DOC REESE

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doc reese

 

 





Malgrado le guardie sedute lì a fianco durante le registrazioni, malgrado

i nostri volti pallidi, che a molti di loro saranno sembrati maschere di

indifferenza, i detenuti riempirono i nostri dischi con migliaia di canzoni

trascinanti: un’epica intrisa di sole rovente, brutalità e coraggio umano,

accompagnata da melodie di grande intensità.

Sognavo inutilmente di poter parlare liberamente con questi fratelli

ritrovati, capaci di trionfare sulla loro malasorte con il canto: tra noi

c’erano sempre le guardie.

 

doc reese


La notte non riuscivo a dormire, cercando di immaginare un modo

per raccontare le loro vite e i loro pensieri (e con i loro anche i miei…).

Zavorrato dal senso di colpa per i peccatucci e le fantasie adolescenziali

mi credevo un criminale come loro, passibile di arresto in qualsiasi

momento.

Tutti i colpi di fischietto, tutte le sirene della polizia suonavano per me.

Immaginavo di commettere un reato per poter condividere le loro

esperienze e riuscire finalmente a scrivere di loro con cognizione

di causa. Finalmente un giorno, grazie ai buoni uffici del mio amico

texano John Henry Faulk, conobbi Doc Reese. 

 

doc reese


Per degli errori di gioventù, Reese aveva scontato una condanna nella

prigione di stato del Texas durante i ‘giorni della giovenca rossa’,

così chiamati perché la frusta usata per impartire gli ordini ai

carcerati era fatta di cuoio di giovenca rossa, con le setole ancora

attaccate.

Dopo aver scontato la sua pena, Reese era tornato a scuola, aveva

studiato in un seminario battista ed era diventato un predicatore

di grande spessore. Ma, come aveva scoperto Faulk, non aveva

dimenticato le canzoni imparate sul fiume.

Decisi così di portarlo ai festival di musica folk di Newport dove,

davanti a un pubblico di ragazzi attoniti venuti lì per ascoltare Dylan

e il Kingston Trio, eseguì i canti di lavoro del Texas, picchiando

con zappe e asce davanti a una foresta di microfoni, insieme ad

alcuni compagni dei vecchi tempi. 

 

doc reese


Nelle lunghe conversazioni che si svolsero durante e dopo le prove

mi accorsi che Doc era non solo un cantante di talento, ma anche

un uomo saggio e profondo. Pur non credendo che mi avrebbe

dato ascolto, lo sellecitai a scrivere la storia della sua esperienza

in prigione, spiegando il ruolo del canto nella vita dei detenuti.

Ecco qui la sua storia, narrata con la freschezza di una lingua

vergine, mai prima d’ora usata a scopi letterari: la storia di un

uomo che è stato all’inferno e ne ha fatto ritorno.

A noi non importa se questo inferno si trova nella colonia penale

texana lungo le sponde del Brazos invece che nel penitenziario

di stato di Parchman: entrambi i luoghi proiettavano la stessa

ombra terrificante sul profondo Sud e Doc Reese avrebbe certa-

mente potuto vivere lo stesso tipo di esperienza nelle prigioni

del Mississippi.

L’unica differenza è costituita da alcune canzoni.

Il racconto di Doc comincia con un blues di sua composizione.


 

LA STORIA DI DOC REESE


 

Sono nato il giorno 13,

unico figlio di mia madre,

Sono nato il giorno 13,

unico figlio di mia madre,

Del denaro che c’è al mondo,

non un soldo ho potuto toccare.

 

Sono quello sfortunato,

per quanto ci possa provare,

Sono quello sfortunato,

per quanto ci possa provare,

Prende l’aereo per la California

e in Cina mi fanno atterrare.

 

Non sono andato a scuola

sono solo un poveretto,

Non sono andato a scuola,

sono solo un poveretto,

La volta che ho messo piede a scuola,

è crollato giù il tetto.

(Alan Lomax, La terra del Blues)





 

 

doc reese

 

JAZZ BASTA LA PAROLA

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la parola







Prima di continuare a descrivere il clima musicale di

New Orleans, è necessario aprire una parentesi sul

ministrel show, un genere di spettacolo di varietà as-

sai diffuso negli Stati Uniti tra la seconda metà dell’-

Ottocento e gli inizi del Novecento.

I ministrels imitavano farsescamente il mondo dei

neri del Sud e le loro tradizioni musicali. Gli inter-

preti di queste parodie erano sempre bianchi: con

i volti anneriti, le labbra scarlatte, gli abiti colora-

tissimi, cantavano, ballavano e recitavano scenette

rifacendosi a quello che pareva essere il modo di

parlare, di comportarsi, di suonare e di muoversi

del popolo di colore.

 

la parola


Facevano musica di intrattenimento, ispirandosi al-

le canzoni, alle marce e al folclore del popolo afro-

americano.

In questo modo preparano il terreno al ‘jazz’, anch’-

esso nato da simbiosi e insolite connessioni tra la cul-

tura musicale dei bianchi e quella dei neri.

Da tutte queste componenti – la musica per banda,

i ministrel show, il ragtime e lo stride – si sviluppò lo

stile di New Orleans, che ebbe fra i suoi iniziatori

George Lewis, Freddie Keppard,….e Buddy Bolden.

 

la parola


Probabilmente, il primo cornettista a capo di una

banda di colore fu Frances ‘Buddy’ Bolden, nato nella

città del delta il 6 settembre 1877 e diventato in breve

tempo assai popolare.

Purtroppo, di lui non possediamo alcun documento

sonoro, ma la testimonianza di Bunk Johnson – anch’-

egli suonatore di cornetta, figlio di uno schiavo e di

una indiana, vissuto nella stessa epoca ma scomparso

diciott’anni più tardi, nel 1949 – può essere utile a com-

prendere l’importanza del suo apporto alla definizione

del nascente ‘jazz’.

‘Facevo parte dell’orchestra di Adam Oliver’ disse  John-

son, ‘poi ebbi modo di ascoltare Bolden e capii che avrei

dovuto assolutamente lavorare con lui. Buddy eseguiva

i blues come nessun altro sapeva fare. Io adoravo anche

la quadriglia e pure lui era innamorato: così cominciam-

mo a suonare insieme.

Il nostro cavallo di battaglia era proprio una quadriglia,

la stessa che fornì la base a quel tema che diventò famo-

so in tutto il mondo come ‘Tiger Rag’.

 

la parola


Bolden viveva in modo sregolato, beveva a più non

posso, si logorava suonando dovunque e a qualsiasi ora

del giorno e della notte; così, nel 1907, finì in un manico-

mio di Jackson, vicino Los Angeles, dopo un’ennesima

scenata causata dall’alcolismo.

Vi rimase, dimenticato da tutti, fino al 1931, quando

morì senza che nessuno ne reclamasse le spoglie!’.





 

la parola


DIALOGHI NELLA CAVERNA

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dialoghi nella caverna

 

 






“Ascolteremo ora un rapporto del nostro stimato Kudd,

il Reverendo Tom Harrison, che è appena tornato da un

viaggio d’affari a Washington”.

(…..) Ogni Klansman dovrà scrivere ai Senatori del Con-

gresso e ai membri dello stesso, chiedendo di boicottare e

di respingere tutte le proposte di legge sui cosiddetti dirit-

ti civili che i comunisti o altri pacifisti, uomini di cultura,

scrittori…, possono inventare, come quella sul pieno im-

piego o quella contro il linciaggio. 

 

dialoghi nella caverna


(……) “Al cospetto di Dio non è peccato uccidere un negro

perché i negri sono soltanto dei cani”, declamò piamente

il Kudd dal suo altare.

“Voglio qui ringraziare”, concluse un altro “il comandan-

te dei vigili urbani, e lo sceriffo della contea, per il lavoro

svolto, ed inoltre per avermi assegnato al turno di giorno

permettendomi di dedicare le mie notti alle spedizioni del

Klan”.

 

dialoghi nella caverna


“Passiamo ora ai reclami”, riprese il Mago.

Seguì un autentico boato mentre parecchi Klansmen si

alzavano per chiedere la parola.

“Calma, ragazzi!”, disse il Mago.

“Parla tu…e che tutti abbiano un cellulare per comuni-

care con il Mago Imperiale”.

“Guarda cosa mi ha fatto uno schifosissimo cane negro!”,

disse.

“Mi ha tagliato il pollice, e ha sporcato il mio cortile,

….ecco cosa mi ha fatto!”.

“Conosciamo già nome e indirizzo, grande fratello Titano

ha consultato il camerata Acciaio di fuoco”, intervenne

Falco Notturno “e andremo presto a sistemarlo”. 

 

dialoghi nella caverna


“Avanti il prossimo!”, riprese il Mago con un ennesimo colpo

di martello.

“Che ne è stato di quel negro che all’Hotel Henry Grady si

è comportato nel modo che vi ho detto la settimana scorsa?”,

domandò un Klansman.

“Abbiamo esaminato attentamente la questione e abbiamo

deciso che la cosa migliore era di chiedere a un nostro Fra-

tello vice-sceriffo di condannarlo a due anni di lavori forza-

ti”.

“Ho anch’io qualcosa da dire”, intervenne un altro.

“Mi è stato detto che una famiglia di negri, e uno sporco

frocio bianco che li aiuta, è andata ad abitare in una casa

per bianchi di fronte alla nostra scuola ariana, al 300 di

Pulliam Street”. 

 

dialoghi nella caverna


Subito il Mago si alzò in piedi.

“Nash”, ordinò, “prendi con te altri tre poliziotti e andate

subito in quella casa a vedere cosa succede. Poi tornate qui

a riferire”.

Anche quest’ordine fu eseguito subito.

“Sono il Gran Titano Krupp”, intervenne un uomo prenden-

do la parola “e voglio affrontare un problema piuttosto grave.

I miei bambini tornati a casa da scuola, mi hanno detto che un

maestro gli insegna a essere tolleranti con i negri, ed altra gen-

taglia del genere. Noi sappiamo che abita anche davanti alla

scuola, quello schifoso, lurido…bastardo. Scrive e insegna

questa cacate……

Per di più qualche giorno fa, contrariamente i precetti del

nostro sacro Korano, a parlato male del Klan, ha scritto

delle cose strane (beve un sorso di birra).

Secondo me maestri del genere costituiscono una seria minac-

cia alla supremazia del Grande dragone della razza bianca”.

 

dialoghi nella caverna

 

“E’ vero” rispose il Mago.

“Fratello Kligrapp… e anche te, Krupp, preparate un editto

per tutte le Kaverne, pronti i telefoni…. Bisogna che i Klansmen

educhino i propri figli a raccontare come si comportano i loro

insegnanti. I nomi di questi maestri devono essere riferiti a

me per gli opportuni provvedimenti. Il Klan ha molti amici

nelle direzioni scolastiche….”.

“Sono il Klansman Silvi Wallace, presidente del comitato edili-

zio del Klan”, disse un altro del pubblico.

“Voglio dirvi che un figlio di puttana che non nomino, è anda-

to giù al Sud, per pubblicare un libro, parla del nostro Korano,

capite già abbiamo troppi affari lì, ci manca anche questo luri-

do cane bastardo, lurido figlio di una pazza….”

(S. Kennedy, Sono stato nel KKK)





 

 

dialoghi nella caverna

 

IL RITORNO DEI KKK (2)

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La Foto del blog è tratta da un reportage

di Jim Lo Scalzo in:

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il ritorno dei kkk 2

 

 







“Sono stato costretto a combattere contro Hitler” dichiarò un

giovane con amarezza “ma se scoppia la guerra delle razze,

sarò uno dei primi ad arruolarmi volontario”.

“Bravo!” approvò Falco Notturno.

“Ma ora, prima di proseguire, devo dirvi qualcosa sui nomi

dei funzionari del Klan e su altre questioni che possono in-

teressarvi”.

Prese dalla tasca un libriccino azzurro piuttosto consunto

del quale, trovandomi in prima fila, scorsi il titolo.

In copertina a grossi caratteri c’era scritto:

 

  Il Korano

  I riti di K-Uno-Carattere, Onore, Dovere.

 

Mentre Carter lo sfogliava, lessi anche questa frase:

 

ATTENZIONE! Il Korano è il Libro del Klan ed è perciò un

testo sacro il cui contenuto DEVE essere rigidamente tenuto

segreto. Una grave pena sarà inflitta a chi violasse questa

legge.

 

“Sapete tutti” continuò Falco Notturno “che la zona su cui

si estende la nostra autorità viene chiamata l’Invisibile Im-

pero, il cui governo è affidato all’Imperatore assistito da

quindici Genii.

L’Impero si divide in vari Regni, retti da un Gran Dragone,

il Regno in Province, guidate da un Gran Titano, e la Provin-

cia in Kantoni affidati a un Eminente Ciclope.

Inoltre ci sono il Kaliffo o vicepresidente, il Klokard o il pre-

dicatore, il Kudd o cappellano, il Kligrapp o segretario, il Kla-

bee o tesoriere, il Kadd o comandante, il Klarogo o guardia, il

Klexter o guardia esterna, il Klokann che fa parte dei nostri

comitati d’investigazione e infine Falco Notturno, che sarei io,

il cui compito consiste nel proteggere la santità della Kaverna,

nel custodire la Croce e nell’insegnare ai nuovi membri le fra-

si da spargere nella sacra piazza, o piazzale, assieme ai rego-

lamenti della Kaverna.

Il Keagle è un organizzatore, mentre i Kavalieri sono i nostri

soldati. Ora, prima di entrare nella Kaverna voglio assicurar-

mi che conosciate tutti la nostra stretta di mano.

Sempre con la sinistra, mi raccomando.

Tutti i segni del Klan devono essere eseguiti con la sinistra

quando, naturalmente, non sono necessarie entrambe le mani.

E, attenzione, non stringete, limitatevi a sfregare il palmo del-

la vostra mano contro quello di chi intendete salutare”.

Ci demmo la mano secondo queste istruzioni e subito dopo

Falco Notturno disse: “Dovete anche sapere come si vota. Noi

del Klan non votiamo molto, in genere il presidente di una riu-

nione agisce come meglio crede o espone senza discutere le de-

cisioni dei suoi superiori.

Ma ad ogni modo si fa così: quando si richiede una votazione

chi presiede batte un colpo di martello e a questo segnale ognu-

no posa il gomito sinistro sul ginocchio lasciando cadere per-

pendicolarmente il resto del braccio. Il pollice deve essere

piegato sul palmo, così, e le quattro dita allargate a simboleg-

giare le quattro regole basilari del Klan. Allora il presidente

batte un altro colpo e tutti alzano la mano sinistra in un gesto

di saluto che noi chiamiamo ‘segno di riconoscimento’ e che

va fatto con le dita nella posizione di cui parlavo prima.

Al terzo colpo di martello quelli che votano ‘sì’ devono riab-

bassare il braccio come prima, in modo da formare con la

gamba un ‘K’.

Chi non è d’accordo tiene invece il braccio sollevato….”.

Il Falco Notturno ammiccò, facendoci capire che non era

consigliabile votare contro una proposta della gerarchia.

“Credo non ci sia altro” disse rimettendosi in tasca il Korano.

(F. Nencini, Storia del KKK)





 

 

il ritorno dei kkk 2

 

LA BAMBOULA INCONTRA LA COUNJAILLE (3)

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la bamboula 3

 

 

 

 

 

 

In realtà, prestando attenzione a certi particolari, qualcuno

ha concluso che si trattava di un’altra danza, la ‘caunjaille’,

che era fra le più popolari di New Orleans.

Una terza, popolare quanto la ‘bamboula’, era la ‘calinda’,

strettamente connessa coi riti voodoo.

Quando Cable scriveva, New Orleans stava ormai perden-

do certi suoi caratteri, essendo divenuta sempre più anglo-

sassone e protestante.

Le cerimonie di Congo Square cessarono e poco dopo, nel

1894, cominciò ufficialmente la discriminazione fra le razze.

Non fu un dramma per i negri, che erano sempre vissuti ap-

partati, anzi segregati; fu una tragedia per i creoli di colore,

che avevano vissuto insieme ai bianchi nel Viex Carré, il

quartiere francese, nelle case a portico dalle balaustre di

ferro che paiono merletti, e che si erano sempre ritenuti su-

periori ai negri.

La crudele logica razzista dei protestanti li mise brutalmen-

te in un sol mazzo coi negri, e li costrinse a trasferirsi ‘up-

town’, nell’altra parte della città, a ovest di Canal Street, per

far vita in comune con loro.

Chi, fra i creoli, suonava uno strumento e si era dedicato

per anni alla musica europea, e specialmente francese, che

aveva imparato sotto la guida di buoni maestri, si trovò im-

provvisamente mischiato ai musicisti neri di ‘Uptown’, che

suonavano una musica più rozza, più violenta, in cui si av-

vertiva l’eco degli spirituals, dei work-songs, dei blues di

campagna e del ragtime del Missouri.

(A. Polillo, Jazz)

 

 

 

 

 

la bamboula 3

 

SUN PIE (2)

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sun pie 2







(Da sun-pie.html)

– I cinesi, eh?

– ‘Sicuro. Il problema è che poi si sono divisi in partiti

e tribù, hanno cominciato a mettersi le piume e si so-

no dimenticati di essere cinesi. Hanno cominciato a

farsi la guerra senza nessuna ragione, una tribù con-

tro l’altra. Anche i migliori amici potevano cambiarsi

in nemici. 

E’ questa la natura della decadenza degli indiani.

Così si capisce perché quando sono arrivati i bianchi

dall’Europa per conquistarli, loro si sono fatti mette-

re sotto così facilmente.

Erano come pesche mature, pronte a cadere’.

 

sun pie 2


Il discorso di Pie m’incuriosiva, per cui mi sedetti su

una delle traballanti sedie che stavano lì in giro.

– Stanno tornando, i cinesi, a milioni. E’ tutto prepa-

parato e non dovranno nemmeno usare la forza.

Arriveranno e ricominceranno da dove avevano

smesso.

Sun Pie scelse con cura uno scalpello e cominciò a

raschiare le gambe posteriori della poltrona. Sulle

sbarre orizzontali che connettevano le estremità c’-

erano teste di leone e il legno nero era intagliato

con intricati disegni ornamentali.

Stava lavorando di fino.

Posò il suo strumento e sorrise, la sua voce prese un

tono più morbido e mi raccontò qualcosa di se stesso.

Non teneva le distanza, non era sospettoso.

Una volta era stato in prigione per aver accoltellato

un uomo, cosa che l’aveva messo in un sacco di guai,

ma quel tale se lo meritava.

 

sun pie 2


Disse che avrei fatto meglio a prendere tutti i miei

diamanti, smeraldi e rubini e cambiarli con della gia-

da, perché quella sarebbe stata la nuova moneta ap-

pena fossero arrivati i cinesi, con il loro pesce e la lo-

ro carne.

– ‘La gente pensa che sono matto, ma io li lascio dire.

I cinesi sono gente seria, non dicono parole volgari.

L’Usignolo cinese canterà su tutta la terra. Non han-

no neanche i Dieci comandamenti, non ne hanno

bisogno. Da qui fino al Perù, tutti cinesi.

Lei è uno che prega vero? Per che cosa prega?

Prega per il mondo?’

Non ci avevo mai pensato a pregare per il mondo,

gli dissi.

Io prego per diventare una persona mgliore…….

(Bob Dylan, Chronicles)






 

sun pie 2


IL CANTO DEGLI ANTENATI (3)

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il canto degli antenati 3








Nel corso dei suoi studi antropologici condotti negli anni

Cinquanta, Lorna Marshall fornì alcune descrizioni detta-

gliate di come gli uomini e i giovani della comunità Kung

di Nyae Nyae nel deserto del Kalahari mimavano gli ani-

mali.

Spiegò che come regolare passatempo mimavano l’anda-

tura degli animali e i modi in cui tenevano e dimenavano

la testa, cogliendo i ritmi correttamente.

Tali esibizioni spesso erano inscenate solo per divertimen-

to; Marshall raccontò quanto fu piacevole guardare un

giovane uomo mimare uno struzzo che sedeva sul suo ni-

do e deponeva le uova.

Anche molti dei giochi musicali dei Kung coinvolgevano l’-

imitazione degli animali. Ogni animale veniva rappresenta-

to nella musica per mezzo del suo pattern ritmico caratteri-

stico, che spesso sembrava riflettere il suo particolare modo

di muoversi, come ad esempio il salto di un kudu.

Il ritmo era spesso fornito da giovani che pizzicavano corde

di archi, e che allo stesso tempo muovevano il braccio libero

e la testa in modo da mimare l’animale.

Marshall descrisse come i ragazzi potevano persino suona-

re i loro archi per mimare il suono della copula tra due iene.

In alcune occasioni tutti sembravano unirsi al gioco, cammi-

nando a carponi, facendo balzi e salti e riproducendo suoni

di animali.

Oltre a mimare i movimenti degli animali, è possibile che

gli esseri umani primitivi imitassero i loro versi, insieme a-

gli altri suoni del mondo naturale.

Sappiamo che i popoli tradizionali che vivono a stretto con-

tatto con la natura, fanno un uso estensivo dell’onomatopea

nel nominare le entità viventi. Tra gli Huambisa della selva

peruviana, ad esempio, un terzo dei nomi per i 206 tipi di

uccelli da essi riconosciuti ha chiaramente un’origine ono-

matopeica.

Sebbene sia altamente improbabile che gli esseri umani pri-

mitivi dessero nomi agli animali e uccelli che li circondava-

no, imitare i loro richiami deve essere stata una caratteristi-

ca chiave delle loro espressioni ….’Hmmmmmmmm’….

Lo studio dei nomi degli animali fornisce un altro indizio

sulla natura delle espressioni ‘Hmmmmmmm’ dei primi u-

mani, in virtù del fenomeno che è stato chiamato ‘simboli-

smo sonoro’.

(Steven Mithen, Il canto degli antenati)






 

il canto degli antenati 3

IL CANTO DEGLI ANTENATI (2)

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il canto degli antenati 2








…..Per definizione, migrazione significa entrare in terre

sconosciute, in cui si verrà a contatto con nuovi tipi di

animali e piante e dove occorrerà reperire nuove fonti

dislocate di acqua dolce, legna da ardere, pietre e altre

risorse e trasmettere agli altri le relative informazioni.

Una simile comunicazione sarebbe stata essenziale a 

prescindere dal fatto che concepiamo le migrazioni de-

gli esseri umani primitivi come più simili a quelle degli

altri grandi mammiferi o a quelle dei moderni esplorato-

ri umani.

Comunque siano andate le cose, gli esseri umani primiti-

vi dipendevano per la propria sopravvivenza e riprodu-

zione dal fatto di lavorare in maniera cooperativa in qua-

lità di membri di un gruppo.

Tale collaborazione sarebbe stata essenziale soprattutto

durante le battute di caccia grossa. Per raggiungerla, era

necessaria la trasmissione da un individuo all’altro di in-

formazioni sul mondo naturale.

I moderni cacciatori-raccoglitori parlano frequentemente

delle impronte e delle tracce lasciate dagli animali, delle

condizioni meteorologiche, di strategie di caccia alternati-

ve e così via.

…….Come potrebbe essere stata raggiunta una simile inte-

razione dalla comunicazione ‘Hmmmmmmm’?

In primo luogo, dovremmo tenere conto della possibilità

che gli esseri umani primitivi si servissero di oggetti per

supportare le loro espressioni orali e i loro gesti.

Il solo fatto di fare ritorno nella propria comunità portan-

do qualche nuovo tipo di pietra o pianta, la carcassa di un

mammifero mai visto prima, o le piume di un uccello, a-

vrebbe potuto dire già molto.

Similmente, l’espressione del proprio stato emozionale per

mezzo di vocalizzazioni e del linguaggio del corpo sarebbe

stata estremamente informativa: gioia, eccitazione e fiducia

a suggerire nuove opportunità di approvvigionamento; ar-

rendevolezza e remissività a indicare l’esito fallimentare

di una lunga spedizione di caccia e raccolta in un nuovo

territorio.

Un mezzo efficace di trasmissione ‘delle informazioni’ fra

membri dello stesso ‘gruppo’ avrebbe potuto essere l’aggiun-

ta della mimesi al repertorio di metodi contemplato dalla co-

municazione ‘Hmmmmmmmmm’, intendendo per mimesi

‘ la capacità di produrre atti rappresentazionali e autoindot-

ti che sono intenzionali ma non linguistici’.

….Merlin Donald, della Queen’s University in Ontario, fornì

una possibile definizione di mimesi in un suo libro.

L’uso della mimesi, affermò Donald, consentì di creare nuo-

vi tipi di strumenti, di colonizzare nuovi territori, di utiliz-

zare il fuoco e di affrontare la caccia ai grandi animali, tut-

te cose che andavano oltre le capacità degli ominidi più an-

tichi, non mimetici.

Donald opera una distinzione tra mimesi, mimica e imita-

zione.

La mimica è una riproduzione fedele, un tentativo di crea-

re una copia il più possibile identica all’originale.

Per quanto la mimesi possa incorporare sia la mimica che

l’imitazione, è fondamentalmente differente giacché coin-

volge l”invenzione di rappresentazioni intenzionali’.

Dunque, anche se i gesti di stringersi il cuore o di coprirsi

il volto potrebbero aver avuto origine dall’imitazione delle

reazioni di qualcuno a un’esperienza di dolore, quando ven-

gono utilizzati per rappresentare il dolore dovrebbero essere

definiti mimetici.

Donald, spiega inoltre, che la mimesi può abbracciare un’as-

sai ampia varietà di azioni e di modi per esprimere i molte-

plici aspetti del mondo percepito.

Pur ritenendo che una forma di cultura a base linguistica

abbia rimpiazzato la cultura mimetica, egli ammette che

la mimesi continuò a costituire un ingrediente fondamen-

tale della cultura umana per tutta la storia fino ai giorni

nostri.

E’ probabile che l’imitazione degli animali abbia costituito

un aspetto chiave delle interazioni tra gli esseri umani pri-

mitivi: sia la mimica che la più sofisticata mimesi dei loro

suoni e movimenti, al fine di indicare ciò che era già stato

osservato o quello che avrebbe potuto essere visto in futu-

ro.

Per sostanziare questa ipotesi sul comportamento degli es-

seri umani primitivi, è utile considerare alcuni popoli cac-

ciatori-raccoglitori moderni.

L’usanza di mimare gli animali è assai diffusa in tali comu-

nità come parte delle loro pratiche di caccia e dei loro ritua-

li religiosi…….

(Steven Methen, Il canto degli antenati)







 

il canto degli antenati 2


IL CANTO DEGLI ANTENATI

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il canto degli antenati








Quando Leslie Aiello scrisse a proposito dell’impatto del

bipetismo sull’evoluzione del linguaggio non sono certo

se stesse facendo qualche distinzione tra comunicazione

linguistica e canto a questo stadio dell’evoluzione umana,

ma di sicuro spesso sottolineava le proprietà musicali del-

le vocalizzazioni ominidi.

L’ampliamento della gamma e della varietà delle vocaliz-

zazioni reso possibile dalla nuova posizione e forma della

laringe, e dai cambiamenti nella dentatura e nell’anatomia

facciale in generale, avrebbero indubbiamente accresciuto

la capacità di esprimere emozioni e di indurne negli altri

individui.

 

il canto degli antenati


Ma le implicazioni musicali del bipedismo vanno ben oltre

al semplice incremento della gamma di suoni che potevano

essere prodotti.

Il ritmo talvolta definito come la caratteristica più impor-

tante della musica, risulta essenziale per camminare in

maniera efficiente, per correre e, in realtà, per qualunque

attività che implichi una complessa coordinazione della

nostra peculiare corporatura bipede.

Senza il ritmo non potremmo utilizzare i nostri corpi in

modo efficace: tanto quanto l’evoluzione delle articolazio-

ni delle ginocchia e delle anche ravvicinate, fu essenziale

per il bipedismo lo sviluppo di meccanismi mentali in gra-

do di mantenere la coordinazione ritmica dei gruppi mu-

scolari.

L’importanza di tali meccanismi mentali è chiaramente te-

stimoniata dalle enormi difficoltà di movimento incontrate

dalle persone che hanno perduto questi meccanismi a causa

di patologie cognitive o che hanno sofferto di disturbi men-

tali fin dalla nascita.

 

il canto degli antenati


Quando questa carenza di un meccanismo interno per il

ritmo viene compensata da una fonte ritmica esterna, si veri-

ficano considerevoli miglioramenti nella locomozione e negli

altri movimenti fisici.

….I musicoterapisti possono servirsi dell’impatto del ritmo sul

movimento senza preoccuparsi della causa precisa: se aiuta

le persone con limitazioni mentali e fisiche, usiamolo e basta.

Ma chi è interessato alle questioni evolutiva ha bisogno di

comprendere perché sorgano tali effetti.

Purtroppo, gli scienziati sono ancora piuttosto lontani dall’-

aver compreso il collegamento tra elaborazione degli stimoli

uditivi e controllo motorio.

Il dottor Thaut spiega che esistono alcuni dati fisiologici di

base indicanti la presenza di una via uditivo-motoria nel si-

stema nervoso per mezzo della quale il suono esercita un ef-

fetto diretto sull’attività dei neuroni motori spinali.

‘Come potrebbe altrimenti?’ sorge spontaneo domandarsi,

dal momento che tutti conosciamo l’effetto che l’ascolto del-

la musica può avere sui nostri stessi movimenti, come quan-

do senza pensare iniziamo a battere i piedi o ondeggiare

con il corpo.

 

il canto degli antenati


Il punto centrale della questione è l’indubbia capacità stimo-

latrice ed evolutiva nonché terapeutica della musica….

Ed è indubbio che quando i nostri antenati si sono evoluti in

umani bipedi, devono essersi evolute anche le loro innate a-

bilità musicali, acquisendo l’aspetto del ritmo……

(Prosegue in la-favola-della-vita.html & ritmo….il-tempo-7.html)

(Steven Mithen, Il canto degli antenati)






 

il canto degli antenati