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tempeste di neve eretici di montagna
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dove esiste un cadavere più bello? &
Da:
Il velivolo passa veloce, come un uccello scintillante, sulla cresta nord-
est, fa un giro e sparisce subito.
Dovevano vedermi!
Sono sempre qui, solo e abbandonato, molto più che solo.
Invece sfrecciano verso terra e non tornano, festeggiano il loro trionfo
e mi lasciano solo con la mia immensa solitudine (destino di noi…per-
fetti).
No, non si vede nulla, neppure sulle foto si vede qualcosa.
L’aereo ha cambiato rotta definitivamente, ignorandomi, come se non
fossi mai esistito. E si dirigono verso casa, non hanno capito nulla, né
la morte né la vita.
Devo pur essere da qualche parte.
Invece, per i piloti, io non ci sono più e sui giornali appaiono solo imma-
gini dell’Everest dall’alto. Questi piloti mi hanno rubato lo spettacolo,
sotratto l’esistenza per un paio di settimane.
28-31 maggio 1933
Il 28 maggio ritorna la speranza.
E’ cominciato il bel tempo che precede i monsoni?
Wyn Harris e Wager si mettono in cammino, dal versante nord, alla
testa di un gruppo di scalatori e di dodici portatori, da loro chiamati
‘tigri’.
Si fermano al campo V per una notte, preparano bevande calde e
riempiono i termos per la colazione del giorno dopo.
I britannici temono che i portatori non vogliano continuare.
E’ già successo una volta, perché non potrebbero provarci di nuovo?
Otto ‘tigri libere’ si dichiarano pronte a continuare.
Pertenza alle 8.
Wyn Harris e Wager iniziano a salire per primi. Salgono per 50 minuti,
dieci minuti di pausa. In questo modo riescono a superare 120 metri di
dislivello all’ora.
A 8357 metri di altezza viene costruita una piattaforma e piantata la
piccola tenda, 2 metri di lunghezza per 1,20 di larghezza, ancorata
il meglio possibile. All’interno collocano quattro sacchi a pelo e viveri
per quattro giorni, casseruole e bruciatore.
Il campo VI è in mezzo a pendii ripidi e lisci.
Soltanto Wyn Harris e Wager si fermano lì. Improvvisamente scoppia
una tormenta di neve. Il vento ulula, chicchi di grandine cadano da
nuvole abbacinanti e colpiscono la tenda.
Impossibile dormire!
Tutto il mio rispetto.
Dopo questa terribile notte i due scalatori si metteranno ugualmente in
cammino prima delle 6 e Wyn Harris troverà quella piccozza, che poi
porteranno con loro durante la discesa. Come se questa non fosse la cosa
più preziosa, alla fine della loro spedizione: una scintillante piccozza
‘Willisch Tasch’!
Sarebbe potuta appartenere anche a me!
Tra la salita e la discesa non fanno che constatare ciò che avevo già vi-
sto io: il primo gradino è simile a una roccia dalla doppia gobba, il se-
condo è impossibile, e, tra questi, la cresta si presenta stretta e difficile.
Anche loro passano in diagonale, sull’orlo superiore lungo la ‘fascia
gialla’ verso ovest e arrivano fino al canalone. Al limite delle possibili-
tà umane tornano indietro, come fece Norton prima di loro e come farà
Smythe in seguito.
Scendendo prendono la piccozza che poteva essere appartenuta soltan-
to a uno di noi, e la portano a valle come una specie di trofeo di un’epo-
ca eroica.
31 Maggio 1933
No, Wyn Harris e Wager non hanno un buon inizio.
Non dormire, non avere appetito, avere una grande sete non sono
certo buone premesse. Per un’ora sciolgono la neve sul fornello.
Poi riscaldano gli stivali, congelati, su un secondo fornello.
La scalata della cima dell’Everest può cominciare.
Il loro abbigliamento è quello solito dell’epoca: un farsetto di she-
tland, una spessa camicia di flanella, una giacca di cammello, sei
maglie leggere di shetland, due paia di mutandoni di shetland, cal-
zoni di flanella e in più una giacca a vento Grenfell di misto seta.
La testa è riparata da un berretto Balaclava leggero, sul quale porta-
no un berretto di lino Grenfell. Ai piedi hanno quattro paia di calze
di shetland, uno sull’altro. I grossi scarponi hanno chiodi leggeri ma
sufficienti per attaccare con sicurezza i ripidi pendii.
Alle mani hanno guanti di lana senza dita, sopra i quali portano
guanti di pelliccia d’agnello del Sud Africa.
Tentano così di raggiungere la corona della cresta e, secondo il piano
di Mallory, scalare la piramide sommitale. Dall’ultimo campo ci sono
ancora 480 metri di dislivello e 2200 metri per arrivare alla vetta.
Quando spuntano i primi freddi raggi del sole Wyn Harris, che era
davanti a tutti, si ferma di colpo.
Sulla striscia di roccia inclinata, davanti a lui, non c’è forse una pic-
cozza?
Si avvicina, la solleva, la tiene alla sua destra esaminandola.
Questa piccozza può appartenere solo a Mallory o Irvine, pensano
entrambi quando sopraggiunge Wager.
Si trovano quindi sul luogo della tragedia del 924?
Si guardano, danno un’occhiata in giro, controllano la zona alla ri-
cerca di altri segni, delle bombole d’ossigeno, che non si decompon-
gono, dei corpi morti, di una seconda piccozza.
Nulla.
Scagliato oltre, molto più in basso, nessuno riesce a vedermi.
Per fortuna!
Mi trovo sempre qui, sui detriti, la corda ancora intorno al corpo,
e vedo ancora me stesso, già senza volto (morto un’altra volta).
(R. Messner, La seconda morte di Mallory)