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Malgrado le guardie sedute lì a fianco durante le registrazioni, malgrado
i nostri volti pallidi, che a molti di loro saranno sembrati maschere di
indifferenza, i detenuti riempirono i nostri dischi con migliaia di canzoni
trascinanti: un’epica intrisa di sole rovente, brutalità e coraggio umano,
accompagnata da melodie di grande intensità.
Sognavo inutilmente di poter parlare liberamente con questi fratelli
ritrovati, capaci di trionfare sulla loro malasorte con il canto: tra noi
c’erano sempre le guardie.
La notte non riuscivo a dormire, cercando di immaginare un modo
per raccontare le loro vite e i loro pensieri (e con i loro anche i miei…).
Zavorrato dal senso di colpa per i peccatucci e le fantasie adolescenziali
mi credevo un criminale come loro, passibile di arresto in qualsiasi
momento.
Tutti i colpi di fischietto, tutte le sirene della polizia suonavano per me.
Immaginavo di commettere un reato per poter condividere le loro
esperienze e riuscire finalmente a scrivere di loro con cognizione
di causa. Finalmente un giorno, grazie ai buoni uffici del mio amico
texano John Henry Faulk, conobbi Doc Reese.
Per degli errori di gioventù, Reese aveva scontato una condanna nella
prigione di stato del Texas durante i ‘giorni della giovenca rossa’,
così chiamati perché la frusta usata per impartire gli ordini ai
carcerati era fatta di cuoio di giovenca rossa, con le setole ancora
attaccate.
Dopo aver scontato la sua pena, Reese era tornato a scuola, aveva
studiato in un seminario battista ed era diventato un predicatore
di grande spessore. Ma, come aveva scoperto Faulk, non aveva
dimenticato le canzoni imparate sul fiume.
Decisi così di portarlo ai festival di musica folk di Newport dove,
davanti a un pubblico di ragazzi attoniti venuti lì per ascoltare Dylan
e il Kingston Trio, eseguì i canti di lavoro del Texas, picchiando
con zappe e asce davanti a una foresta di microfoni, insieme ad
alcuni compagni dei vecchi tempi.
Nelle lunghe conversazioni che si svolsero durante e dopo le prove
mi accorsi che Doc era non solo un cantante di talento, ma anche
un uomo saggio e profondo. Pur non credendo che mi avrebbe
dato ascolto, lo sellecitai a scrivere la storia della sua esperienza
in prigione, spiegando il ruolo del canto nella vita dei detenuti.
Ecco qui la sua storia, narrata con la freschezza di una lingua
vergine, mai prima d’ora usata a scopi letterari: la storia di un
uomo che è stato all’inferno e ne ha fatto ritorno.
A noi non importa se questo inferno si trova nella colonia penale
texana lungo le sponde del Brazos invece che nel penitenziario
di stato di Parchman: entrambi i luoghi proiettavano la stessa
ombra terrificante sul profondo Sud e Doc Reese avrebbe certa-
mente potuto vivere lo stesso tipo di esperienza nelle prigioni
del Mississippi.
L’unica differenza è costituita da alcune canzoni.
Il racconto di Doc comincia con un blues di sua composizione.
LA STORIA DI DOC REESE
Sono nato il giorno 13,
unico figlio di mia madre,
Sono nato il giorno 13,
unico figlio di mia madre,
Del denaro che c’è al mondo,
non un soldo ho potuto toccare.
Sono quello sfortunato,
per quanto ci possa provare,
Sono quello sfortunato,
per quanto ci possa provare,
Prende l’aereo per la California
e in Cina mi fanno atterrare.
Non sono andato a scuola
sono solo un poveretto,
Non sono andato a scuola,
sono solo un poveretto,
La volta che ho messo piede a scuola,
è crollato giù il tetto.
(Alan Lomax, La terra del Blues)