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Fece tre nobili pìstole, scrive il Villani: l’una mandò al reggimento di Firenze,
dogliendosi del suo esilio senza colpa; l’altra mandò all’imperadore Arrigo,
quando era allo assedio di Brescia; la terza a’ cardinali italiani, quando era
la vacazione dopo la morte di papa Clemente, acciò che s’accordassero a
eleggere papa italiano: tutte in latino, con alto dittato e con eccellenti sentezie
e autoritadi; le quali furono molto commendate dai savi intenditori.
A tutti è noto dell’ospitalità aperta al profugo illustre dagli Scaligeri. Solo
qui ne rimane a dire che ogni cenno ad onore di quella famiglia consecrato
nella Divina Commedia sembra riferirsi a tarda epoca e tutta contrassegnata
dalla già fiorente gloria di Cane.
Né Dante era tale da secondare strani presagi senza base di già accorso
adempimento; e presso che tutto quanto vedesi nella Commedia pronosticato,
era in effetto quand’ei mostrava udirne dai trapassati la predizione.
Con questa norma non sappiamo noi assentire che in que’ vocaboli.
E sua nazion sarà tra Feltro e Feltro
…significar volesse la nascita o la patria di Cane; intendiamo anzi che dir volesse
popolazione e nazione da Cane signoreggiata, e venisse così a significare come
Cane mostrava d’avere ad essere salute di tutta la Romagna, se già allora non
era. E il Villani contemporaneamente scrivea:
Fu adempiuta la profezia di maestro Scotto, che il Cane di Verona sarebbe signore
di Padova e di tutta la Marca trivigiana.
Ma ben presto l’uomo della verità e della rettitudine cadde nello sfavore del
potente. Ebbene veramente l’Alighieri da’ vari amici delle lettere ospizio e favore.
Ma la virtù trova ricetto presso i grandi soltanto a forza di prudenza e di pazienza;
né queste erano le virtù che raccomandare più potessero l’esule ghibellino.
Egli riguardavasi ancora e voleva essere riguardato qual uno de’ già priori d’una
serenissima repubblica e quale antico amorevole d’un Carlo Martello e d’un Nino
de’ Visconti.
Gli ospiti dello sventurato si reputavano male rimunerati da quella gratitudine che
non andava mai disgiunta dalla nobile sua naturale alterezza. Già le corti tardi sanno
addarsi delle virtù e rado o non mai di quelle cadute in umile e basso stato: quindi
nessun signore pensò seriamente a ristorarlo de’ suoi danni. Non v’ha cosa che
consumi sé stessa presso i potenti quanto la liberalità.
Tanto poi il condursi bene nelle case de’ grandi è più difficile quanto più abbiasi
ragionevolmente di sé stesso buona opinione. E Dante, di nobile schiatta, avea
singolarmente in odio que’ che, sortito avendo oscuri natali, si erano fatti potenti
colla forza e coll’astuzia. Nello aderirsi or all’uno or all’altro di quei signori, chiamava
sempre in soccorso d’Italia un sommo imperante.
Aveva Arrigo fatto invitare nel 1310 i Fiorentini a prestargli omaggio a Losanna
negli Svizzeri. Dante, per colà avviato, ebbe un abboccamento con quel frate Ilario
monaco del convento di Corvo alle foci della Macra, che poi dedicò la cantica dell’
Inferno a messere Uguccione della Faggiuola vicario imperiale in Germania, e che
scrisse la relazione di quell’abboccamento.
Era egli probabilmente incamminato per quelle parti quando scrivea:
Tra Lerici e Turbia, la più diserta
La più romita via è una scala,
Verso di quella, agevole ed aperta,
scontrandosi Lerici a’confini della riviera di Genova da Levante, vicino al castello di
Vezzano, e Turbia da ponente presso a Monaco. Argomentasi anzi che fino dal
1308 si recasse a tal uopo in Germania ed ivi scrivendo si stesse il XXIII canto dell’Inferno,
per aver egli indicata l’Italia, come da lui lontana, con quel verso
Del bel paese là dove ‘l si suona…