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L’espansione dei mercati latinoamericani accellerava la accumu-

lazione di capitali nei vivai dell’industria britannica.

Da tempo, ormai, l’Atlantico s’era trasformato nell’asse del com-

mercio mondiale, e gli inglesi avevano saputo sfruttare fino in

fondo la collocazione geografica della loro isola, ricca di porti,

posta a metà strada tra il Baltico e il Mediterraneo e rivolta verso

le coste dell’America.

L’Inghilterra organizzava un sistema universale e si trasformava

in una fabbrica prodigiosa che riforniva l’intero pianeta: le mate-

rie prime provenivano da tutto il mondo e si rovesciavano su tut-

to il mondo sotto forma di merce lavorata. 

 

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L’Impero poteva contare sul porto più grande e sul più potente

apparato finanziario dell’epoca; aveva il più alto livello di spe-

cializzazione commerciale, deteneva il monopolio mondiale

delle assicurazioni e dei noli, dominava il mercato internazio-

nale dell’oro.

List, il padre dell’Unione doganale tedesca, si era reso conto che

il Libero commercio costituiva, per la gran Bretagna, il principale

prodotto d’esportazione. Non c’era nulla che facesse infuriare gli

inglesi più del ‘protezionismo doganale’; e lo dicevano, dimostran-

dolo a volte, a sangue e a fuoco, come nel caso della Guerra dell’-

oppio contro la Cina.


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Tuttavia la libera concorrenza sui mercati diventò, per l’Inghilterra,

una specie di religione rivelata soltanto dal momento in cui ebbe

la sicurezza d’essere la più forte e dopo aver sviluppato la propria

industria tessile con l’aiuto della legislazione protezionista più 

severa di Europa. Agli inizi, quando ancora la situazione non era

facile e l’industria britannica si trovava in svantaggio, il cittadino 

sorpreso a esportare lana grezza, non lavorata, veniva condannato

al taglio della mano destra e, se recidivo, all’impiccagione. Era

proibito sotterrare un cadavere prima che il parroco della zona 

certificasse che il sudario che lo avvolgeva proveniva da una

fabbricazione nazionale.

‘Tutti i fenomeni distruttivi determinati dalla libera concorren-

za’, scriveva Marx, ‘si riproducono in proporzioni gigantesche

sul mercato mondiale’.

L’ingresso dell’America Latina nell’orbita britannica, dalla quale

sarebbe poi uscita soltanto per entrare in quella nord-americana,

avvenne all’interno di questo schema generale, e in esso venne

sancita la dipendenza dei nuovi paesi indipendenti. 

 

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La libera circolazione delle merci e la libera circolazione della

moneta per i pagamenti e il trasferimento dei capitali ebbero

conseguenze drammatiche.

In Messico, nel 1829, Vincente Guerrero giunse al potere ‘portato

a spalle dalla disperazione degli artigiani, formentata dal grande

demagogo Lorenzo de Zavala che scatenò sulle botteghe del

Parian, piene di merci inglesi, una turba affamata ed esasperata’.

 

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Guerrero resistette poco al potere, e cadde tra l’indifferenza dei

lavoratori perché non volle o non poté porre un freno all’impor-

tazione di merci europee ‘per l’abbondanza delle quali’, scrive

Chavez Orozco, ‘le masse degli artigiani delle città che prima

dell’indipendenza, e soprattutto nei periodi in cui l’Europa era

in guerra, vivevano in una certa agiatezza, si trovavano disoccu-

pate e affamate’.

L’industria messicana aveva risentito della mancanza di capitali,

di manodopera sufficiente e di tecniche moderne; non aveva avu-

to una organizzazione adeguata né vie di comunicazione e mez-

zi di trasporto per raggiungere i mercati e le fonti di approvvi-

gionamento: ‘Ciò che ebbe in realtà, e ne ebbe probabilmente

d’avanzo’, scrive Alonso Aguilar, ‘furono interferenze, restrizio-

ni e intralci di ogni tipo’. 

 

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Ciononostante, come avrebbe fatto notare Humboldt, l’industria si

era risvegliata nei momenti di stati del mercato estero, quando le

comunicazioni marittime si interrompevano o diventavano più

difficili, e aveva allora cominciato a fabbricare acciaio e ad adope-

rare il ferro e il mercurio.

Ma il liberalismo che l’indipendenza portò con sé non faceva che

aggiungere perle alla Corona britannica e paralizzare gli stabili-

menti tessili e metallurgici di Messico, Puebla e Guadalajara.

Lucas Alaman, politico conservatore di grandi capacità, si rese

conto a tempo che il pensiero di Adam Smith conteneva una

buona dose di veleno per l’economia nazionale e, come mini-

stro, favorì la creazione d’una banca statale, il Banco de Avio,

per dare impulso all’industrializzazione.

Una tassa sui tessuti stranieri di cotone doveva permettere al

paese di raccogliere il denaro necessario per comperare all’este-

ro i macchinari e le attrezzature tecniche di cui il Messico aveva

bisogno per rifornirsi di tessuti di cotone di produzione propria.

Il paese disponeva della materia prima, di energia idroelettrica

poté creare dei buoni operai in tempo abbastanza breve.

Il Banco sorse nel 1830, e dalle migliori fabbriche europee giun-

sero poco dopo i macchinari più moderni per filare e tessere il

cotone; inoltre, lo stato ingaggiò tecnici stranieri, esperti nella

tessitura.

Nel 1844, i grandi stabilimenti di Puebla produssero un milione

quattrocentomila tagli per coperte. La nuova capacità industria-

le del paese superava la domanda interna; il mercato di consumo

del ‘regno della disuguaglianza’, formato per la maggior parte da

indios affamati, non poteva sostenere la continuità di quello svi-

luppo febbrile e vertiginoso. 

 

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Lo sforzo per rompere le strutture ereditate dalla colonia cozzava

contro questa muraglia.

L’industria s’era a tal punto modernizzata che, verso il 1840, gli

impianti tessili nord-americani erano dotati di un numero di fusi

inferiore a quello degli impianti messicani.

Dieci anni dopo, la proporzione s’era invertita di parecchio.

L’instabilità politica, le pressioni dei commercianti inglesi e france-

si e dei loro potenti soci locali, e le ristrette dimensioni del mercato

interno già strangolato dall’economia mineraria e latifondista, affos-

sarono l’esperimento ch’era cominciato…con enorme successo….

(E. Galeano, Le vene aperte dell’America Latina)




 

 

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Allorché terminata l’età della scoperta e della conquista del Nuovo

Mondo, si era rapidamente andato coagulando un mercato capita-

lista mondiale, una delle ‘merci’ su cui il capitalismo si era tosto

gettato, erano stati i negri africani.

Certamente vi era una seria crisi di mano d’opera nel Nuovo Mon-

do; in molti settori quella locale scarseggiava, o non si poteva facil-

mente piegare al lavoro servile, o era stata addirittura distrutta dai

conquistatori stessi: e l’introduzione della schiavitù servì per mette-

re in valore le nuove terre.

Fu il capitalismo mercantile che introdusse la schiavitù nel Nuovo

Mondo, sia per accelerare la produzione di derrate da gettare poi

sui mercati europei (tabacco, zucchero, cotone, cacao, caffè, pel-

licce), sia per lucrare gli altissimi e ‘facili’ profitti che la tratta

consentiva. 

 

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Fu dunque il capitalismo il principale motore della tratta così

come era stato, in un certo senso, il principale motore della sco-

perta e della conquista; ma qui come là esso dovette fare i conti

con le classi e le strutture sociali dominanti dell’epoca.

Gli imperi coloniali d’America non furono conquistati e costrui-

ti solo dalle forze capitaliste: ché la funzione di braccio e di gui-

da politica spettò ad altri gruppi, ad altre classi: le monarchie

assolute, la Chiesa universale, la nobiltà guerriera incarnata

negli nuovi Stati Uniti, ed in in alterne vicende, prima dai Re-

pubblicani poi anche dai Democratici.

 

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Tali furono gli imperi spagnolo, portoghese, francese nonché quel-

lo inglese in Virginia (poi in tutto il Sud); solo la Nuova Inghilterra

la Nuova Olanda furono sin dall’inizio colonie puramente borghe-

si, ove la classe capitalista mercantile (sia democratica che repubbli-

cana) tenne tosto il potere.

Così non fu casualmente che la schiavitù – se pure inizialmente im-

piantata in America dal capitalismo – allignò rapidamente nelle co-

lonie portoghesi, in gran parte di quelle francesi e spagnole e nel

Sud: la classe signorile agraria che colà si formò si mostrò estrema-

mente corriva a dar vita ad una società di stampo schiettamente

pre-capitalistica, fondata sulla schiavitù come rapporto di produ-

zione, sul paternalismo autoritario come rapporto sociale e sulla

prevalenza della campagna sulla città come nel regime feudale.

 

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Come i mercanti della Nuova Inghilterra trovarono del tutto

congeniale alle loro aspirazioni ed alle loro idee sociali l’eser-

cizio della tratta, così i ‘signori’ della Virginia accettarono na-

turalmente la schiavitù.

Non fu la schiavitù che rese differenti le due colonie: esse lo

erano già originariamente.

Così la schiavitù – che il capitalismo mercantile aveva intro-

dotto nel Nuovo Mondo affinché servisse ai suoi fini – si in-

nestò su strutture sociali e ideali già importate colà dall’Eu-

ropa, per contribuire a dare origine ad un tipo peculiare di

società signorile pre-capitalistica con la quale ben presto i

nuclei borghesi avrebbero dovuto fare i conti.

Tale società nasceva però viziata da una debolezza costitu-

zionale: essa era cioè fin dall’inizio subordinata alle esigenze

del mercato capitalista mondiale a cui le era pressoché impos-

sibile sottrarsi; vale a dire, essa era, sin dal principio, in uno

stato di dipendenza da tale mercato che le imponeva il regime

della mono-cultura e financo il tipo di derrata che si doveva

produrre;  che monopolizzava il commercio marittimo; che

deteneva le leve del capitale bancario oltreché di quello mer-

cantile.




 

 

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VENE DEL SUD

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vene del sud

 

 






Il visconte di Chateaubriand, Ministro degli Affari esteri francese

di Luigi XVIII, scriveva con disappunto e presumibilmente con

una buona base di informazione:

– Al momento dell’emancipazione, le colonie spagnole diventarono una

specie di colonie inglesi.

Citava anche alcune cifre.

Diceva che tra il 1822 e il 1826 l’Inghilterra aveva fatto alle colonie

spagnole liberate dieci prestiti, per un valore nominale di circa 21

milioni di sterline, ma che una volta dedotti gli interessi e le com-

missioni degli intermediari, la cifra giunta alle terre di America

raggiungeva a malapena i 7 milioni.

Nello stesso tempo, s’erano create a Londra oltre 40 società ano-

nime per sfruttare le risorse naturali – miniere, agricoltura – dell’-

America Latina e per installare imprese di servizi pubblici.

 

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Le banche spuntavano come funghi sul suolo britannico:

in un solo anno, il 1836, ne vennero fondate 48.

La comparsa delle ferrovie inglesi a Panama, verso la metà del

secolo, e la prima linea tranviaria inaugurata da un’impresa bri-

tannica nel 1868 nella città brasiliana di Recife, non impedì alla

Banca d’Inghilterra di continuare a finanziare direttamente le te-

sorerie dei vari governi.

I buoni del tesoro latinoamericani circolavano attivamente e

nel mercato finanziario inglese, nonostante i loro alti e bassi.

I servizi pubblici erano in mani britanniche, ma i nuovi stati

già soffocati dalle spese militari dovevano far fronte ai deficit

dei pagamenti all’estero.


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Il libero commercio comportava un frenetico aumento

delle importazioni, soprattutto delle importazioni di

lusso, e affinché la minoranza potesse vivere secondo

la moda, i governi contraevano prestiti che generrava-

no, a loro volta, la necessità di altri prestiti: i paesi ipo-

tecavano a priori il loro destino, alienavano la libertà 

economica e la sovranità politica. 

Era un processo che coinvolgeva – e continua a coinvol-

gere anche oggi, seppur con altri meccanismi e altri cre-

ditori – tutta l’America Latina, eccezion fatta per il Para-

guay.  

Il finanziamento estero diventava indispensabile, come

la morfina.

Si aprivano buchi per tappare altri buchi.

 

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Il deterioramento delle ragioni di scambio non è certo un

fenomeno proprio soltanto dei nostri giorni: secondo Celso

Furtado, i prezzi dei prodotti brasiliani d’esportazione era-

no calati di quasi la metà tra il 1821 e il 1830 e tra il 1841 e

il 1850, mentre i prezzi delle importazioni straniere rima-

nevano, negli stessi periodi, stabili: le deboli economie

latinoamericane compensavano queste cadute con presti-

ti. 

 

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‘La finanza di questi giovani stati’, scrive Schnerb, ‘non

sono sane….

E’ indispensabile ricorrere all’inflazione che provoca la

svalutazione della moneta e ai prestiti onerosi. La storia di

queste repubbliche è, in un certo senso, quella degli obbli-

ghi economici contratti con il mondo assorbente delle finan-

ze europee.’

In effetti, la bancarotta, la sospensione dei pagamenti, il

rifinanziamento alla disperata erano fenomeni frequenti.

Le sterline scivolavano via come acqua tra le dita delle

mani. Del prestito di un milione di sterline concordato

nel 1824 dal governo di Buenos Aires con la casa Baring

Brothers, l’Argentina ne ricevette soltanto 570.000, ma

non in oro, come era stato deciso, bensì in carta. 

 

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Il prestito si risolse in un invio di ordini di pagamento ai com-

mercianti inglesi residenti a Buenos Aires: ed essi non dispo-

nevano certo oro da consegnare al paese, dato che la loro mis-

sione consisteva proprio nel mandare a Londra tutto il metal-

lo prezioso che cadesse loro a portata d’occhio e di mano.

Così l’Argentina ricevette moneta cartacea, ma dovette pagarla,

questo sì, in oro lucente e riuscì a saldare il debito solo agli ini-

zi di questo secolo, senza contare che nel frattempo, attraverso

vari rifinanziamenti, il debito s’era gonfiato fino a raggiungere

i 4 milioni di sterline.

Grazie agli inglesi, ed alla loro politica, la provincia di Buenos

Aires era stata interamente ipotecata – tutte le sue rendite – tutte

le terre pubbliche – a garanzia del debito.

All’epoca in cui il prestito venne concordato, il Ministro delle

Finanze diceva:

– Non siamo in grado di adottare misure contro il commercio straniero

e in particolare contro il commercio inglese perché abbiamo contratto

fortissimi debiti e potremmo rischiare una rottura estremamente danno-

sa per noi….

Come si vede, far uso dei debiti come strumento di ricatto non

è una trovata nordamericana degli ultimi tempi.

(E. Galeano, Le vene aperte dell’America Latina)





 

 

vene del sud

 

MURATORI

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muratori








Via Duomo: una lavanderia a secco, chincaglierie, abbigliamento, una

vetrina di arredi sacri, la cattadredale, poi un negozio di arredamento,

uno di maglierie.

San Giovanni in Laterano domina mezza Roma, la cattedrale di Napoli è

imprigionata fra le botteghe e il traffico, non ha sagrato, è un numero civico

allineato a tanti altri, senza soluzione di continuità edilizia. I napoletani il

loro duomo, il loro san Gennaro se lo tengono stretto, ingabbiato in un

reticolo di vie, viuzze e vicoli affinché veda da vicino i mille bisogni della

città. Ma siccome quattro occhi vedono meglio di due, e otto meglio di

quattro, essi si sono assicurati, senza con questo voler offendere il patrono,

la protezione di altri 51 santi ausiliari, il più numeroso collegio che si

sia mai visto di avvocati esercitanti il gratuito patrocinio in cielo (proprio

in mezzo alle….nuvole), e tutti hanno la loro festa, la reliquia, e il busto

d’argento in chiesa.

‘Bisogna essere esatti in queste cose’, spiega il custode del Tesoro di San

Gennaro, ‘i patroni principali sarebbero sette: Gennaro, Agrippino, Agnello,

Aspreno, Eusebio, Severo, Attanasio. A questi vanno aggiunti i ‘secondari’:

Tommaso d’Aquino, Andrea, Patrizia, Domenico, Giacomo della Marca,

Antonio di Padova, Teresa, Filippo Neri, Gaetano, Nicola…(un po’ dislocati

ovunque…)’.

‘Ah dimenticavo i sei Franceschi’, interloquisce la suocera, intenta a scopare

la scala.

‘Non c’è fretta, arrivo anche a quelli (un po’ fuori mano…ma con i moderni

mezzi…).

Dunque, Francesco di Paola, Francesco d’Assisi, Francesco Caracciolo, Francesco

di Geronimo, Francesco Borgia, Francesco Saverio. Poi vengono (con il bastone)

Ignazio, Maddalena, Raffaele, Agostino, Vincenzo…’.

‘E sant’Antonio, dove lo metti?’.

‘L’ho già detto’.

‘Antonio abate, intendo, quello del porcellino’.

‘Arrivo anche a questo, non ti preoccupà. Poi abbiamo san Giovanni della Croce,

sant’Alfonso, Pietro martire…’

‘Il principe degli apostoli?’.


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‘No; questo è vissuto dodici secoli dopo, era un frate domenicano, inquisitore

contro gli eretici, ucciso dagli eretici mentre era in viaggio per Milano. Poi

abbiamo Maria Egiziaca, Pasquale Baylon…’

A quest’ultimo santo il 17 maggio le nubili napoletane rivolgono l’ansiosa

supplica:

San Pasquale Baylonne

protettore delle donne

fateme trovà marito

sano, bello e colorito

come voi, tale e quale,

glorioso san Pasquale!

Su questo e sugli altri santi compatroni che sarebbe lungo elencare, domina la

figura di Gennaro, il patrono principe che improvvisamente, nel febbraio 1964,

dopo 13 secoli di ineccepibile servizio, fu ‘ridimensionato’ dalla riforma del

calendario liturgico universale.

Intendiamoci, egli resta sempre il protettore della città, ma la sua celebrazione

è stata confermata come obbligatoria e solenne soltanto per la città di Napoli.

Fuori Napoli è facoltativo.

Una celebrazione locale, dunque. Per i napoletani fu una stilettata.

San Gennaro un santo facoltativo?

Un santo di serie B?

Lui che, come assicura lo studioso napoletano Vittorio Paliotti, ha presagito al

100%, col comportamento del suo sangue, epidemie e rivoluzioni, al 92% la

morte di arcivescovi (ci sono anche quelli nel lungo elenco…); all’88% le guerre,

al 77% le alluvioni, al 68% le eruzioni del Vesuvio?

Un santo locale, lui che è venerato nella Little Italy di New York?

Ferito nell’orgoglio, il popolino dei bassi reagì, scrivendo sui muri ‘san Gennà,

futteténne!’.

(Cesare Marchi, Grandi peccatori Grandi cattedrali)






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APPUNTI ERETICI DI VIAGGIO (di un esule …poco raccomandato)


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appunti eretici di viaggio

 

PENSIERO FILOSOFICO

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Vista da vicino, la distanza tra il pensiero filosofico di Zarathushtra

quello ereditato in Occidente dai Greci, può sembrare enorme,

abissale, tanto da essere propensi a non considerare nemmeno,

quello di Zarathushtra, l’esposizione di un sistema speculativo

vero e proprio.

Allontanando, però, l’oggetto per metterlo a fuoco, in virtù della

presbiopia storica, subito la visione cambia e i rapporti tra i due

sistemi filosofici migliorano.

Il paese della sofia occidentale incute minor soggezione: lo si

vede più ridente, persino più accessibile, con tutte le sue linde

casette di teorie e sistemi, le più riunite a crocchio, altre isolate,

talune disperse nel verde della metafisica.

Più si sale in cima al monte della storia e più le case sembrano

addossate l’una all’altra, fino a confondersi in un’unica vasta

dimora del pensiero occidentale.

Case greche, latine, antico-arabe e i nuovi palazzotti americani,

sembrano un tutt’uno con la borgata tedesca, a dispetto delle

loro pretese originalità.

Tutte hanno per fondamenta e pianta le medesime teorie e gli

stessi concetti, così che tutte hanno finito per sviluppare, nell’-

identico modo, vani e tetti.


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Dal loro colore si vede come nei secoli esse non abbiano mai

conosciuto – salvo sporadiche spennellate – le forti tinte del

pensiero orientale, anche se s’intravede benessimo che la ta-

volozza è sempre stata la stessa.

Nelle rare macchie cromatiche più vive di squisita sfumatura

orientale, s’intuisce anche lo sforzo poi fatto per attenuarle, per

ammorbidirle, per integrarle al sistema locale.

Dell’autentico pensiero metafisico di Zarathushtra e dell’Antico

Iran, per esempio, non si vedono tracce, se non uno sghiribizzo

di pennello che sa di sberleffo, sulla facciata di casa Nietzsche.

Basta salire ancora un poco, e ogni tratto distintivo scompare:

il paesino diviene sì bello, ma anche un po’ triste e monotono.

Eppure, si dovrà un giorno riconsiderare radicalmente il pen-

siero filosofico (non inquinato…) di Zarathushtra (e con lui molte

eresie) Spitama.

Esso, sappiamo, trova la sua matrice nella concezione religio-

sa e sociale delle prime tribù indoeuropee, turbata fin dalle

origini da due contrapposte vocazioni…..

(A.Alberti, Zarathushtra)





 

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LA BALLATA DEGLI IMPICCATI

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…..Un primo eretico…..

 


Fratelli umani che con noi vivete

non mostrate i cuori duri contro di noi,

se avrete pietà di noi miseri,

Dio avrà più misericordia di voi.

Ci vedete qui appesi, cinque, sei:

quanto alla nostra carne troppo nutrita

ella è divorata e imputridita,

e noi, le ossa, siamo cenere e polvere.

Del nostro male nessuno voglia ridere,

ma pregate Dio che ci voglia assolvere.

Se vi chiamiamo fratelli, non dovete

averne a male, benché ci abbia ucciso

la Giustizia…tuttavia voi sapete

non tutti gli uomini hanno la testa a posto.

Scusateci, che noi siamo trapassati,

davanti al figlio della Vergine Maria,

che la sua Grazia non si estingua per noi,

e ci preservi dalle folgori dell’Inferno.

Noi siamo morti, nessuno ci sbeffeggi,

ma Dio supplicate che ci voglia assolvere.

La pioggia ci ha lavato e pulito

e il sole disseccato e annerito.

Le gazze, i corvi ci hanno scavato gli occhi

e strappato barba e sopraccigli.

Non stiam fermi mai, neppure un attimo:

di qui, di là il vento ci porta

a suo piacere senza requie ci trasporta,

ridotti peggio di un niente dagli uccelli.

Non siete dentro la nostra confraternita,

ma pregate Dio che ci voglia assolvere.

Principe Gesù, che su tutti hai maestria

non permettere che l’Inferno ci abbia in suo potere:

ché con lui non abbiamo nulla in comune!

Umani, non c’è proprio nulla da giocare,

m pregate Dio che ci voglia assolvere.

(Francois Villon, Ballata degli impiccati)


 

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…..Un secondo eretico….

 


Tutti morimmo a stento

ingoiando l’ultima voce

tirando calci al vento

vedemmo sfumare la luce.

 

L’urlo travolse il sole

l’aria divenne stretta

cristalli di parole

l’ultima bestemmia detta.

 

Prima che fosse finita

ricordammo a chi vive ancora

che il prezzo fu la vita

per il male fatto in un’ora.

 

Poi scivolammo nel gelo

di una morte senza abbandono

recitando l’antico credo

di chi muore senza perdono.

 

Chi derise la nostra sconfitta

e l’estrema vergogna ed il modo

soffocato da identica stretta

impari a riconoscere il nodo.

 

Chi la terra ci sparse sull’ossa

e riprese tranquillo il cammino

giunga anch’egli stravolta alla fossa

con la nebbia del primo mattino.

 

La donna che cercò in un sorriso

il disagio di darci memoria

ritrovi ogni notte sul viso

un insulto del tempo e una scoria.

 

Coltiviamo per tutti un rancore

che ha l’odore del sangue rappreso

ciò che allora chiamammo dolore

è soltanto un discorso sospeso.

(Fabrizio De André, La Ballata degli Impiccati)



 

 

 

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DANTE L’ERETICO (2)

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Il cavaliere Ranieri del già messere Zaccaria da Orvieto, vicario

del re Roberto di Napoli in Firenze, riconfermò la condanna di

Dante del 10 marzo 1302 con una nuova sentenza nell’ottobre

del 1315.

L’abate Mehus attesta di aver veduto pur confermato l’esilio di

Dante nelle riformazioni fatte nel 1317 da un Hubaldo d’Agu-

glione giurista.

Forse il re Roberto volle novellamente dannato l’Alighieri perché

risapesse essere stato da lui chiamato re da sermone, o più vera-

mente perché il poeta soldato gli fosse formidabile nemico nella

battaglia sulla Nievole, nella quale perirono Pietro d’Angiò, Carlo

di Taranto e i principi dei guelfi.

Oderisi, parlando a Dante di Provenzano Salvani, dicca:


E lì, per trar l’amico suo di pena

Che sostenea nella prigion di Carlo,

Si condusse a tremar per ogni vena.


Significava così lo stato d’uomo gentile stretto da crudele neces-

sità a mendicare.

Indi gli soggiungea:


– So che parlo oscuramente: ma passerà poco tempo che i tuoi cittadini,

privandoti di tutti i tuoi averi ed esiliandoti dalla patria, ti obbligheranno

a tremare per accattarti del pane; onde, dall’esperienza ammaestrato,

capirai che significhino questi termini.


– E già a tale era Dante ridotto mentre scrivea queste cose, e proba-

bilmente le scrivea scorsi due lustri dall’epoca del suo esilio.

Prima di varcare il Tagliamento, Dante abitò nella marca a Foro

Giulio contigua. Caduto Dante nello sfavore di Cane, si volse a

Gherardo da Camino signore di Trevigi, indi si trasferì a Udine e

vi passò l’intero anno 1317. Ma perché nel 1318 dall’Adige al Ta-

gliamento crudelissima ardeva la guerra, essendosi nel dicembre

eletto Cane della Scala a capitano della lega ghibellina, si trasferì

a Gubbio, fedele municipio dei Romani nei vecchi tempi, e nei

mezzani rinomata repubblica.

Aveva egli contratta grande amicizia in Arezzo con Bosone Rafael-

li di Gubbio allorché, questi, cacciato dalla patria dall’armi del car-

dinale Napoleone degli Orsini con Federico da Montefeltro e con

molti ghibellini, riparar dovette all’asilo aperto alla sua fazione in

quella città.

Dante in Gubbio fu accolto dall’amico prima nell’abitazione posta

nel quartiere di Sant’Andrea ed indi nel castello di Colmollaro, si-

tuato nel contado gubbino sopra il fiume Saonda, lungi sei miglia

in circa dalla città. Questo Bosone de’ Rafaelli era figlio di Bosone

di Guido d’Alberigo, nato era circa il 1280 e visse lunghi anni dopo

la morte di Dante.

Avendo Bosone affidata a lui l’educazione de’ suoi figlioli, uno di

questi, chiamato Bosone Ungaro Rafaelli e per abbaglio d’amanu-

ensi scritto pur Caffarelli, diedesi sotto la sua istruzione allo studio

della lingua greca, e Dante se ne rallegrò col genitore per via d’un

sonetto.

Messer Bosone pianse poi la morte di Dante poeticamente ed il-

lustrò in varie guise il poema sacro.

Credesi di Bosone Novello di lui figlio un capitolo in terza rima

che contiene un epitome del poema di Dante e che trovasi unito

all’altro capitolo attribuito a Iacopo figliolo di Dante.

Bosone Novetto nel 1337 fu creato senatore in Roma, in compagnia

di Giacomo di Cante de’ Gabrielli, parimente di Gubbio. Così vider-

si sedere sulla stessa panea in Campidoglio il figlio di quello che

avea esiliato il poeta e il figlio di quello che avealo pietosamente

accolto ed alimentato.

Sebastiano da Gubbio, nella sua opera intitolata ‘Teleutelogio’, lib. III,

cap 3, così a Bosone Ungaro scrivea:


Dantem Alagherii, vestri temporis poetam florentium civem,

tuae a teneris annis adolescentiae praeceptorem.






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