UN UOMO (4)

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un uomo 4

 

 







Ebbene, proprio questo era il tipo di partito che avevi ritenuto

capace di ospitare la tua fantasia, la tua dignità, la tua persona-

lità, la tua creatività.

E, quasi ciò non bastasse, nell’errore s’era inserita la monotona

vecchia illusione alla quale ci abbandoniamo, per mancanza di

scelta e per impotenza, tutti noi crediamo al miraggio di un

mondo che cambia: poter ancora lottare appoggiandoci alla bar-

ricata che ha un nome…Sinistra.

Infatti, escluso il breve periodo della campagna elettorale, dei

comizi in cui avevi sbugiardato i Papandreu, i direttori genera-

li, i consigli di amministrazione della sinistra ufficiale, ed esclu-

so quel viaggio a Mosca di cui soltanto gli amici sapevan qual-

cosa, non avevi fatto gran che per ricordare che la merda è …..

identica destra, a sinistra, ed al centro.

Voglio dire: non t’eri mai impegnato a condurre la battaglia su

più fronti contemporaneamente. Al contrario, avevi scelto la

strategia del combattere un nemico per volta, avevi concentrato

le tue energie contro la destra e basta, contro il drago e basta.

‘Ora devo accuparmi di lui. Poi, se sarò vivo, mi occuperò degli

altri’.

Di proposito insomma avevi rinunciato ad agire secondo le

tue convinzioni e a tener conto che la sinistra è la migliore allea-

ta della destra, che nei paesi dove essa sta al potere rappresenta

il masso in cima alla Montagna, che nei paesi dove non ci sta

sostiene quel masso, gli Averoff, imitandone il gioco o integran-

dosi nel loro sistema.

Stessi mestieranti, stessi arrivisti, stessi opportunisti in tempo

di pace; stessi traditori o stessi vigliacchi, spesso, in tempo di

guerra.

E così t’eri comportato come se il drago non fosse un drago a

due teste, come se tu ignorassi che è inutile tentar di tagliare 

la prima testa se non si taglia anche la seconda, che soltanto

attraverso una duplice e simultanea decapitazione si ottiene

la scomparsa del mostro e si può piantare un albero nuovo.

Ammesso, s’intende, che un albero nuovo dia buoni frutti, 

che il miraggio d’un mondo che cambia nasconda un po’ di

verde e un po’ d’acqua.

(Oriana Fallaci, Un Uomo)





 

 

un uomo 4

   

UN UOMO (contro un muro) (2)

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un uomo 2

 

 






Sbucarono insieme, precisi, quasi avessero un appuntamento

preciso.

Sbucarono subito, mentre giravi in via Diakou.

Una BMW rossa e una Peugeot grigio argento.

E certo non te ne meravigliasti: che sarebbe successo lo avevi

capito in via Poseidonos quando volevi tornare indietro e fer-

marti con la scusa del buzuki, poi te n’eri convinto in via Sigru

quando t’eri liberato della Sugiulzoglu.

Del resto i testimoni che la polizia del Potere avrebbe ignorato o

zittito l’indomani mattina dissero che dietro alla Fiat verde mela

non c’era la Peugeot e basta: c’era anche una macchina rosso rug-

gine o rosso granata, forse una Jaguar e forse una BMW.

Ti trovasti fra le due come un topo preso in trappola, ed è pos-

sibile che lì per lì tu volessi scappare.

Ma subito sbocciò l’irresistibile impulso di affrontarli, vederli,

nella loro vigliaccheria, sulla faccia, scoprire chi fossero, batterti

insomma nel medesimo modo in cui t’eri battuto a Creta e a 

Roma e ad Atene e tutte le volte che avevano tentato di intimo-

rirti o provocarti o ucciderti, e l’hanno fatto mille e mille volte,

e tutte le volte con lo stesso piacere, con lo stesso sadismo vi-

gliacco.

Poi rifiorì la stanchezza di vivere che deriva dalla stanchezza

di perdere, quindi il bisogno di vincere almeno da morto.

Fu all’altezza di San Demetrio che l’automobile rossa ti tampo-

nò sulla targa.

E fu dopo la gobba che ti sorpassò un’ultima volta per allonta-

narsi, perdersi nel buio (e tu li vedesti, forse non li dimentiche-

rai, ridevano…felici…).

Ma mentre ti sorpassavano per allontanarsi e perdersi nel buio,

i due a bordo dell’automobile rossa usarono o no la rivoltella

a gas?

Una rivoltella identica a quella che il giudice istruttore archiviò

con tanta disinvoltura in agosto. Numero matricola 159789, made

in West Germany; canna corta, impugnatura tozza. Il caricatore

contiene cinque proiettili a cilindro, cinque cartucce metalliche

con un piccolo foro da cui esce un gas che evapora quasi senza

lasciare tracce.

(…….) E tu schizzasti via come un proiettile mentre, con una

manovra di gran kamikaze, da killer addestrato sui circuiti

aperti del Canadà, lui virava quasi ad angolo retto per inserirsi

nel raccordo dello spartitraffico che divide via Vouliagmeni.

Schizzasti via in trasversale, montasti sull’ampio marciapiede,

sullo spiazzato al garage con la scritta Texaco, evitasti di 

qualche metro il palo di un lampione e, attraverso il sudario 

di stupore, di sonno, tentasti invano di rallentare la corsa

frenando.

La tua Primavera era ormai decollata.

Alta e decisa volava inesorabile verso lo scivolo che scende nel-

l’autorimessa, la botola col cartello Buon Viaggio, Kalon Taxidi,

e niente avrebbe potuto fermarla.

Forse, se il volo fosse durato due metri di più, avrebbe potuto

saltare il vuoto dello scivolo e atterrare di nuovo nel mondo dei

vivi: avresti potuto salvarti.

Ma ciò non rientrava nei piani degli dèi, del tuo destino già scrit-

to, e presto lei perse quota, abbassò il muso puntando sul muro

che un attimo avanti non si vedeva e all’improvviso si vedeva, ti

cadeva addosso con rapidità folle, cessava d’essere un muro per

diventare uno schianto, il boato di una bomba che esplode, la

fine….

(Oriana Fallaci, Un Uomo)





 

 

un uomo 2

         

INTERMEZZO CON MURATORI



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Sul quadrante dell’orologio della torre sinistra del duomo di Monreale

un’antica scritta ammonisce Tuam nescis, la tua (ora) non conosci.

L’ora di morire.

Sul lato destro della piazza, ad angolo retto con la chiesa, sorge un

nobile edificio, già sede dei benedettini (da Norcia), oggi scuola media.

Un cartello, incollato sullo stemma dell’istituto, accusa: ‘Burocrazia

uccide più del terremoto’. I terremotati del Belice non sembrano

soddisfatti delle provvidenze governative.

Anche tu, terremoto, tuam nescis: l’ora di morire dipende dagli inquieti

visceri della terra; quella di sopravvivere, dal competente ministero.

La burocrazia normanna, lo vedremo tra poco, era molto più veloce.

Si salgono le rampe d’uno scalone e appare, sulla parete destra, una

tela settecentesca del palermitano Giuseppe Velasquez che raffigura

il ritrovamento d’un tesoro fatto da Guglielmo II, re di Sicilia, dopo

un sogno rivelatore. Secondo la leggenda, le cose si sarebbero svolte

così: il giovanissimo sovrano un giorno andò a caccia sui monti che

formavano attorno a Palermo, un immenso parco verde, senza strade

né case, decine di chilometri di folti boschi e amene radure dove i

re normanni, inseguendo cinghiali e caprioli, sollevavano le cure del

governo. Guglielmo II, detto il Buono, aveva ereditato il trono a 14

anni; pochissimi degli zii e prozii erano arrivati all’età adulta, si

moriva in casa d’Altavilla.

Biondo come tutti i nordici, bello d’aspetto, gentile e sorridente era

un inseguitore infaticabile di selvaggina, e fu con grande meraviglia

che i valletti videro sdraiato sotto un carrubo, immerso in un sonno

di pietra, lui che di solito resisteva più di tutti alla fatica. Durante il

sonno, apparve a Guglielmo la Madonna che gli disse: ‘Scava sotto

questa pianta e troverai un tesoro’. Col febbrile entusiasmo di chi

abbia appena ricevuto dal nonno buonanima un terreno secco, il

sovrano ordinò ai suoi uomini di dissodare il terreno e non bisognò

andare molto in profondità per trovare un cofano colmo d’oro e

pietre preziose. Per ringraziare la Madonna del gentile pensiero,

Guglielmo deliberò di erigere e dedicarle una chiesa nel luogo

stesso della visione, Monreale appunto, allora chiamato Monte

Regale, perché preferito dai re normanni per i loro weekend.


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Fin qui la leggenda, che rientra perfettamente nel clima di

pedagogia miracolistica proprio dell’epoca. Se la pubblica

autorità decideva di costruire una chiesa, non s’accontentava

di stanziare in bilancio la relativa somma, ma si preoccupava di

avvolgere l’iniziativa in un alone sovrannaturale.

Dopo il Mille, rifiorendo le industrie e i traffici, la chiesa dell’Occidente

europeo scongelò i molti capitali precedentemente accumulati,

trovandosi così ad avere un’ingente quantità di liquido disponibile,

ma questo avvenne in un’atmosfera di prodigi ‘il cui rivestimento

miracolistico’ osserva Le Goff ‘non deve nascondere le realtà

economiche’. Se un vescovo progetta di costruire una cattedrale

nuova o abbellire quella vecchia, ecco un improvviso miracolo

mostrargli, in un luogo segretissimo, il denaro necessario.

Alcuni anni prima del Mille il vescovo d’Orléans, Arnolfo, pensò

di ricostruire la sua chiesa. I tecnici scelsero l’area, fecero assaggi

nel terreno e, guarda caso, scoprirono un tesoro che portarono

subito ad Arnolfo, per finanziare la fabbrica.

La chiesa di Monreale, cominciata nel 1172, dopo una dozzina d’anni

poteva dirsi ultimata: un tempo record, e non solo per quei tempi.

I lavori furono affidati a maestranze islamiche, tecnologicamente le

più evolute dell’isola, per non dire le uniche esistenti. Questa che è

una delle più belle chiese della cristianità sorse a opera di muratori

che non bestemmiavano mai, per la semplice ragione che erano di

fede mussulmana.


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Allah ha dato una mano alla Madonna.

Ma per capire questo fatto, apparentemente inspiegabile conviene

sostare un attimo e considerare le condizioni di vita e la composizione

etnica del regno normanno.

Raramente s’incontra nella storia uno Stato più eterogeneo, una civiltà

più composita, un governo più tollerante. Il regno era abitato da normanni,

longobardi, latini, greci, ebrei, arabi e i conquistatori normanni cercavano

di andare d’accordo con tutti, mostrando deferenza a vescovi e monaci,

senza maltrattare il muezzin.

Ruggero I proibì ai preti di far proselitismo tra i mussulmani, temeva che

s’irritassero, i mussulmani gli erano indispensabili perché accupavano posti

di rilievo nella flotta e nell’esercito. Quando erano sbarcati in Sicilia, i

normanni avevano trovato, nella sola Palermo, 300 moschee l’una più

bella dell’altra, 300 maestri di scuola, 50 macellerie, l’arte fiorente non meno

dell’economia. Da gente come questa, pensarono i rozzi conquistatori

calati dal nord Europa, c’è molto da imparare.

(C. Marchi, Grandi peccatori, grandi cattedrali)





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QUINTA POESIA

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La rosa colore del vino è sbocciata, ed è l’usignolo ubriaco:

è un invito a godere, o voi sufi devoti dell’attimo in fuga.

Sembravano forti qual pietra, i pilastri, là dove s’ergeva il rimorso,

ma guarda tu meraviglia! una coppa di vetro li infranse.

Vino, vino! In quell’imperturbabile corte

sono uguali la guardia ed il re, sobrio ed ebbro son pari.

Quest’ostello a due porte pur devi lasciare: a chi vale

alti od umili in tale dimora sian portici ed archi?

T’è inafferabile, gioia, se mai tu provasti il dolore:

oh, sì, fu il segno di pena e sventura che strinsero il Patto Primevo.

Con quel che è e che non è non crucciarti la mente, sta’ lieto,

perché un nulla alla fine è ogni cosa perfetta che esiste.

La gloria di Asaf, e l’aereo destriero, ed il verbo che fu degli uccelli

svanirono al vento, e non furono più di vantaggio al signore.

Non devi lasciare la via così alato d’orgoglio: la freccia che scagli

ristà infatti nell’aria un momento, ma poi sulla terra ricade.

Come può ringraziare di tanto, poeta, la lingua del calamo tuo?

Li ripete ogni bocca, i tuoi versi, e poi l’una all’altra li passa.

(Hafez)


 

 

 

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OLTRE LA SOGLIA (il ritratto della ricchezza) (5)

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il ritratto della ricchezza

 

 







Forse Rembrandt era stato invogliato a giocare con le cornici dalla sua

familiarità con un produttore di cornici autentiche: Herman Doomer, 

che nel 1640 ritrasse insieme alla moglie, Baertje Martens.

Doomer era nato in Germania, ma nel 1611 si era trasferito ad Amsterdam,

specializzandosi nella lavorazione di cornici in avorio, anche nella

versione più economica rappresentata da stecche di balena annerite.

 

il ritratto della ricchezza


Probabilmente se la passava piuttosto bene, ma non abbastanza da

entrare nel novero dei ricchissimi personaggi che formavano la gran

parte dei clienti di Rembrandt agli inizi degli anni Quaranta.

Rembrandt, però aveva preso a bottega il figlio di Doomer, Lambert,

ed è possibile che i due ritratti costituiscano un gesto di amicizia.

Trattandosi di opere rembrandtiane, però, i ritratti dei Doomer,

quello di Herman in particolare, sono ricchi di soluzioni raffinate.

Pur rispettando l’assoluta semplicità dell’abito e del contegno di

Herman, l’artista fa assumere al soggetto la stessa posa del suo

autoritratto tizianesco. Herman Doomer, dunque, viene chiamato

a far parte di questa nobile compagnia, una posizione che gli si

attaglia tanto meglio in virtù della sua mancanza di pretenziosità

sociale. 

 

il ritratto della ricchezza


E Rembrandt sa come conferire grandezza anche all’immagine più

umile. Sulla maggior parte del volto di Doomer il colore appare

sottile, applicato in modo fluido e uniforme; ogni ruga, ogni piega

sotto gli occhi, ogni ciuffo di barba sono descritti con cura e

partecipazione.

Ma quando Rembrandt si dedica al collare, la sua esucuzione si 

trasforma in un saggio di bravura. Per suggerire le pieghe dell’

estremità inferiore, il pennello, carico di colore, distribuisce un 

impasto denso e viscoso, picchiettando con la piatta punta delle

setole il pigmento bagnato per rendere le increspature e i disegni

del tessuto pieghettato. 

 

il ritratto della ricchezza


Nessuno dei suoi contemporanei seppe avvicinarsi all’istintiva 

abilità cui Rembrandt riusciva a rendere teatrale la semplicità

senza d’altra parte compromettere l’integrità del soggetto.

In nessun’altra occasione l’artista dimostrò tale capacità come 

il doppio ritratto del predicatore laico mennonita Cornelis

Claeszoom Anslo e di sua moglie.

 

il ritratto della ricchezza


Mercante d’abiti e armatore, l’uomo si era sposato più volte, 

abitando case sempre più lussuose. Ora era pronto a trasferirsi

nella nuova dimora che si era fatto costruire sull’Oudezijds

Achterburwal e che era stata portata al termine nel 1641.

Anslo aveva avuto i soldi necessari per liquidare l’enorme debito

di 60.000 gulden accumulato da uno dei suoi figli e al momento

della morte, nel 1646, aveva ancora un patrimonio di 80.000 gulden.

La stola di pelliccia del suo soprabito e di quello della moglie

riescono a rivelare questa prosperità senza derogare in modo

troppo patente all’avversione dei mennoniti per gli atti di crassa

ostentazione. 

Anslo commissionò un’incisione che lo ritrasse solo, forse per 

distribuirne copie al suo gregge. Rembrandt sottopose all’approvazione

del committente un bozzetto in cui il predicatore appare seduto

allo scrittoio, con una penna nella mano destra, appoggiata sulle

pagine di un libro, e con la sinistra sollevata a indicare elonquentemente

un altro libro, ……..forse la Bibbia…….. 

(S. Schama, Gli occhi di Rembrandt) 

 

 

 

 

 

 

 

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