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L’espansione dei mercati latinoamericani accellerava la accumu-
lazione di capitali nei vivai dell’industria britannica.
Da tempo, ormai, l’Atlantico s’era trasformato nell’asse del com-
mercio mondiale, e gli inglesi avevano saputo sfruttare fino in
fondo la collocazione geografica della loro isola, ricca di porti,
posta a metà strada tra il Baltico e il Mediterraneo e rivolta verso
le coste dell’America.
L’Inghilterra organizzava un sistema universale e si trasformava
in una fabbrica prodigiosa che riforniva l’intero pianeta: le mate-
rie prime provenivano da tutto il mondo e si rovesciavano su tut-
to il mondo sotto forma di merce lavorata.
L’Impero poteva contare sul porto più grande e sul più potente
apparato finanziario dell’epoca; aveva il più alto livello di spe-
cializzazione commerciale, deteneva il monopolio mondiale
delle assicurazioni e dei noli, dominava il mercato internazio-
nale dell’oro.
List, il padre dell’Unione doganale tedesca, si era reso conto che
il Libero commercio costituiva, per la gran Bretagna, il principale
prodotto d’esportazione. Non c’era nulla che facesse infuriare gli
inglesi più del ‘protezionismo doganale’; e lo dicevano, dimostran-
dolo a volte, a sangue e a fuoco, come nel caso della Guerra dell’-
oppio contro la Cina.
Tuttavia la libera concorrenza sui mercati diventò, per l’Inghilterra,
una specie di religione rivelata soltanto dal momento in cui ebbe
la sicurezza d’essere la più forte e dopo aver sviluppato la propria
industria tessile con l’aiuto della legislazione protezionista più
severa di Europa. Agli inizi, quando ancora la situazione non era
facile e l’industria britannica si trovava in svantaggio, il cittadino
sorpreso a esportare lana grezza, non lavorata, veniva condannato
al taglio della mano destra e, se recidivo, all’impiccagione. Era
proibito sotterrare un cadavere prima che il parroco della zona
certificasse che il sudario che lo avvolgeva proveniva da una
fabbricazione nazionale.
‘Tutti i fenomeni distruttivi determinati dalla libera concorren-
za’, scriveva Marx, ‘si riproducono in proporzioni gigantesche
sul mercato mondiale’.
L’ingresso dell’America Latina nell’orbita britannica, dalla quale
sarebbe poi uscita soltanto per entrare in quella nord-americana,
avvenne all’interno di questo schema generale, e in esso venne
sancita la dipendenza dei nuovi paesi indipendenti.
La libera circolazione delle merci e la libera circolazione della
moneta per i pagamenti e il trasferimento dei capitali ebbero
conseguenze drammatiche.
In Messico, nel 1829, Vincente Guerrero giunse al potere ‘portato
a spalle dalla disperazione degli artigiani, formentata dal grande
demagogo Lorenzo de Zavala che scatenò sulle botteghe del
Parian, piene di merci inglesi, una turba affamata ed esasperata’.
Guerrero resistette poco al potere, e cadde tra l’indifferenza dei
lavoratori perché non volle o non poté porre un freno all’impor-
tazione di merci europee ‘per l’abbondanza delle quali’, scrive
Chavez Orozco, ‘le masse degli artigiani delle città che prima
dell’indipendenza, e soprattutto nei periodi in cui l’Europa era
in guerra, vivevano in una certa agiatezza, si trovavano disoccu-
pate e affamate’.
L’industria messicana aveva risentito della mancanza di capitali,
di manodopera sufficiente e di tecniche moderne; non aveva avu-
to una organizzazione adeguata né vie di comunicazione e mez-
zi di trasporto per raggiungere i mercati e le fonti di approvvi-
gionamento: ‘Ciò che ebbe in realtà, e ne ebbe probabilmente
d’avanzo’, scrive Alonso Aguilar, ‘furono interferenze, restrizio-
ni e intralci di ogni tipo’.
Ciononostante, come avrebbe fatto notare Humboldt, l’industria si
era risvegliata nei momenti di stati del mercato estero, quando le
comunicazioni marittime si interrompevano o diventavano più
difficili, e aveva allora cominciato a fabbricare acciaio e ad adope-
rare il ferro e il mercurio.
Ma il liberalismo che l’indipendenza portò con sé non faceva che
aggiungere perle alla Corona britannica e paralizzare gli stabili-
menti tessili e metallurgici di Messico, Puebla e Guadalajara.
Lucas Alaman, politico conservatore di grandi capacità, si rese
conto a tempo che il pensiero di Adam Smith conteneva una
buona dose di veleno per l’economia nazionale e, come mini-
stro, favorì la creazione d’una banca statale, il Banco de Avio,
per dare impulso all’industrializzazione.
Una tassa sui tessuti stranieri di cotone doveva permettere al
paese di raccogliere il denaro necessario per comperare all’este-
ro i macchinari e le attrezzature tecniche di cui il Messico aveva
bisogno per rifornirsi di tessuti di cotone di produzione propria.
Il paese disponeva della materia prima, di energia idroelettrica
e poté creare dei buoni operai in tempo abbastanza breve.
Il Banco sorse nel 1830, e dalle migliori fabbriche europee giun-
sero poco dopo i macchinari più moderni per filare e tessere il
cotone; inoltre, lo stato ingaggiò tecnici stranieri, esperti nella
tessitura.
Nel 1844, i grandi stabilimenti di Puebla produssero un milione
e quattrocentomila tagli per coperte. La nuova capacità industria-
le del paese superava la domanda interna; il mercato di consumo
del ‘regno della disuguaglianza’, formato per la maggior parte da
indios affamati, non poteva sostenere la continuità di quello svi-
luppo febbrile e vertiginoso.
Lo sforzo per rompere le strutture ereditate dalla colonia cozzava
contro questa muraglia.
L’industria s’era a tal punto modernizzata che, verso il 1840, gli
impianti tessili nord-americani erano dotati di un numero di fusi
inferiore a quello degli impianti messicani.
Dieci anni dopo, la proporzione s’era invertita di parecchio.
L’instabilità politica, le pressioni dei commercianti inglesi e france-
si e dei loro potenti soci locali, e le ristrette dimensioni del mercato
interno già strangolato dall’economia mineraria e latifondista, affos-
sarono l’esperimento ch’era cominciato…con enorme successo….
(E. Galeano, Le vene aperte dell’America Latina)