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La discesa procedette nel più profondo silenzio, turbato soltanto dalla
caduta di frammenti di roccia.
Io mi tenevo solidamente afferrato, ma la mia paura era che la corda,
a mio parere ben fragile per sostenere il peso di tre persone con bagaglio,
tutt’a un tratto si spezzasse; e facendo miracoli di equilibrio utilizzavo ogni
sporgenza per poggiare i piedi e pesare sulla corda il meno possibile.
Hans, quando una delle sporgenze gli scivolava sotto i piedi diceva con voce
tranquilla:
– Gif akt!
– Attenzione!, ripeteva mio zio.
Dopo una mezz’ora eravamo arrivati su un ripiano abbastanza ampio per
contenerci tutti e tre.
Hans tirò un capo della corda, l’altro capo cominciò a salire, e dopo qualche
istante il tutto ricadde ai nostri piedi, accompagnato da una pericolosa pioggia
di sassi. Chinandomi con precauzione dalla piattafoma, notai che il fondo del
pozzo era ancora invisibile.
La manovra ricominciò, e dopo un’altra mezz’ora eravamo scesi di altri duecento
piedi. Non so quanti geologi, per accaniti che fossero, avrebbero cercato di studiare
la natura del terreno durante una discesa simile. Per conto mio, non me ne occupai
davvero: che si trattasse di strati pliocenici, miocenici, eocenici, cretacei, giurassici,
triassici, permiani, carboniferi, devoniani, siluriani o primitivi, poco me ne importava.
(Jules Verne, Viaggio al centro della Terra)