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La maggior parte degli atti inquisitoriali giunti sino a noi non
riguardano gli eretici consolati, bensì i credentes: e tutto lascia
pensare che questi simpatizzanti per l’eresia, di gran lunga più
numerosi degli eretici in realtà comparissero anche più frequen-
temente dinanzi al giudice della fede.
Essi costituivano la larga frangia e la forza sociale dell’eresia, a-
derivano ai perfetti, prestavano loro ossequio e assistenza s’im-
pegnavano a ricevere il consolamentum in punto di morte, e nel
frattempo ascoltavano la predicazione dei perfetti, partecipava-
no ai riti della frazione del pane e alla recita comunitaria del
Pater noster.
Dal momento che l’inquisizione trattava i credentes alla stregua
degli eretici, è il caso di domandarci in che cosa poteva consiste-
re la loro eresia.
Infatti, non solo agli estranei, ma anche ai simpatizzanti o creden-
tes non ancora iniziati mediante il consolamentum, veniva tenuta
gelosamente nascosta la dottrina dualistica che era alla base del
catarismo.
A volte non ne venivano messi al corrente neppure gli eretici
consolati. Così, Pietro, uno degli eretici che fecero l’abiura in
Perugia, si sentì in obbligo di specificare che molti articoli nel-
l’atto di abiura egli non li aveva mai ascoltati per l’innanzi.
Bonpietro, finito sul rogo a Bologna sullo scorcio del Duecen-
to, dichiarò che per lui le astruserie del credo cataro erano ri-
maste impenetrabili.
Ordinariamente gli eretici, nella loro predicazione propagan-
distica, si limitavano a ingerire nell’animo dei credentes dubbi
circa la presenza reale di Cristo nell’eucarestia, magari insi-
stendo sulla impossibilità che sacerdoti indegni potessero com-
piere sì grande mistero e, molto più frequentemente, impugna-
vano la liceità del matrimonio, del giuramento e della pena di
morte inflitta ai delinquenti.
In alcuni casi, l’imputabilità di certi credentes diventa addirit-
tura problematica, non solo per la mancata informazione o per
la loro incapacità di comprendere le astruse dottrine che costi-
tuivano il fondo della eresia, soprattutto catara, ma anche per
la impossibilità di un consenso consapevole a motivo della gio-
vane età degli imputati.
Così, nel 1289, Giovanni Perini si accusava davanti all’inquisito-
re Francescano Bartolomeo da Siena che, 25 anni prima, essendo
appena tornato da un viaggio ed avendo reso ‘omaggio’ ai Perfet-
ti’, come un’altra fiorentina, Giovanna, moglie di Marito di Cere-
to, confessa anch’ella di aver simpatizzato per l’eresia, mentr’era
ancor fanciulla, nel 1285, Bonaventura di S. Giorgio di Verona ri-
ferisce che Armanno Pungilupo il famigerato eretico ferrarese ve-
nerato come santo subito dopo la morte, l’aveva indotto a fare
reverentia a un eretico, e conclude: ‘Quod et feci, nesciens quid
facerem’.
Bonaventura non è detto ‘credente’, né dagli atti processuali
risulta che gli fosse imposta l’abiura; ma la cosa non andò così
liscia a Benamata, moglie di Benvenuto Pepi, la quale, nonostan-
te affermasse di aver creduto agli eretici soltanto a fior di labbra
e non col cuore, fu condannata come eretica.
L’unico caso in cui un credente potesse essere pienamente pro-
sciolto per i contatti e gli impegni presi con gli eretici, era l’infer-
mità mentale: ma questa bisognava provarla.
In questi e in altri casi che si potrebbero addurre, è superfluo ri-
levare che l’inquisizione perseguiva come eretico anche chi non
aveva un’adeguata conoscenza dei contenuti dottrinali dell’ere-
sia, chi era incapace di intenderli e persino chi non aveva alcuna
intenzione di aderirvi interiormente.
Come si vede, gli atti dell’inquisizione forniscono dati per una
valutazione di quella che era, o non era, l’eresia sia dal punto di
vista oggettivo (contenuti del credo ereticale) sia da quello sog-
gettivo (adeguata conoscenza ed ostinata adesione al medesimo
credo).
A proposito di quest’ultimo aspetto, dagli atti emergono dati che
permettono di avviare un discorso circa la consapevolezza, o me-
no, che alcuni eretici avevano riguardo alla propria identità.
Alludiamo alla questione della buona fede ossia all’invincibile
convinzione di essere nella verità: un elemento, questo, che non
ha alcun peso sul giudizio del giudice della fede, ma che, credo,
era determinante per chi, per la propria fede eterodossa, non te-
meva di affrontare una morte atroce.
(……)