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Ebbene, proprio questo era il tipo di partito che avevi ritenuto
capace di ospitare la tua fantasia, la tua dignità, la tua persona-
lità, la tua creatività.
E, quasi ciò non bastasse, nell’errore s’era inserita la monotona
vecchia illusione alla quale ci abbandoniamo, per mancanza di
scelta e per impotenza, tutti noi crediamo al miraggio di un
mondo che cambia: poter ancora lottare appoggiandoci alla bar-
ricata che ha un nome…Sinistra.
Infatti, escluso il breve periodo della campagna elettorale, dei
comizi in cui avevi sbugiardato i Papandreu, i direttori genera-
li, i consigli di amministrazione della sinistra ufficiale, ed esclu-
so quel viaggio a Mosca di cui soltanto gli amici sapevan qual-
cosa, non avevi fatto gran che per ricordare che la merda è …..
identica a destra, a sinistra, ed al centro.
Voglio dire: non t’eri mai impegnato a condurre la battaglia su
più fronti contemporaneamente. Al contrario, avevi scelto la
strategia del combattere un nemico per volta, avevi concentrato
le tue energie contro la destra e basta, contro il drago e basta.
‘Ora devo accuparmi di lui. Poi, se sarò vivo, mi occuperò degli
altri’.
Di proposito insomma avevi rinunciato ad agire secondo le
tue convinzioni e a tener conto che la sinistra è la migliore allea-
ta della destra, che nei paesi dove essa sta al potere rappresenta
il masso in cima alla Montagna, che nei paesi dove non ci sta
sostiene quel masso, gli Averoff, imitandone il gioco o integran-
dosi nel loro sistema.
Stessi mestieranti, stessi arrivisti, stessi opportunisti in tempo
di pace; stessi traditori o stessi vigliacchi, spesso, in tempo di
guerra.
E così t’eri comportato come se il drago non fosse un drago a
due teste, come se tu ignorassi che è inutile tentar di tagliare
la prima testa se non si taglia anche la seconda, che soltanto
attraverso una duplice e simultanea decapitazione si ottiene
la scomparsa del mostro e si può piantare un albero nuovo.
Ammesso, s’intende, che un albero nuovo dia buoni frutti,
che il miraggio d’un mondo che cambia nasconda un po’ di
verde e un po’ d’acqua.
(Oriana Fallaci, Un Uomo)
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Sbucarono insieme, precisi, quasi avessero un appuntamento
preciso.
Sbucarono subito, mentre giravi in via Diakou.
Una BMW rossa e una Peugeot grigio argento.
E certo non te ne meravigliasti: che sarebbe successo lo avevi
capito in via Poseidonos quando volevi tornare indietro e fer-
marti con la scusa del buzuki, poi te n’eri convinto in via Sigru
quando t’eri liberato della Sugiulzoglu.
Del resto i testimoni che la polizia del Potere avrebbe ignorato o
zittito l’indomani mattina dissero che dietro alla Fiat verde mela
non c’era la Peugeot e basta: c’era anche una macchina rosso rug-
gine o rosso granata, forse una Jaguar e forse una BMW.
Ti trovasti fra le due come un topo preso in trappola, ed è pos-
sibile che lì per lì tu volessi scappare.
Ma subito sbocciò l’irresistibile impulso di affrontarli, vederli,
nella loro vigliaccheria, sulla faccia, scoprire chi fossero, batterti
insomma nel medesimo modo in cui t’eri battuto a Creta e a
Roma e ad Atene e tutte le volte che avevano tentato di intimo-
rirti o provocarti o ucciderti, e l’hanno fatto mille e mille volte,
e tutte le volte con lo stesso piacere, con lo stesso sadismo vi-
gliacco.
Poi rifiorì la stanchezza di vivere che deriva dalla stanchezza
di perdere, quindi il bisogno di vincere almeno da morto.
Fu all’altezza di San Demetrio che l’automobile rossa ti tampo-
nò sulla targa.
E fu dopo la gobba che ti sorpassò un’ultima volta per allonta-
narsi, perdersi nel buio (e tu li vedesti, forse non li dimentiche-
rai, ridevano…felici…).
Ma mentre ti sorpassavano per allontanarsi e perdersi nel buio,
i due a bordo dell’automobile rossa usarono o no la rivoltella
a gas?
Una rivoltella identica a quella che il giudice istruttore archiviò
con tanta disinvoltura in agosto. Numero matricola 159789, made
in West Germany; canna corta, impugnatura tozza. Il caricatore
contiene cinque proiettili a cilindro, cinque cartucce metalliche
con un piccolo foro da cui esce un gas che evapora quasi senza
lasciare tracce.
(…….) E tu schizzasti via come un proiettile mentre, con una
manovra di gran kamikaze, da killer addestrato sui circuiti
aperti del Canadà, lui virava quasi ad angolo retto per inserirsi
nel raccordo dello spartitraffico che divide via Vouliagmeni.
Schizzasti via in trasversale, montasti sull’ampio marciapiede,
sullo spiazzato al garage con la scritta Texaco, evitasti di
qualche metro il palo di un lampione e, attraverso il sudario
di stupore, di sonno, tentasti invano di rallentare la corsa
frenando.
La tua Primavera era ormai decollata.
Alta e decisa volava inesorabile verso lo scivolo che scende nel-
l’autorimessa, la botola col cartello Buon Viaggio, Kalon Taxidi,
e niente avrebbe potuto fermarla.
Forse, se il volo fosse durato due metri di più, avrebbe potuto
saltare il vuoto dello scivolo e atterrare di nuovo nel mondo dei
vivi: avresti potuto salvarti.
Ma ciò non rientrava nei piani degli dèi, del tuo destino già scrit-
to, e presto lei perse quota, abbassò il muso puntando sul muro
che un attimo avanti non si vedeva e all’improvviso si vedeva, ti
cadeva addosso con rapidità folle, cessava d’essere un muro per
diventare uno schianto, il boato di una bomba che esplode, la
fine….
(Oriana Fallaci, Un Uomo)
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Sul quadrante dell’orologio della torre sinistra del duomo di Monreale
un’antica scritta ammonisce Tuam nescis, la tua (ora) non conosci.
L’ora di morire.
Sul lato destro della piazza, ad angolo retto con la chiesa, sorge un
nobile edificio, già sede dei benedettini (da Norcia), oggi scuola media.
Un cartello, incollato sullo stemma dell’istituto, accusa: ‘Burocrazia
uccide più del terremoto’. I terremotati del Belice non sembrano
soddisfatti delle provvidenze governative.
Anche tu, terremoto, tuam nescis: l’ora di morire dipende dagli inquieti
visceri della terra; quella di sopravvivere, dal competente ministero.
La burocrazia normanna, lo vedremo tra poco, era molto più veloce.
Si salgono le rampe d’uno scalone e appare, sulla parete destra, una
tela settecentesca del palermitano Giuseppe Velasquez che raffigura
il ritrovamento d’un tesoro fatto da Guglielmo II, re di Sicilia, dopo
un sogno rivelatore. Secondo la leggenda, le cose si sarebbero svolte
così: il giovanissimo sovrano un giorno andò a caccia sui monti che
formavano attorno a Palermo, un immenso parco verde, senza strade
né case, decine di chilometri di folti boschi e amene radure dove i
re normanni, inseguendo cinghiali e caprioli, sollevavano le cure del
governo. Guglielmo II, detto il Buono, aveva ereditato il trono a 14
anni; pochissimi degli zii e prozii erano arrivati all’età adulta, si
moriva in casa d’Altavilla.
Biondo come tutti i nordici, bello d’aspetto, gentile e sorridente era
un inseguitore infaticabile di selvaggina, e fu con grande meraviglia
che i valletti videro sdraiato sotto un carrubo, immerso in un sonno
di pietra, lui che di solito resisteva più di tutti alla fatica. Durante il
sonno, apparve a Guglielmo la Madonna che gli disse: ‘Scava sotto
questa pianta e troverai un tesoro’. Col febbrile entusiasmo di chi
abbia appena ricevuto dal nonno buonanima un terreno secco, il
sovrano ordinò ai suoi uomini di dissodare il terreno e non bisognò
andare molto in profondità per trovare un cofano colmo d’oro e
pietre preziose. Per ringraziare la Madonna del gentile pensiero,
Guglielmo deliberò di erigere e dedicarle una chiesa nel luogo
stesso della visione, Monreale appunto, allora chiamato Monte
Regale, perché preferito dai re normanni per i loro weekend.
Fin qui la leggenda, che rientra perfettamente nel clima di
pedagogia miracolistica proprio dell’epoca. Se la pubblica
autorità decideva di costruire una chiesa, non s’accontentava
di stanziare in bilancio la relativa somma, ma si preoccupava di
avvolgere l’iniziativa in un alone sovrannaturale.
Dopo il Mille, rifiorendo le industrie e i traffici, la chiesa dell’Occidente
europeo scongelò i molti capitali precedentemente accumulati,
trovandosi così ad avere un’ingente quantità di liquido disponibile,
ma questo avvenne in un’atmosfera di prodigi ‘il cui rivestimento
miracolistico’ osserva Le Goff ‘non deve nascondere le realtà
economiche’. Se un vescovo progetta di costruire una cattedrale
nuova o abbellire quella vecchia, ecco un improvviso miracolo
mostrargli, in un luogo segretissimo, il denaro necessario.
Alcuni anni prima del Mille il vescovo d’Orléans, Arnolfo, pensò
di ricostruire la sua chiesa. I tecnici scelsero l’area, fecero assaggi
nel terreno e, guarda caso, scoprirono un tesoro che portarono
subito ad Arnolfo, per finanziare la fabbrica.
La chiesa di Monreale, cominciata nel 1172, dopo una dozzina d’anni
poteva dirsi ultimata: un tempo record, e non solo per quei tempi.
I lavori furono affidati a maestranze islamiche, tecnologicamente le
più evolute dell’isola, per non dire le uniche esistenti. Questa che è
una delle più belle chiese della cristianità sorse a opera di muratori
che non bestemmiavano mai, per la semplice ragione che erano di
fede mussulmana.
Allah ha dato una mano alla Madonna.
Ma per capire questo fatto, apparentemente inspiegabile conviene
sostare un attimo e considerare le condizioni di vita e la composizione
etnica del regno normanno.
Raramente s’incontra nella storia uno Stato più eterogeneo, una civiltà
più composita, un governo più tollerante. Il regno era abitato da normanni,
longobardi, latini, greci, ebrei, arabi e i conquistatori normanni cercavano
di andare d’accordo con tutti, mostrando deferenza a vescovi e monaci,
senza maltrattare il muezzin.
Ruggero I proibì ai preti di far proselitismo tra i mussulmani, temeva che
s’irritassero, i mussulmani gli erano indispensabili perché accupavano posti
di rilievo nella flotta e nell’esercito. Quando erano sbarcati in Sicilia, i
normanni avevano trovato, nella sola Palermo, 300 moschee l’una più
bella dell’altra, 300 maestri di scuola, 50 macellerie, l’arte fiorente non meno
dell’economia. Da gente come questa, pensarono i rozzi conquistatori
calati dal nord Europa, c’è molto da imparare.
(C. Marchi, Grandi peccatori, grandi cattedrali)
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Quarta poesia in:
La rosa colore del vino è sbocciata, ed è l’usignolo ubriaco:
è un invito a godere, o voi sufi devoti dell’attimo in fuga.
Sembravano forti qual pietra, i pilastri, là dove s’ergeva il rimorso,
ma guarda tu meraviglia! una coppa di vetro li infranse.
Vino, vino! In quell’imperturbabile corte
sono uguali la guardia ed il re, sobrio ed ebbro son pari.
Quest’ostello a due porte pur devi lasciare: a chi vale
alti od umili in tale dimora sian portici ed archi?
T’è inafferabile, gioia, se mai tu provasti il dolore:
oh, sì, fu il segno di pena e sventura che strinsero il Patto Primevo.
Con quel che è e che non è non crucciarti la mente, sta’ lieto,
perché un nulla alla fine è ogni cosa perfetta che esiste.
La gloria di Asaf, e l’aereo destriero, ed il verbo che fu degli uccelli
svanirono al vento, e non furono più di vantaggio al signore.
Non devi lasciare la via così alato d’orgoglio: la freccia che scagli
ristà infatti nell’aria un momento, ma poi sulla terra ricade.
Come può ringraziare di tanto, poeta, la lingua del calamo tuo?
Li ripete ogni bocca, i tuoi versi, e poi l’una all’altra li passa.
(Hafez)
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Forse Rembrandt era stato invogliato a giocare con le cornici dalla sua
familiarità con un produttore di cornici autentiche: Herman Doomer,
che nel 1640 ritrasse insieme alla moglie, Baertje Martens.
Doomer era nato in Germania, ma nel 1611 si era trasferito ad Amsterdam,
specializzandosi nella lavorazione di cornici in avorio, anche nella
versione più economica rappresentata da stecche di balena annerite.
Probabilmente se la passava piuttosto bene, ma non abbastanza da
entrare nel novero dei ricchissimi personaggi che formavano la gran
parte dei clienti di Rembrandt agli inizi degli anni Quaranta.
Rembrandt, però aveva preso a bottega il figlio di Doomer, Lambert,
ed è possibile che i due ritratti costituiscano un gesto di amicizia.
Trattandosi di opere rembrandtiane, però, i ritratti dei Doomer,
quello di Herman in particolare, sono ricchi di soluzioni raffinate.
Pur rispettando l’assoluta semplicità dell’abito e del contegno di
Herman, l’artista fa assumere al soggetto la stessa posa del suo
autoritratto tizianesco. Herman Doomer, dunque, viene chiamato
a far parte di questa nobile compagnia, una posizione che gli si
attaglia tanto meglio in virtù della sua mancanza di pretenziosità
sociale.
E Rembrandt sa come conferire grandezza anche all’immagine più
umile. Sulla maggior parte del volto di Doomer il colore appare
sottile, applicato in modo fluido e uniforme; ogni ruga, ogni piega
sotto gli occhi, ogni ciuffo di barba sono descritti con cura e
partecipazione.
Ma quando Rembrandt si dedica al collare, la sua esucuzione si
trasforma in un saggio di bravura. Per suggerire le pieghe dell’
estremità inferiore, il pennello, carico di colore, distribuisce un
impasto denso e viscoso, picchiettando con la piatta punta delle
setole il pigmento bagnato per rendere le increspature e i disegni
del tessuto pieghettato.
Nessuno dei suoi contemporanei seppe avvicinarsi all’istintiva
abilità cui Rembrandt riusciva a rendere teatrale la semplicità
senza d’altra parte compromettere l’integrità del soggetto.
In nessun’altra occasione l’artista dimostrò tale capacità come
il doppio ritratto del predicatore laico mennonita Cornelis
Claeszoom Anslo e di sua moglie.
Mercante d’abiti e armatore, l’uomo si era sposato più volte,
abitando case sempre più lussuose. Ora era pronto a trasferirsi
nella nuova dimora che si era fatto costruire sull’Oudezijds
Achterburwal e che era stata portata al termine nel 1641.
Anslo aveva avuto i soldi necessari per liquidare l’enorme debito
di 60.000 gulden accumulato da uno dei suoi figli e al momento
della morte, nel 1646, aveva ancora un patrimonio di 80.000 gulden.
La stola di pelliccia del suo soprabito e di quello della moglie
riescono a rivelare questa prosperità senza derogare in modo
troppo patente all’avversione dei mennoniti per gli atti di crassa
ostentazione.
Anslo commissionò un’incisione che lo ritrasse solo, forse per
distribuirne copie al suo gregge. Rembrandt sottopose all’approvazione
del committente un bozzetto in cui il predicatore appare seduto
allo scrittoio, con una penna nella mano destra, appoggiata sulle
pagine di un libro, e con la sinistra sollevata a indicare elonquentemente
un altro libro, ……..forse la Bibbia……..
(S. Schama, Gli occhi di Rembrandt)