PAURA DI CADERE (Lo Straniero) (8)

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Prosegue in:

Con ‘Satana’ sulle torri (9/10)

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Paura di cadere (6)  &  (7)  &  (8)

Da:

i miei libri

 

(L’immagine in primo piano riflessa nel mondo 

della materia)

 

 

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Altra caduta perfettamente diversa…, una ‘caduta

normale’ di cui io fui il protagonista, successe nel

1907 sulla Parete Sud della Marmolada, che scala-

vo in compagnia del dott. Christo di Berlino…..

Ricordo che era il giorno del Corpus Domini e sen-

tivamo le campane di Alba che suonavano per la

processione….

 

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A metà circa fra l’attacco e la prima terrazza, e pre-

cisamente, sotto lo strapiombo, si esce… dal cami-

no a sinistra sulla parete, per rientrarvi più in alto…

Volli tentare di passare direttamente per lo strapiom-

bo, e ad un certo punto volai e caddi perpendicolar-

mente nel vuoto per una decina di metri, finché una

forte stretta della corda attorno alle costole mi disse

che la mia vita sarebbe continuata come prima……

 

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Del resto ero perfettamente tranquillo, come se aves-

si fatto un salto nella palestra di ginnastica, soltanto

mi sanguinava un po’ la nuca…. In un batter d’occhio,

raggiunsi il mio compagno che mi aveva salvato la vi-

ta, il quale se ne stava rannicchiato in fondo al camino,

pallido come se l’improvviso aeronauta fosse stato lui.

 

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Lazzaro uscente dal sepolcro non poteva essere stato

più pallido. Io invece ero menomamente impressiona-

to e continuai la salita come se nulla fosse successo!

Rapidamente… entrambe arrivammo alla cima….

Oggi ancora, dopo tanti anni, alla vigilia della resa dei

conti finali, con un piede nella sala delle udienze estre-

me, non so rendermi conto della diversità delle sensa-

zioni di queste due ultime cadute, con effetti, direi qua-

si, così paradossalmente opposti.

 

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Poiché posso giurare che al momento della mia caduta

sopra un vuoto di un centinaio di metri… non avvertii mag-

gior preoccupazione di un fatto di ordinaria amministra-

zione o di un molesto incerto del mestiere.

Perché? Perché? mi chiedo.

Forse perché la brevità dei Secondi, dal distacco dalla roc-

cia allo strappo della corda attorno alle costole, alla fine del-

la caduta, non rappresentò il Tempo matematicamente ne-

cessario per rendermene conto?

 

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O perché, a differenza della caduta del signor…., stavolta

non vi fu preavviso?

Eppure alla Marmolada io ero il protagonista, mentre alla

Winkler la mia era un’attività riflessa… Non credo che abbia

avuto il Tempo di fare i calcoli sulla resistenza della corda né

sulla forza fisica del mio compagno di quella sciagura terre-

na…

Misteri che saranno risolti quando saranno trovate le nostre

anime (ora come vedi in vetta…) in qualche altro luogo di que-

sta misera Terra, comunque la notte che seguì, invece, mi

 

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trovai in preda ad incubi paurosi con terrificanti cadute sopra

abissi spaventosi e valanghe di corpi umani, precipitati nel

vuoto (della materia… così malnutrita e concepita…), accom-

pagnate da un sinistro gracchiar di voce umane come corvi

affamati sopra lo scheletro di un cadavere in cima ad un Te-

schio non ancora altare….

La temperatura del corpo aumenta… e….

Perché sono caduto?……….

(Tita Piaz, A tu per tu con le… crode…)

 

 

 

 

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DEL DOMINIO DEI FOLLI (Lo Straniero) (4)

 

Precedente capitolo:

 

copertina 1

 

Lo Straniero   (1)  &  (2)  &

La fine del mondo  (Lo Straniero)  (3)  

 

Prosegue in:

L’Indice (3) &

La divisa nera  (Lo Straniero)  (6/5)  &

Satana (42)

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Lo Straniero  (1)    (2)   (3)   (4)   (5)

Da:

i miei libri

 

 

del dominio dei folli

 

 

 

   

Ha la follia un enorme padiglione,

Che d’ogni luogo ricetta persone,

Specie se han oro e potenza a profusione.

 

E’ gioco forza assai matti incontrare,

Ché molti soglion se stessi accecare

Con la forza aspirando alla sapienza,

mentre al savio è palese lor demenza,

Ma nessuno osa dire loro ‘Ehi, matti!’,

E quando di sapienti assumon gli atti,

Lo fanno solo per ostentazione;

E se qualcuno ha tutt’altra opinione,

S’incensan essi, mentre chi si loda,

Come sa il savio, sovente s’imbroda.

E’ stolto chi nel suo senno confida:

Un dio si crede, mentre è senza guida.

Chi invece con saggezza si comporti,

Sarà salvato dal regno dei morti. 

Felice quel paese al cui signore

Sia saggezza la stella a tutte le ore,

Ed i principi mangian quant’è giusto,

Non già mossi di crapula dal gusto.

Guai al paese dove il re è un ragazzo

E intanto siedono i principi a gavazzo.

Meglio un ragazzo povero ma accorto

Che un vecchio re dal cervello contorto,

Un matto che i consigli non ascolta.

Disgrazia al giusto uomo verrà molta,

Quando i matti conquistino il potere!

Ma se la sorte i matti fa cadere,

Saranno i giusti ad essere potenti!

Sono onorati i paesi e contenti

Quando un giusto ne divien signore.

Ma se prevale dell’empio il furore,

Ognun si cela. Il giudice malvagio

Che emette in amicizia il suo suffragio

O secondo apparenza, può peccare

Per una mica e giustizia tralasciare.

Il saggio, che retto corso sa tenere,

Giudica senza preferenze avere.

I giudici sono molti di Susanna

Che a capriccio pronunciano condanna.

Deve giustizia fredda avere mente.

Son del potere le spade assai lente

A uscire, arruginite entrambe essendo,

Dal fodero; e non dan taglio tremendo

Dove occorre. Giustizia è cieca e morta!

L’oro vittoria su tutto riporta;

Quando da Roma Giugurta se ne andò,

‘Città corrotta’, così allor gridò,

‘Se un compratore qui venisse tratto,

Ben presto ti darebbe scacco matto!’

Città piccole e grandi puoi trovare

Dov’è la norma farsi subornare

Per combinare affari sottobanco.

Amicizia e guadagno rendon banco

Il nero, come a Mosè il suocero disse,

Ed egli costatò, e molti s’afflisse,

Che l’invidia, il denaro e la potenza

Spezzan sigilli, giustizia e scritta scienza.

Erano saggi i principi una volta,

Vecchi i ministri e l’esperienza molta,

E in ogni terra il benessere regnava

Perché il peccato se ne discacciava,

E il mondo tutto in pace era beato.

Oggi Follia la sua tenda ha drizzato

E a muovere s’appresta la sua guerra;

I principi e i comandanti d’ogni terra

Obbliga a rinunciare alla saggezza,

Per badare al vantaggio e alla ricchezza,

Cupidi avendo al fianco consiglieri.

Ecco perché sono i tempi sì neri,

Ed ancor peggio in futuro l’andrà:

Follia al potere ancor più si alleerà.

Più a lungo principi avrebber regnato,

Di Dio per grazia, non avessero errato

Da consiglieri e da servi istigati,

Che accettan doni, e sono subornati;

Si guardi da costoro il buon sovrano!

(Se anco lui la mazzetta non vorrà posar

su tanta nobil mano)

E’ libero chi si fa unger la mano?

Al tradimento induce regalia!

Da Eud ebbe Eglon sorte ria,

Da Dalila Sansone fu tradito;

Poiché accettò vasi d’oro Andronìco,

Ad Onia toccò la morte di subire;

E Ben-Hadàd si decise a salire

In guerra quando d’Osa vide i doni;

Per tradir Gionata invocò sue ragioni

E doni molti gli inviò Trifone,

Di sospettar per non dargli cagione.

(S. Brant, La nave dei folli)

 

 

  

 

del dominio dei folli

 

IL CORTEO DELLA MORTE (14)

Precedente capitolo:

Il corteo (della morte) (13)

Prosegue in:

I comici regi… o regnanti…

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Cani di passaggio  (1)  &  (2)  &

L’indice  (1)  &  (2)

Da:

i miei libri 

 

 

della morte

 

 

 

 

 

 – Se lo tolga dalla mente,

replicò Sancio,

– E accetti il mio consiglio, che è di non prendersela mai con com-

medianti, che son gente privilegiata.

Ho visto io un attore arrestato per due omicidi, e poi rimesso in

libertà e senza spese. Sappia la signoria vostra che essendo gente

allegra e che fa divertire, tutti li favoriscono, tutti li proteggono,

li aiutano e li tengono in considerazione, tanto più che son quelli

delle compagnie reali e patentate, che tutti, o quasi tutti, nei loro

vestiti e nelle loro pose paiono dei principi.

– Con tutto ciò,

rispose don Chisciotte,

– Il Diavolo commediante non andrà in giro a vantarsi, quand’-

anche goda il favore di tutto il genere umano.

E detto ciò, tornò alla carretta, già vicina ormai al paese, e anda-

va gridando e dicendo:

– Fermatevi, aspettate, gente allegra e burlona, che vi voglio in-

segnare come si devono trattare gli asini ed altre bestie che ser-

vono da  cavalcatura agli scudieri dei cavalieri erranti.

 

della morte

 

I gridi di don Chisciotte erano così forti che quelli della carretta

li udirono e li capirono, e indovinando dalle parole le intenzioni

di colui che le pronunziava, in un attimo la Morte balzò giù dalla

carretta, e dietro di lei l’Imperatore, il Diavolo carrettiere e l’An-

gelo, e non rimasero indietro nemmeno la Regina e il dio Cupido:

si caricarono tutti di pietre e si misero ad attendere ad ala, per 

ricevere don Chisciotte sulle punte dei loro sassi.

 

della morte

 

Don Chisciotte, che li vide allineati in una così formidabile for-

mazione, con le braccia sollevate nel gesto di scagliare vigoro-

samente le pietre, trattenne le briglie a Ronzinante e si mise a

pensare in qual modo attaccarli con minor rischio per la sua

persona.

Intanto che s’era fermato, arrivò Sancio, e vedendolo in atto di

attaccare il ben schierato squadrone, gli disse:

– Sarebbe una grossa pazzia tentare una simile impresa, signor

mio, perché contro la ‘zuppa di fiume e sta’ fermo berretto’ non

c’è arma difensiva al mondo, se non chiudervi e imbottirvi in una

campana di bronzo; dovessi inoltre considerare che è più temeri-

tà che valore che un uomo solo affronti un esercito in cui c’è la

Morte, e combattono in persona imperatori a cui vengono in aiuto

tanto gli angeli buoni che i cattivi; e se questa considerazione non

la induce a starsene quieto, la induca il fatto di sapere con certez-

za che in mezzo a tutti quelli là, sebbene paiono re, principi e im-

peratori, non c’è nessun cavaliere errante.

 

della morte

 

– Ora sì,

disse don Chisciotte,

– Che hai dato, Sancio, nel punto che può e deve distogliermi dal

mio già deciso intento. Io non posso né devo estrarre la spada, co-

me molte altre volte ti ho detto, contro chi non sia armato cavaliere.

A te tocca, o Sancio, se vuoi prender vendetta dell’offesa che s’è

fatta al tuo asino; che io da qui t’aiuterò con la voce e col salutarti

avvertimenti. 

– Non è proprio il caso, signore,

rispose Sancio,

– Di vendicarsi di nessuno, perché non è da buoni cristiani vendi-

care le offese; tanto più che io mi metterò d’accordo col mio asino

perché metta la sua vendetta nelle mani della mia volontà, che è

quella di vivere pacificamente i giorni che il cielo mi concederà di

vivere.

– Se questa è la tua determinazione,

replicò don Chisciotte,

– O buon Sancio, prudente Sancio, Sancio cristiano, Sancio sincero,

lasciamo stare i fantasmi e torniamo a cercare migliori e più quali-

ficate avventure, perché questa mi sembra una terra dove ce ne sa-

rà in abbondanza e di meravigliose…..

(Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia)

 

 

 

 

 

della morte

  

IO NON SENTO ALTRO CHE BELATI DI PECORE (12)

 

Precedente capitolo:

Dove si narra…. (11)

Foto del blog:

L’assedio di Namur  (1)  &  (2)

 

 

io non sento altro che belati di pecore

 

 

 

 

 

….L’altro che monta e grava sul dorso di quella vigorosa alfana, e

porta l’armatura bianca come la neve e lo scudo bianco e senza al-

cuna insegna, è un cavaliere novello, di nazione francese, di nome

Pierre Papin, signore delle baronie di Utrique; l’altro che sprona

quella zebra agilissima e variegata, dandole nei fianchi coi ferrati

calcagni, e porta l’armi di vai azzurri, è il potente duca di Nervia,

Spartafilardo del Bosco, grande cacciatore del giorno e padrone

della notte, che ha per insegna sullo scudo una sparagiaia, con un

motto che in castigliano suona:

Rastrea mi suerte.

 

io non sento altro che belati di pecore

 

– La schiera che è di fronte la compongono e formano genti di na-

zioni diverse: di qua son quelli che bevono le dolci acque del fa-

moso Xanto; quelli che calpestano i montuosi territori massilici;

quelli che lavano l’oro finissimo e minuto nell’Arabia felice; quel-

li che godono delle fresche famose rive del chiaro Termodonte;

quelli che per molte e diverse vie dissanguano il dorato Pattolo; e

Numidi, infidi nelle promesse; i Persiani famosi per archi e frecce;

i Parti, i Medi, che combattono fuggendo; gli Arabi dalle nobili

dimore; gli Sciti, così bianchi quanto crudeli; gli Etiopi, dai labbri

forati, e infinite altre nazioni, i cui volti conosco e vedo, benché

non me ne ricordi i nomi.

 

io non sento altro che belati di pecore

 

In quest’altra schiera son quelli che si dissetano alle cristalline 

correnti del Betis fecondo d’ulivi; quelli che tergono e lavano i 

loro visi nel liquido del Tago sempre ricco e dorato; quelli che

fruiscono delle salutari acque del divino Genil; quelli che cal-

pestano i campi Tartesii, dagli abbondanti pascoli; quelli che

gioiscono nei campi elisi di Jerez; i ricchi mancegli, coronati di

bionde spighe; quelli vestiti di ferro, antica discendenza del

sangue goto. 

Coloro che si bagnano nel Pisuerga, celebre per la sua mansue-

ta corrente; quelli che pascono il loro bestiame nei vasti alleva-

menti del Guadiana, famoso per il suo corso sotterraneo; quelli

che tremono al freddo dei Pirenei selvosi o ai bianchi fiocchi di

neve dell’erto Appennino; quanti infine l’Europa in sé contiene e

racchiude.

 

io non sento altro che belati di pecore

 

Dio mio, quante province disse, quante nazioni nominò dando

ciascuna, con stupefacente prontezza, gli attributi che le ap-

partenevano, tutto preso e imbevuto dei suoi bugiardi libri!

 

io non sento altro che belati di pecore

 

Senza dir parola, era Sancio Panza sospeso dalle sue labbra, e

di quando in quando volgeva il capo a vedere se scorgeva i

cavalieri e i giganti che il suo padrone nominava, e poiché non

ne vedeva alcuno, gli disse:

– Signore, che il diavolo si porti o uomo o gigante o cavaliere

di quelli che dice vostra signoria, se ne vede uno in giro. Io per

lo meno, non li vedo: chissà che non sia tutto un incantesimo co-

me i fantasmi di stanotte.

– Come puoi dire ciò?,

rispose don Chisciotte.

– Non lo senti il nitrito dei cavalli, il suono delle trombe, il rul-

lo dei tamburi?

– Io non sento altro,

disse Sancio,

Che il raglio di qualche somaro, e molti belati di pecore…..

(Miguel del Cervantes, Don Chisciotte della Mancia)

 

 

 

 

io non sento altro che belati di pecore

  

C’E’ QUI LA SCIMMIA INDOVINA (10)

 

Precedente capitolo:

c’è alloggio signor locandiere? (9)

Prosegue in:

Dietro le scene

Foto del blog:

Urlano contro ‘Invetriata’  (1)  &  (2)

Da:

i miei libri

 

 

c'è qui la scimmia indovina

 

 

 

 

 

Restò perplesso don Chisciotte, sbalordito Sancio, sospeso il cugino,

attonito il paggio, confuso il locandiere, e infine stupefatti quelli che

avevano sentito ciò che aveva detto il burattinaio che proseguì dicen-

do:

– E tu, buon Sancio Panza, lo scudiero migliore e del miglior

cavaliere del mondo, gioisci! che la tua brava moglie Teresa Panza

sta bene, e a quest’ora sta cardando una libbra di lino, e per maggio-

ri particolari, sul lato sinistro ha un boccale rotto che contiene una

buona quantità di vino, con cui passa il tempo mentre lavora.

– Lo credo bene,

rispose Sancio;

– Perché lei è un’anima semplice, e se non fosse gelosa, io non la

cambierei nemmeno con la gigantessa Andandola, che secondo

il mio signore era una donna molto a posto e di merito; e la mia

Teresa è di quelle che non si trattano male, sia pure a spese dei

suoi eredi.

– Io sostengo dunque,

disse a questo punto don Chisciotte,

– Che chi legge molto viaggia molto, molto vede e molto sa.

 

c'è qui la scimmia indovina

 

E lo dico, perché: quale argomento sarebbe stato mai sufficiente

a convincermi che vi sono al mondo delle scimmie indovine, come

l’ho vista ora coi miei occhi? Perché io sono per l’appunto quel don

Chisciotte della Mancia che ha detto questa brava bestia, anche se

si è spinta un po’ troppo nelle mie lodi; ma quale che io mi sia, son

debitore al cielo, che mi dotò d’un animo dolce e compassionevole,

sempre incline a far bene a tutti e male a nessuno.

– Se io ci avessi danaro,

disse il paggio,

– Domanderei alla signora scimmia che cosa mi succederà nel viag-

gio che sto facendo.

 

c'è qui la scimmia indovina

 

Al che rispose Mastro Pietro, che s’era già alzato dai piedi di don

Chisciotte:

– Ho già detto che questa bestiola non risponde per l’avvenire; che

se rispondesse, non avrebbe importanza il fatto di non aver donato;

che per servire il signor don Chisciotte, qui presente, io rinunzierei

a qualsiasi interesse. E ora, perché gli è dovuto, e per fargli piacere,

voglio armare il mio teatrino per far divertire tutti quelli che son

nella locanda, senza alcun pagamento. 

Sentendo ciò, e tutto contento, il locandiere indicò il posto dove 

si poteva collocare il teatrino, e in un momento fu fatto.

 

c'è qui la scimmia indovina

 

Don Chisciotte non era però troppo soddisfatto delle profezie del- 

la scimmia, poiché non gli sembrava legittimo che una scimmia 

potesse indovinare, né sulle cose future né sulle passate; e così,

mentre Mastro Pietro sistemava il teatrino, don Chisciotte si riti-

rò con Sancio in un angolo della stalla, senza che li sentisse nes-

suno, gli disse:

– Vedi Sancio, io ho ben considerata la eccezionale capacità di

questa scimmia, e per conto mio ritengo che quel Mastro Pietro

suo padrone deve aver fatto sicuramente un patto, tacito o e-

spresso, col diavolo.

– Un patio spesso, col diavolo?

disse Sancio.

– Allora deve essere proprio sporco. Ma che gliene importa a quel

Mastro Pietro di avere un patio?

– Non mi capisci, Sancio: voglio dire che deve aver fatto qualche

accordo col diavolo, perché infonda nella scimmia quell’abilità,

con cui si guadagna da mangiare, e dopo che sarà ricco gli dovrà

dare la sua anima, che è ciò a cui mira quel nemico dell’umanità.

E m’induce a crederlo il fatto che la scimmia non risponde se

non alle cose passate o presenti, e la sapienza del diavolo non

può estendersi oltre di queste; perché quelle a venire non le sa

se non per congetture, e non sempre; che solo a Dio è riservato

di conoscere i tempi e i momenti, e per Lui non c’è passato o

futuro, poiché tutto è presente.

E se le cose stanno così, come certamente staranno, è evidente 

che questa scimmia parla secondo il linguaggio del diavolo,

e mi stupisco che non l’abbiano denunziata al Santo Uffizio…..

…… 

(Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia)

 

 

 

 

 

c'è qui la scimmia indovina

 

IL TEDESCO 8 (2)

Precedente capitolo:

 Il tedesco 8 (1) 

Prosegue in:

L’inglese detto 7 (1)  (2)  (3) &

Il Dio dell’abbondanza

Foto del blog:

L’inglese 7

e il tedesco 8

Libri, appunti, dialoghi…in:

i miei libri

 

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C’è qualcosa di incomprensibile e scandaloso in questa parte

di vita di Rhan: perché dal primo settembre al 31 dicembre del

37 lo scrittore che aveva esaltato l’epopea libertaria dei catari,

e denunciato con passionale indignazione le crudeltà dei ‘cro-

ciati’ e dell’Inquisizione, fu tra i guardiani di un lager nazista

dove la crudeltà delle SS dispiegava una sorta di prova gene-

rale degli orrori a venire.

A sua parziale scusante c’è solo il fatto incontestabile che non ci

andò volontario: il periodo a Dachau fu un ‘servizio di discipli-

na’, una punizione per gli abusi alcolici, come risulta da una ‘di-

chiarazione d’onore’ inviata il 28 agosto da Homberg allo stato

maggiore di Himmler, con questa premessa: ‘Mi impegno a non

assumere alcol di alcun tipo nei prossimi due anni’.

 

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Rahn aggiungeva poi che si sarebbe presentato il primo settembre

al Gruppen-fuhrer Eicke presso il ‘campo di concentramento di

Dachau, per svolgere quattro mesi di servizio presso il gruppo SS

delle Teste di morto ‘Oberbayern’.

 

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Theodor Eicke, originario dell’Alsazia-Lorena, fu il grande regista

del terrore e anche colui che proprio a Dachau creò il modello dei

campi di concentramento a venire, da quando nel 33 ne divenne il

responsabile.

Dopo l’incendio del Reichstag, il palazzo del Parlamento, dato alle

fiamme il 27 febbraio del 33, i nazisti avevano scatenato la repres-

sione, con arresti arbitrari di avversari politici, soprattutto comuni-

sti.

In breve le prigioni non furono più sufficienti, e Himmler stesso,

in quanto responsabile per la sicurezza della Baviera, decise di

ammassare questi nuovi prigionieri in una struttura apposita, che

all’inizio venne affidata alla polizia, ma in breve passò sotto il con-

trollo delle SS, affiancate in parte anche dalle SA, il corpo paramili-

tare di Rhom destinato a essere spazzato via dalla scena politica

tedesca un anno dopo.

Le condizioni di detenzione erano durissime, la vita dei reclusi

dipendeva dall’arbitrio dei carcerieri.

Il campo di concentramento sembrava esercitare su di lui un fasci-

no sinistro; ne era attratto morbosamente, tanto che in seguito, co-

me emerge dalle sue lettere, portò appunto a Dachau Raymond

Perrier, col quale a ogni buon conto, finito il servizio, si era conces-

so tre settimane di vacanza in montagna, nellAlta Baviera.

Nell’estate del 38 scrisse infatti a Himmler per trasmettergli la gra-

titudine di Perrier, che aveva potuto ‘gettare uno sguardo più pro-

fondo nelle SS’ fino a conoscere personalmente un comandante del-

le ‘Teste di morto’, con cui aveva stretto amicizia, nonostante le diffi-

coltà linguistiche: l’intesa era stata così buona che Rhan si sentiva

‘orgoglioso di questo camerata di Dachau’.

In seguito Rahan affronta un nuovo periodo di addestramento in un

altro lager, che ha un nome anche più sinistro di Dachau: Buchenwald.

E’ uno dei più grandi della Germania, costruito a metà del 1937 sulle

pendici dell’Ettersberg, poco a nord di Weimar, per rinchiudervi pri-

gionieri politici.

Quando Rhan ci arriva sono stipate lì dentro circa 10.000 persone, tra

‘elementi antisociali’, oppositori del regime, socialdemocratici austriaci

e soprattutto ebrei.

 

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Questi ultimi vengono sottoposti ai trattamenti più brutali: non

esiste al momento uno specifico progetto di sterminarli in quanto

‘razza inferiore’, ma c’è l’ordine di vessarli e di terrorizzarli per spinge-

re i cittadini tedeschi di origine istraelita a lasciare la Germania.

Buchenwald è il regno dell’Ahnenerbe, che nel periodo di guerra,

dopo aver aggiunto al suo statuto anche gli esperimenti ‘medici’,

commetterà qui atrocità spaventose sui prigionieri.

Il 9 novembre 1938 vengono incendiate sinagoghe, assalite e distrut-

te le proprietà degli ebrei, arrestate migliaia di persone che in buona

parte vengono deportate proprio a Buchenwald: sono i primi israeliti

tedeschi a entrare in un campo di concentramento. Verranno rilasciati

dopo qualche tempo, ma si calcola che nel breve periodo di detenzio-

ne ne muoiano seicento, assassinati o suicidi, o per malattie non cura-

te.

La notte dei cristalli è il punto di non ritorno per tutti.

E probabilmente anche per… Otto Rahan.

(M. Baudino)

 

 

 

 

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IL TEDESCO 8

Prosegue in:

Il tedesco 8 (2)

 

 

 

 

 

(Otto Rahn, è legato per taluni presunti storici, al nome dell’eresia in

quel contesto geografico dove ha conosciuto più fortuna, dopo aver

attraversato un sentiero lungo di cui cercherò di rintracciarne i possibili

sviluppi. Credo che sia importante recarci subito nel ‘vicolo cieco’ da

lui tracciato, o forse a cui taluni hanno affidato il compito di appropriar-

si  di ‘una’ o un’ ‘intera’ cultura in maniera anomala, distorcendo ogni

possibile verità storica, ed offendendo del tutto i veri personaggi che

l’hanno originata e si sono fatti interpreti di un determinato credo in

contrasto con la dottrina ufficiale accreditata per secoli, di cui come

vedremo in seguito, l’unica colpa che gli riconosciamo forse non pro-

prio la sola, è di aver cercato di cancellare le fonti.

Per dissipare ogni dubbio verso coloro che operano in malafede

nei confronti della storia e non solo, chiarirò subito ed in fretta,

liquidando per ciò che in realtà è Otto Rahn e i suoi studi, il suo 

seguito e l’intera cultura esoterica a tal proposito.

Inutile, dannosa, forviante, manipolatoria, limitante e astrusa.

L’eresia nasce in altri luoghi, in altri contesti, con diverse testimo-

nianze filologiche, e non scindibile da ciò che l’ha originata’ e da

cui è ‘stata combattuta’, e di cui, nelle triste vicissitudini che ne

sono conseguite, ha conservato quasi per intero quel poco che ci

rimane (inteso come testimonianze e documenti).

La ‘via tedesca’ della quale Otto Rhan si fece interprete va improro-

gabilmente rimossa e con essa i suoi manipolatori…).

 

 

Per Rahn, i suoi viaggi verso Montségur erano uno dei tanti

incunaboli su cui lavorare. Il suo scopo principale era un altro:

esplorare le grandi caverne

 

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– numerose in quella regione, talune fortificate – alla conquista

del gran segreto cataro, che non era necessariamente un tesoro

materiale.

Così facendo riuscì a trasformare una leggenda locale e un po’

provinciale in una mitologia europea, destinata a influnzare non

solo i cultori  dell’esoterismo, ma anche il vertice del regime na-

zista, ad alimentare favole e misteri e soprattutto, effetto non se-

condario e non del tutto imprevisto, a trasformare un borgo sper-

duto e diroccato in un santuario del turismo di massa.

Gli sarebbe costato piuttosto caro, ma lui si accorse del prezzo

che stava pagando solo quando ormai era troppo tardi per rime-

diare, o per tirarsi indietro.

 

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Nel periodo in cui Rahn cominciò ad avvicinarsi alla storia ter-

ribile del catarismo, quegli eretici stavano tornando, molto len-

tamente, a riaffacciarsi sulla scena della storia, dopo un lungo

oblio.

Una letteratura ‘neocatara’ un po’ fantasiosa ha attribuito a perso-

naggi eminenti dell’antico movimento religioso una frase profe-

tica, pronunciata quando tutto era perduto, chi dice sulla rocca

espugnata di Montségur, chi a Tolosa, da un ‘perfetto’ condanna-

to al rogo: ‘Di qui a 700 anni tornerà verde l’alloro’.

Come se proprio nel 900, e negli anni di Rahn, dovesse verificarsi

qualche evento misterioso. Ma è una profezia costruita a posteriori,

ben dopo l’avventura dello scrittore tedesco, e certamente sotto l’in-

fluenza della sua opera. Non si stava avverando grazie a lui, fa par-

te della leggenda successiva. Raymond de Fauga, come del resto gli

altri inquisitori, non udì pronunciare simili parole dalle sue vittime,

e se per caso ci fu tra i molti torturati o uccisi chi davvero gridò qual-

cosa del genere, nessuno si prese la pena di registrarlo.

Le azioni del vescovo, persino i suoi pensieri, sono affidati alle cro-

nache del fido Guillaume Pelhisson: ed erano queste descrizioni

– come del resto tutti i documenti dei tribunali che giudicarono e

condannarono gli eretici – la vera, inconsapevole ‘profezia’, che do-

po molti secoli avrebbe acceso gli animi.

Distrutti o perduti gli scritti dei perseguitati, sarebbero stati quelli

degli inquisitori a tenere viva la memoria del massacro, a trasformar-

la dopo un lungo periodo di oblio in un grande mito destinato a ri-

presentarsi nell’Ottocento sulla scena d’Europa, per divampare poi,

nel breve volgere di pochi anni, come un incendio.

 

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Ciò che invece accadde dopo quei 700 anni profetizzati, per opera

di taluni, non poteva neppure prendere in considerazione la vera

prospettiva dell’accadimento nefasto, e la nera prospettiva che le

sue vittime avrebbero affascinato qualcuno capace di superare per

ferocia, violenza, spietatezza e, in una parola, follia, tutti gli inqui-

sitori della terra.

Ma quel che accadde in Linguadoca tra la fine del XII e l’inizio del

XIII secolo sarebbe forse rimasto, perfino nel revival moderno, poco

più che una tradizione locale, se all’appuntamento dei 700 anni dal

supplizio della dama tolosana non si fosse presentato Otto Rahn,

in cerca di fortuna e di riscatto sociale, fuggendo da una Germania

dove non riusciva a trovare la sua strada.

 

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Ma che cosa aveva davvero scoperto l’uomo che, dopo aver pian-

to sulle rovine di Montségur, vestì come se fosse del tutto natura-

le la divisa delle SS e andò incontro alla morte in una tormenta di

neve poco prima che scoppiasse la Seconda guerra mondiale, la-

sciando dietro di sé due libri e uno stuolo di speculazioni desti-

nate a sopravvivergli fino a oggi?

La risposta è molto complicata.

Rahn dipanò un filo che dalla Linguadoca martirizzata dai ‘crocia-

ti’ portava tortuosamente fino al quartier generale di Heinrich Him-

mler, il creatore delle SS, passando per il Parsifal di Wagner, l’ope-

ra che aveva ridato dopo molti secoli un’enorme popolarità alla sa-

ga del Graal.

 

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Non inventò nulla, mise insieme temi, suggestioni e leggende 

che trovò già pronte tra Parigi e la rocca di Montségur, alta sul-

la stretta valle dell’ Ariège a ridosso della frontiera spagnola.

Nei catari non identificò solo i custodi del Graal inteso come sim-

bolo esoterico di potenza e forse anche materiale; fece anche un

simbolo ideologico e di battaglia politica, lì vagheggiò come pro-

tagonisti di un mito di morte e persino in un certo senso anticipa-

tori del nazismo.

Tanto per distruggere la Chiesa cattolica avrebbe lanciato la sua

‘Crociata contro il Graal’ non per motivi religiosi o dottrinali interni

alla cristianità, ma nel quadro di uno scontro metafisico tra il pen-

siero giudaico-cristiano e quello nordico-pagano.

Uno scontro di civiltà.

A questa idea notturna e minacciosa arrivò tuttavia a poco a poco,

per gradi. La crociata contro il Graal, pubblicato nel 1933, vide nella

religiosità catara soprattutto un messaggio di fratellanza in grado

di unificare l’Europa.

Rahn partì da un sogno pacifista e venne travolto da una sorta di

militarizzazione del suo stesso mito; si lasciò trascinare dal roman-

zo storico alla favola armata.

Era questo davvero il suo scopo, o si trattò di un crescendo di coin-

cidenze, di situazioni obbligate, di scelte sbagliate?

Oppure il tedesco era semplicemente una spia che usava la ricerca

storico-mitologica come una copertura?

In Linguadoca lo pensarono in molti, anche se viene da chiedersi

che cosa mai potesse spingere un agente segreto in quella regione.

(Mario Baudino, Il mito che uccide)

 

 

 

 

 

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I FUCILI DELLA GUERRA (21)

(Da un articolo: Italia indignata per il David… 

La Fin-Meccanica replica: li aggiustiamo noi…)

 

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Precedente capitolo:

Illustri antenati (show businnes & commerci…) (20)

Prosegue in:

Mauser 7.65  (22)  &

divergenze di opinioni (2)

Foto del blog:

Saldi

di fine stagione &

David

armato

(aut. NSA nr 45/67/56 del 20/3/13 prot. 45/90)

 

i fucili della guerra

 

 

  

 

i fucili della guerra

 

 

  

 

Acquisto del fucile da parte di Oswald

 

 

Poco dopo il rinvenimento del fucile Mannlicher-Carcano

al sesto piano del Depository, gli agenti dell’FBI appresero

che la ditta Crescent Firearms, Inc. di New York smercia-

va fucili militari italiani (ma anche tedeschi…) calibro 6,5.

 

i fucili della guerra

 

La sera del 22 novembre 1963, da un esame ai libri contabili

della ditta risultò che un fucile italiano, prodotto e fabbrica-

to in Italia, con numero di matricola C2766, era stato spedi-

to alla Klein’s Sporting Goods Co., di Chicago.

 

i fucili della guerra

 

Riesaminati i libri contabili, dalle dieci di sera alle quattro

del mattino seguente, gli impiegati della Klein’s trovarono

che il fucile C2766 era stato spedito a un tale A. Hidell, ca-

sella postale 2915, Dallas, Texas, il 20 marzo 1963.

Risultò che il 13 marzo 1963 la Klein’s aveva ricevuto l’or-

dinazione di un fucile, con un tagliando staccato dal nume-

ro di febbraio della rivista ‘American Rifleman’.

 

i fucili della guerra

 

Il tagliando era compilato a mano e recava:

‘A. Hidell, P. O. Box 2915, Dallas, Texas’.

Sulla busta c’era, con l’indirizzo del destinatario, anche quel-

lo del mittente, scritto a mano.

Calligrafi del dipartimento del Tesoro e dell’FBI riconobbero

senza ombra di dubbio d’errore che si trattava della calligra-

fia di Oswald.

 

i fucili della guerra

 

Comunque, questi e altri documenti furono confrontati con

altri notoriamente di mano di Oswald, come le sue lettere, la

 domanda per ottenere il passaporto, le firme sugli assegni.

Allegato al tagliando, c’era nella busta un vaglia postale di

21 $ e 45 cents, recante il nr. 2.202.130.462 e la data del 12

marzo 1963.

Beneficiaria risultava la ditta Klein’s Sporting Goods, mitten-

te A. Hidell, P. O. Box 2915, Dallas, Texas.

 

i fucili della guerra

 

Anche queste parole risultarono scritte da Lee H. Oswald.

Dai documenti della Klein’s fu possibile ricostruire l’esecuzio-

ne dell’ordine. Un versamento in banca effettuato il 13 marzo

 registrava una voce di 21 $ e 45 cents. Questa cifra compren-

deva il prezzo del fucile, incluso il telescopio, cannochiale, in

  in 19 $ e 95 cents, a cui si aggiungeva 1 $ e mezzo per spese

di spedizione e postali.

 

i fucili della guerra

 

Il prezzo del fucile senza telescopio era di soli 12 $ e 78 cents.

Come ha riferito il vice-presidente della Klein’s, William Wal-

daman, il telescopio fu applicato al fucile da un operaio della

ditta, e il fucile fu mandato già montato al cliente, perché così

usava sempre fare la ditta.

(Questo fucile, prodotto da una nota ditta militare italiana, as-

sicurava una precisione e una facilità d’uso da sbaragliare ogni

….. concorrenza.)

 

i fucili della guerra

 

Ed in precedenza, era stato spedito da Crescent alla Klein’s

che l’aveva ricevuto il 21 febbraio 1963, e portava il numero

di matricola C2766.

Quel giorno, la Klein’s vi aggiunse il numero di controllo in-

terno VC836. Utilizzando il formulario commerciale solito,

un fucile italiano 6,5 X-4 x scope, numero di controllo VC836,

numero di matricola C2766, fu spedito per pacco postale a A.

Hidell, P. O. Box 2915, Dallas, Texas, il 20 marzo 1963.

 

i fucili della guerra

 

Informazioni assunte dal Servizio segreto militare italiano han-

no assicurato che quello di Dallas era il solo fucile del suo tipo

recante il numero di matricola C2766, assicurando altresì al

nostro Servizio Informazioni, della provenienza d’origine del-

la fabbricazione e della indiscutibile professionalità della sud-

detta arma, da loro prodotta.

La casella postale alla quale fu inviato il pacco era stata affit-

tata a Lee H. Oswald dal 9 ottobre 1962 al 14 maggio 1963.

Periti calligrafici del dipartimento del Tesoro e dell’FBI dichia-

 rarono che la domanda di affitto della cassetta postale era

stata scritta e firmata da Oswald.

(Rapporto Warren sull’assassinio di Kennedy)

 

 

  

 

 

i fucili della guerra

IL PRODOTTO DELL’OFFICINA DELL’ESSERE

Precedenti capitoli:

Dialoghi con Pietro Autier:

I vigili del fuoco &

Gli occhi di Atget:

Il segugio meccanico

Foto del blog:

Il colloquio della preghiera &

Il prodotto dell’officina dell’essere 

 

 

 

 

Oltre la luce del Tempo

e più veloci della memoria

di ogni trascorsa crociata

della storia.

Più veloci della luce

che pur veloce

è immobile e prigioniera

della loro storia.

 

 

 

 

Il prodotto dell’Officina dell’Essere.pdf  &

 

Ventiquattro Ore.pdf &

 

dicono-di-noi.html

 

 

 

 

 

 

il prodotto dell'officina dell'essere

 

PENSI CHE DORMONO? (la collina)

Precedenti capitoli:

Mark Twain &

Il suonatore jones

Foto del blog:

Mark

Twain

Da:

i mei libri

 

 

pensi che dormono?

 

 

 

 

 

 

Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,

l’abulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacone, il rissoso?

Tutti, tutti, dormono sulla collina.

 

Uno trapassò in una febbre,

uno fu arso nella miniera,

uno fu ucciso in rissa,

uno morì in prigione,

uno cadde da un ponte lavorando per i suoi cari –

tutti, tutti, dormono, dormono sulla collina.

 

Dove sono, Ella, Kate, Mag, Edith e Lizzie,

la tenera, la semplice, la vociona, l’orgogliosa, la felice?

Tutte, tutte, dormono sulla collina.

 

Una morì di parto illecito,

una di amore contrastato,

una sotto le mani di un bruto in un bordello,

una di orgoglio spezzato, mentre anelava al suo ideale,

una inseguendo la vita, lontano, in Londra e Parigi,

ma fu riportata nel piccolo spazio con Ella con Kate con Mag,

tutte, tutte dormono, dormono, dormono sulla collina.

 

Dove sono Isaac e la zia Emily,

e il vecchio Towny Kincaid e Sevigne Houghton,

e il maggiore Walker che aveva conosciuto

uomini venerabili della Rivoluzione?

Tutti, tutti, dormono sulla collina.

 

Li riportarono, figlioli morti, dalla guerra,

figlie infrante dalla vita,

e i loro bimbi orfani, piangenti,

tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.

 

Dov’è quel vecchio suonatore Jones (a cui non fu permesso parlare…)

che giocò con la vita per tutti i novant’anni,

fronteggiando il nevischio a petto nudo,

bevendo, facendo chiasso non pensando né a moglie né a parenti,

 

né al denaro, né all’amore, né al cielo?

Eccolo! Ciancia delle fritture di tanti anni fa,

delle corse di tanti anni fa nel Boschetto di Clary,

di ciò che Abe Lincoln

disse una volta a Springfield.

(Masters, Antologia di Spoon River)

 

 

 

 

pensi che dormono?