico: magici riti che preludevano al rito più grande della consa-

crazione della Madre di Dio.

Ogni episodio e aspetto della sua vita aveva una festa nel calen-

dario, il nome di Maria, l’immacolata concezione, l’annunciazio-

ne, i sette dolori, l’assunzione al cielo.

La giornata del contadino, del conte e del borghese era aperta e

chiusa dalle campane dell’Ave Maria, bastone acustico per il doci-

le gregge. Maria fu anche la regina delle crociate in Terrasanta e

ne mitigò gli orrori.

Con alterne vicissitudini che onorarono il suo nome come quel-

lo di molti altri santi custodi della cristianità ortodossa, arriviamo

sino al 1793.

Nel 1793, giustiziato Luigi XVI, la Rivoluzione deliberò che nes-

sun segno della regalità sopravvivesse, perciò abbattè, credendoli

re di Francia le statue dei re dell’Antico Testamento, allineate nel-

la galleria della facciata occidentale.

Presi al laccio, i 28 personaggi di pietra furono trascinati al suo-

lo e frantumati.

Uno dei maggiori responsabili della distruzione fu il pittore Louis

David, che addiruttura propose al Comitato dell’istruzione pubbli-

ca di erigere un monumento raffigurante il popolo francese, sopra

un piedistallo fatto con i cocci delle statue abbattute.

A questo acceso repubblicano che votò la condanna a morte del re e

poi fece parte del governo del Terrore, il furore antimonarchico non

impedì di diventare il pittore ufficiale di Napoleone e dipingere il

famoso quadro dell’Incoronazione, esposto al Louvre.

Tutto ciò che poteva offendere gli occhi repubblicani, perfino le ve-

trate con i fiordalisi di casa Borbone, fu distrutto senza pietà.

Essendo materialmente impossibile ghigliottinare Notre-Dame, i

giacobini le amputarono la guglia del transetto. Poi eressero nella

crociera un palco alto cinque metri e vi esposero i busti di Voltaire,

Rousseau, FranklinMontesquieu, con la scritta ‘Alla Filosofia’.

Per rendere popolare il nuovo culto, promosso da Pierre-Gaspard

Chaumetteex mozzo, ex chirurgo dei frati, che finirà ghigliottinato

da Robespierre, fu ingaggiata una vecchia ballerina dell’Opéra, che

scortata da pifferi e tamburi fu portata in trono, il 20 Brumaio dell’-

Anno Secondo vestita di bianco, con un berretto frigio in testa.

Era la Dea Ragione, alla quale fu solennemente bruciato l’incenso,

mentre un coro ‘laico’ cantava:

Discendi, o Libertà, figlia della Natura,

il popolo ha riconquistato il suo potere immortale,

sulle pompose macerie dell’antica impostura

le sue mani innalzano il tuo altare.

Successivamente l’ex cattedrale fu messa all’asta.

Il fondatore del socialismo utopistico francese, Claude-Henri de Rou-

vroy, conte di Saint-Simon, combattente con Washington nella rivo-

luzione americana la comprò.

Intendeva raderla al suolo.

Ma le pratiche dell’acquisto si arenarono per alcune formalità di

procedura, e non se ne fece nulla.

Ecco uno dei pochi casi in cui bisogna ringraziare la lentezza della

burocrazia.

Per qualche anno il tempio fu adibito a magazzino di vini, 1500 tra

botti e damigiane.

(Cesare Marchi, Grandi peccatori Grandi cattedrali)






 

dall'altare alla polvere,dalla polvere a nuova gloria (breve biografia di una reliquia)

IL MURATORE

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Robinson (il muratore)

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La competizione fra gli uomini (1/2) &

Gli occhi di Atget:

L’economia corrotta

Un articolo contro-corrente

Il senso del limite

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Il senso

del limite

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La natura crea ciò che non si svela,

l’idiota persevera e distrugge ogni cosa,

nella sua strana idea….

di questa Terra……



 

 

il muratore

 

 


 

 




…A ogni modo le generazione di Robertson lo onorò, e facendo

ciò onorò se stessa.

Il governo gli diede una ricompensa in danaro e mille acri di ter-

ra; e la gente si radunava in massa e lo venerava e diede rilievo a

questa venerazione con una cospicua sottoscrizione di danaro.

Una buona situazione drammatica; il sipario calò su un’altra si-

tuazione: 

‘Quando questa tribù di disperati fu così catturata, fu grande la

sorpresa nello scoprire che poco tempo prima erano state spese

30.000 sterline, ed era stata chiamata alle armi l’intera popola-

zione della colonia, per combattere una forza nemica di sedici (16)

uomini con lance di legno!

Eppure, i fatti erano questi.

La leggendaria tribù del Big River, che dalle paure degli europei

era stata elevata ad armata, era composta da sedici (16) uomini,

nove donne e un bambino.

Conoscendo i misfatti compiuti da questo sparuto gruppetto, le

loro incredibili marce e le loro diffuse aggressioni, i loro nemici

non posson negar loro gli attributi del coraggio e dell’abilità mi-

litare. 

 

il muratore

 

Un Wallace può dare del filo da torcere a un grande esercito con

una banda piccola e determinata; ma le parti in conflitto erano

eguali quanto meno per armamento e grado di civiltà. Gli zulù

che combatterono contro di noi in Africa, i maori in Nuova Ze-

landa, gli arabi in Sudan erano di gran lunga meglio armati, più

progrediti nell’arte della guerra e assai più numerosi degl’ignu-

di tasmaniani.

Il governatore Arthur giustamente, lì definì una nobile razza’. 

Erano persone meravigliose, questi nativi.

Non avrebbero dovuto essere sterminati.

Avrebbero dovuto incrociarsi con i bianchi.

Ciò avrebbe migliorato questi ultimi, e non avrebbe nociuto in

alcun modo ai nativi.

Ma i nativi furono sterminati, povere eroiche selvagge creature.

Essi furono concentrati insieme in piccoli insediamenti sulle iso-

le vicine, e paternalmente accuditi dal governo, e catechizzati, e

privati del tabacco, giacché il sovrintendente della scuola religio-

sa domenicale non fumava, dunque considerava il funo immora-

le.

I nativi non erano usi all’abbagliamento, e alle case, e agli orari

regolari, e alla chiesa, e alla scuola, e alla scuola religiosa dome-

nicale, e al lavoro e alle altre persecuzioni fuori luogo della civil-

tà, e si struggevano per la loro patria perduta e per la loro vita li-

bera e selvaggia.

Troppo tardi si pentirono di avere scambiato quel paradiso per

questo inferno.

 

il muratore

 

Sedevano pieni di nostalgia su quelle estranee balze, e giorno do-

po giorno scrutavano di là dal mare, attraverso le lacrime, con una

brama implacabile di quell’indistinta massa, spettro di quello che

era stato il loro paradiso, uno dopo l’altro, i loro cuori si spezzaro-

no, ed essi morirono.

Nel giro di pochi anni, non ne rimasero vivi che pochi scampoli.

Una manciata, avanti negli anni.

Nel 1864 morì l’ultimo uomo, nel 1876 l’ultima donna, e gli spar-

tani d’Ausralasia si estinsero.

 

il muratore

 

I bianchi sono sempre animati delle migliori intenzioni quando

pescano pesci umani dall’oceano e cercano di farli stare all’asciut-

to, al caldo, felici e comodi in una stia per polli; ma sul più genti-

le tra i bianchi si può sempre fare affidamento perché si mostri i-

nadeguato quando ha a che fare con i selvaggi.

Non riesce a ribaltare la situazione e immaginare come sarebbe

trovarsi davanti un selvaggio armato delle migliori intenzioni

che lo trasferisce dalla sua casa e della sua chiesa e dai suoi

abiti e dai suoi libri e dal suo cibo sopraffino a un’abominevole

landa desolata di sabbia e rocce e neve, e ghiaccio e grandine e

tempesta e sole ustionante, senza un riparo, un letto, una coper-

tura per il suo corpo nudo e per quelli della sua famiglia, e nul-

la da mangiare se non serpenti e larve e rifiuti.

Sarebbe un inferno per lui, e se fosse dotato di un minimo di

saggezza saprebbe che la sua civiltà è un inferno per il selvag-

gio – ma egli non ne è dotato, non ne è mai stato dotato; e per

questa mancanza ha rinchiuso quei poveri nativi nell’inimma-

ginabile perdizione della pazzia della sua civiltà, commetten-

do il suo crimine con le migliori intenzioni, e ha visto quelle po-

vere creature morire sotto le sue costanti ed ottuse torture; e le

ha scrutate, vagamente turbato e sofferente, domandandosi

quale potesse essere il loro problema.

Ci si sente quasi portati a rispettare quei criminali, erano così

sinceramente gentili, e teneri, e umani, e beneintenzionati.

Essi non capivano perché quei selvaggi esiliati morissero, e

fecero del loro meglio per scoprirlo. 

E un uomo, in un caso simile avvenuto nel Nuovo Galles del 

Sud, riuscì in effetti a scoprirlo, e a giungere a una soluzione:

‘E’ per via dell’ira di Dio, rivelata dal Cielo contro tutte le em-

pietà e le ingiustizie degli uomini’.

….E con questo il discorso è chiuso! 

(Mark Twain, Seguendo l’equatore)


 

 

 

 

 

il muratore