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Guglielmo II passò alla storia con l’appellativo ‘il Buono’ più per
aver voluto i mosaici di Monreale, e per aver governato con saggezza
un mosaico di etnie e di religioni.
A Monreale non s’accontentò d’una chiesa, vi aggiunse un monastero e
il palazzo reale, poi diventato seminario. All’abate, benedettino, procurò
il titolo di arcivescovo, diede terre e castelli, il diritto di pascolo e di legna
in tutto lo Stato, cinque barche nel porto di Palermo. Insieme con la dignità
di baroni, gli arcivescovi di Monreale ebbero prerogative regie: capi militari
e giudici in cause penali e civili, concedevano la grazia ai condannati e abilitavano
i medici alla professione.
Il monastero era esente dall’obbligo di ‘servire le posate’, chiunque fosse l’
illustre ospite, re compreso. Quando il sovrano saliva a Monreale, gli spettavano
di diritto soltanto due pani e la razione di companatico e vino della mensa
comune.
Nell’erigere questa acropoli religiosa e regale dominante la città e il mare,
Guglielmo probabilmente pensava a due famosi esempi, san Giovanni in
Luterano, che era chiesa e palazzo, e Costantinopoli, dove la reggia non distava
da santa Sofia. Il giovane re volle gareggiare con Costantino e Giustiniano, per
non parlare di Carlo Magno, che ebbe in Aquisgrana reggia e chiesa, e dei
dogi veneziani, che avevano pensato e costruito san Marco come cappella del
palazzo ducale. Tracciando per la nascente cattedrale la pianta a croce latina,
intese fare una scelta culturale, inserirsi nella civiltà dell’Occidente, senza
però rinunciare alle fantasiose suggestioni e ai raffinati modelli dell’altra
sponda del Mediterraneo.
Il modello più alto e ieratico della regalità era la corte di Bisanzio e da Bisanzio
Guglielmo fece venire 150 mosaicisti a decorare il duomo. Muratori arabi,
mosaicisti bizantini, colonne di ex templi pagani, pianta latina, finanziamento
normanno: il duomo è un felice prodotto di civiltà incrociate.
La superficie musiva copre 6340 metri quadri, circa 2000 più che a san Marco.
130 grandi quadri a fondo oro raccontano episodi del Vecchio e del Nuovo
Testamento, in coerente progressione didascalica e figurativa, raggiungendo
il punto culminante, il trionfo cromatico e teologico nella colossale, incombente
figura del Cristo Onnipotente che occupa tutto il catino dell’abside. Queste
storie propongono un catechismo visivo più efficace di cento prediche. La
pittura fu la prima forma di scrittura umana. Polignoto raccontò nel Pecile,
portico di Atene, i fatti della mitologia greca per chi non era in grado di
leggere Omero. La civiltà delle immagini è, cronologicamente, la prima di
tutte le civiltà.
Il Vecchio Testamento aveva vietato le immagini affinché il popolo non cadesse
nell’idolatria, ma quando Cristo s’incarnò e prese figura umana la civiltà
delle immagini entrò nel tempio. Esse sono il vangelo degli analfabeti, né
aveva torto il poeta Francois Villon quando scriveva nella preghiera alla
Vergine, composta per la madre:
Io sono una povera e vecchia donna
che non sa nulla, non ho mai letto una lettera,
vedo nella chiesa della mia parrocchia
un paradiso dipinto dove sono arpe e luci
e un inferno dve i dannati son messi a bollire,
l’uno mi fa paura, l’altro mi dà gioia e letizia.
‘Quello che loro signori vedono in alto, a destra, è la creazione del caos’, spiega
ai turisti una guida con voce da sergente in piazza d’armi ‘poi viene la creazione
della luce, e lì accanto quella del firmamento degli animali, accetera. Adesso per
favore, alzino la mano verso la finestra della porta maggiore, per non essere
abbagliati, e vedranno controluce la creazione di Eva’.
I turisti obbedienti, alzano il braccio come nel saluto romano per ripararsi dal
violento raggio di sole e, strizzando gli occhi, intravvedono la fatale costola,
trasformata in femmina.
‘Da quest’altra parte possono invece ammirare il serpente tentatore e la vergogna
che provano i nostri progenitori, dopo aver mangiato la mela.
Osservino, prego, osservino come si vergognano Adamo ed Eva.
Sfido io, peccato hanno.
Di lì, tutte le nostre disgrazie cominciate sono’.
I turisti assuefatti al ‘tutto compreso’, annuiscono.
Nell’ala sinistra del presbiterio uno s’informa circa l’urna che sta sotto l’altare.
‘Conteneva il corpo di Luigi IX, re di Francia, morto di peste alle crociate’ spiega
la guida, la voce incrinata dalla commozione, come se parlasse d’un parente.
‘Adesso la salma dov’è?’.
‘Parigi indietro la rivolle, qui c’è soltanto il cuore con gli altri visceri’.
‘E’ stato De Gaulle?’.
‘E’ stato Filippo III, nel 1278′.
‘E l’abbiamo ceduta gratis?’.
‘Una spina della corona di Nostro Signore data ci fu!’.
Conclude la guida soddisfatta del cambio.
(Cesare Marchi, Grandi peccatori, Grandi cattedrali)
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