
Un fatto… e un sottotitolo:
Le facce della politica
(più che l’onor poté lo digiuno…)
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Terza passeggiata &
Le sfide della Natura &
Il libretto da guida… & La testa del lupo (prenderò Old Club Foot!)
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Relazioni pericolose (3) & (4)
Da:
i miei libri

Don Alonso, dunque, decise di mettere il figlio in collegio (ancora non
conosceva la moderna pedagogia di Rousseau…), sia per allontanar-
lo dalla sua indulgenza, sia per risparmiarsi delle preoccupazioni…
Avendo saputo che a Segovia c’era un certo dottor Cabra, che per
professione educava i figli dei signori, ci mandò don Diego e anche
me, perché lo accompagnassi e lo servissi.
La prima domenica dopo la Quaresima cademmo nelle mani della
fame in persona: considerando tanta miseria, posso dirlo senza il ri-
schio di esagerare. Era un prete che assomigliava a una cerbottana,
abbondante solo in lunghezza, con una testa piccola, i capelli rossic-

ci, gli occhi sprofondati nel cranio, tanto che sembrava guardare dal
fondo di due ceste, così infossati e scuri che sarebbero andati bene
come botteghe da mercanti; il naso in bilico fra Roma e la Francia,
tant’era camuso e deforme, perché se l’erano mangiato i bubboni di
una costipazione, e certamente non i vizi per i quali bisogna spender
denaro; la barba stinta per paura della bocca vicina, che, dalla gran
fame, sembrava minacciasse di mangiarsela; di denti gliene manca-
vano non so quanti e credo che fossero stati esiliati come fannulloni
e vagabondi; il gargarozzo lungo come quello di uno struzzo, con un
pomo d’Adamo così sporgente, che sembrava andasse a cercarsi da
mangiare spinto dalla necessità; le braccia secche, ciascuna simile
a un fascio di sarmenti.

A guardarlo dalla cintola in giù, sembrava una forchetta o un compas-
so, con due gambe lunghe e striminzite. L’andatura era molto lenta; se
si agitava un po’, gli risuonavano le ossa come le battole di San Lazza-
ro. La parola consunta; la barba fluente, perché non se la tagliava mai
per non spendere, ma lui diceva che gli faceva schifo vedersi la mano
del barbiere in faccia, che sarebbe morto piuttosto di permettere una
cosa del genere; i capelli glieli tagliava uno di noi.
Nei giorni di sole portava un berretto che sembrava rosicchiato dai topi,
con dei buchi così grandi che poteva passarci un gatto e con decora-
zioni di unto; era fatto di qualcosa che un tempo era stato panno, con i

risvolti di forfora. La sottana, secondo alcuni, era miracolosa, perché
non si sapeva di che colore fosse. Alcuni, vedendola così spelacchiata,
dicevano che era di pelle di rana; altri affermavano che era pura imma-
ginazione; da vicino sembrava nera, da lontano azzurrognola. La indos-
sava senza cintura; non portava a colletto, né polsini.
Con i capelli lunghi e la sottana misera e corta, sembrava un lacchè del-
la morte. Ognuna delle scarpe poteva essere la tomba di un gigante.
Quanto alla sua stanza, non c’erano neanche i ragni. Faceva degli scon-
giuri contro i topi, per paura che gli rosicchiassero alcuni tozzi di pane
che teneva in serbo. Il letto ce l’aveva per terra e dormiva sempre da u-
na parte, per consumare le lenzuola.
… Insomma era arcipovero e stramisero…

Caddi dunque nelle mani di costui e rimasi in suo potere con don Diego.
La sera in cui arrivammo ci indicò la nostra camera e ci fece un breve
discorsetto, senza dilungarsi per non sprecar tempo; ci disse che co-
sa dovevamo fare. E così restammo occupati fino all’ora di mangiare.
Andammo di là…..
Prima mangiavano i padroni e noi domestici li servivamo.
Il refettorio era un bugigattolo. Intorno a un tavolo sedevano fino a cin-
que signorini. Io per prima cosa cercai i gatti e, non vedendoli, chiesi
come mai non ce ne fossero a un servo di vecchia data, il quale era
così magro che portava già il marchio del collegio. Cominciò a com-

muoversi e disse: ‘Come gatti? Chi vi ha mai detto che i gatti amano i
digiuni e le penitenze? Si vede che siete nuovo, perché siete grasso’.
Io, a questo punto, cominciai ad affliggermi; e ancora più mi spaventai
quando notai che tutti quelli che vivevano nel collegio da tempo erano
magri come chiodi, con delle facce che sembravano spalmate di po-
mata corrosiva.
Il dottor Cabra si sedette e diede la benedizione…
Mangiarono una cena eterna, senza inizio né fine…
Portarono del brodo dentro una scodella di legno, così chiaro, che, a
mangiarne, Narciso avrebbe corso un pericolo maggiore che alla fonte.
Notai con quale affanno le dita macilente sguazzavano all’inseguimen-
to di un cece solitario e sperduto che stava sul fondo. Ad ogni sorta Ca-
bra diceva: ‘Dicano quel che vogliono, ma non c’era niente di meglio del
minestrone; tutto il resto è vizio e gola’.

Non appena finì di dirlo, si mise a bere avidamente dalla sua scodella, af-
fermando: ‘Questa è tutta salute e fa bene alla mente’. ‘Ti venisse un ac-
cidente!, dicevo fra me, quando vidi un servo simile a un mezzo spettro,
tanto era smunto, con un piatto di carne fra le mani che sembrava se la
fosse strappata di dosso.
Come contorno c’era un navone sperduto e il maestro, vedendolo, dis-
se: ‘C’è un navone? Per me non c’è pernice che possa reggere il con-
fronto. Mangiate, che mi fa piacere vedervi mangiare’.
Distribuì ad ognuno una porzione così piccola di carne di montone che,

fra quello che si attaccò alle unghie e quello che rimase fra i denti, cre-
do che si consumò tutto, lasciando il ventre vuoto e scomunicato seb-
bene non avesse colpe. Cobra li guardava e diceva: ‘Mangiate, che
siete ragazzi e mi rallegra vedere il vostro appetito’. Pensi un po’, Sua
Signoria, che condimento per quelli che sbadigliavano di fame!
Finirono di mangiare e rimasero dei tozzi di pane sul tavolo e due buc-
ce e qualche osso nel piatto; il direttore del collegio disse: ‘Lasciate
questo per i servi, che devono mangiare pure loro; non dobbiamo vo-
lere tutto per noi’. ‘Che Iddio ti faccia andare di traverso quel che hai
mangiato, miserabile, che hai fatto un tale affronto alla mia pancia!’,
dicevo io.

Diede la benedizione e disse: ‘Su lasciamo il posto ai servi, e voi an-
date a fare un po’ di moto alle due, così non vi farà male quello che a-
vete mangiato’. Allora non riuscii a trattenermi dal ridere sguaiatamen-
te.
Si irritò, mi disse di imparare a essere discreto, poi aggiunse altre tre
o quattro sentenze antiche e se andò. Toccò a noi sederci e io, veden-
do che le cose andavano male e che il mio ventre chiedeva giustizia,
poiché ero più sano e più forte degli altri, mi gettai sul piatto come tut-
ti, e riuscii a mettermi in bocca due dei tre tozzi di pane e una di buc-
ce.

Gli altri cominciarono a brontolare; udendo il rumore, entrò Cabra di-
cendo: ‘Mangiate come fratelli, perché Dio vi dà di che saziarvi; non
litigate, che ce ne n’è per tutti’.
Ritornò fuori al sole e ci lasciò soli…
Assicuro Sua Signoria che ne vidi uno, il più debole, un biscaglino che
si chiamava Jurre, che si era a tal punto scordato di come e da quale
parte si mangiava, da portarsi due volte agli occhi una scorzetta che
gli era toccata e alla terza le mani non riuscivano a dirigersi verso la
bocca. Io chiesi da bere, perché gli altri, essendo quasi digiuni, non lo
facevano, mi diedero un bicchiere d’acqua; e quasi non l’avevo anco-
ra avvicinato alla bocca, quando, come se fosse stata l’acqua dell’of-
fertorio della messa, me lo tolse il ragazzo spiritato di cui ho parlato.
Mi alzai con il cuore profondamente addolorato, vedendo che stavo
in una casa dove si brindava al ventre,… senza renderlo partecipe….
(F. de Quevedo, L’imbroglione)
