DISPERSI SUI MONTI

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tempeste di neve eretici di montagna

Prosegue in:

dove esiste un cadavere più bello? &

io porto i reggicalze

Da:

Frammenti in rima &

i miei libri

 

 

dispersi sui monti

 

 

 

 

 

 

 

Il velivolo passa veloce, come un uccello scintillante, sulla cresta nord-

est, fa un giro e sparisce subito.

Dovevano vedermi!

Sono sempre qui, solo e abbandonato, molto più che solo.

Invece sfrecciano verso terra e non tornano, festeggiano il loro trionfo

e mi lasciano solo con la mia immensa solitudine (destino di noi…per-

fetti).

No, non si vede nulla, neppure sulle foto si vede qualcosa.

L’aereo ha cambiato rotta definitivamente, ignorandomi, come se non

fossi mai esistito. E si dirigono verso casa, non hanno capito nulla, né

la morte né la vita.

Devo pur essere da qualche parte.

Invece, per i piloti, io non ci sono più e sui giornali appaiono solo imma-

gini dell’Everest dall’alto. Questi piloti mi hanno rubato lo spettacolo,

sotratto l’esistenza per un paio di settimane.

 

dispersi sui monti

 

28-31 maggio 1933

Il 28 maggio ritorna la speranza.

E’ cominciato il bel tempo che precede i monsoni?

Wyn Harris e Wager si mettono in cammino, dal versante nord, alla

testa di un gruppo di scalatori e di dodici portatori, da loro chiamati

‘tigri’.

Si fermano al campo V per una notte, preparano bevande calde e

riempiono i termos per la colazione del giorno dopo.

I britannici temono che i portatori non vogliano continuare.

E’ già successo una volta, perché non potrebbero provarci di nuovo? 

Otto ‘tigri libere’ si dichiarano pronte a continuare.

 

dispersi sui monti

 

Pertenza alle 8.

Wyn Harris e Wager iniziano a salire per primi. Salgono per 50 minuti,

dieci minuti di pausa. In questo modo riescono a superare 120 metri di

dislivello all’ora.

A 8357 metri di altezza viene costruita una piattaforma e piantata la

piccola tenda, 2 metri di lunghezza per 1,20 di larghezza, ancorata

il meglio possibile. All’interno collocano quattro sacchi a pelo e viveri

per quattro giorni, casseruole e bruciatore. 

Il campo VI è in mezzo a pendii ripidi e lisci.

Soltanto Wyn Harris e Wager si fermano lì. Improvvisamente scoppia

una tormenta di neve. Il vento ulula, chicchi di grandine cadano da

nuvole abbacinanti e colpiscono la tenda.

Impossibile dormire!

 

dispersi sui monti

 

Tutto il mio rispetto.

Dopo questa terribile notte i due scalatori si metteranno ugualmente in

cammino prima delle 6 e Wyn Harris troverà quella piccozza, che poi

porteranno con loro durante la discesa. Come se questa non fosse la cosa

più preziosa, alla fine della loro spedizione: una scintillante piccozza

‘Willisch Tasch’!

Sarebbe potuta appartenere anche a me!

Tra la salita e la discesa non fanno che constatare ciò che avevo già vi-

sto io: il primo gradino è simile a una roccia dalla doppia gobba, il se-

condo è impossibile, e, tra questi, la cresta si presenta stretta e difficile.

 

dispersi sui monti

 

Anche loro passano in diagonale, sull’orlo superiore lungo la ‘fascia

gialla’ verso ovest e arrivano fino al canalone. Al limite delle possibili-

tà umane tornano indietro, come fece Norton prima di loro e come farà

Smythe in seguito.

Scendendo prendono la piccozza che poteva essere appartenuta soltan-

to a uno di noi, e la portano a valle come una specie di trofeo di un’epo-

ca eroica.

 

dispersi sui monti

 

31 Maggio 1933

No, Wyn Harris e Wager non hanno un buon inizio.

Non dormire, non avere appetito, avere una grande sete non sono

certo buone premesse. Per un’ora sciolgono la neve sul fornello.

Poi riscaldano gli stivali, congelati, su un secondo fornello.

 

dispersi sui monti

 

La scalata della cima dell’Everest può cominciare.

Il loro abbigliamento è quello solito dell’epoca: un farsetto di she-

tland, una spessa camicia di flanella, una giacca di cammello, sei

maglie leggere di shetland, due paia di mutandoni di shetland, cal-

zoni di flanella e in più una giacca a vento Grenfell di misto seta.

 

dispersi sui monti

 

La testa è riparata da un berretto Balaclava leggero, sul quale porta-

no un berretto di lino Grenfell. Ai piedi hanno quattro paia di calze

di shetland, uno sull’altro. I grossi scarponi hanno chiodi leggeri ma

sufficienti per attaccare con sicurezza i ripidi pendii. 

Alle mani hanno guanti di lana senza dita, sopra i quali portano

guanti di pelliccia d’agnello del Sud Africa.

 

dispersi sui monti

 

Tentano così di raggiungere la corona della cresta e, secondo il piano

di Mallory, scalare la piramide sommitale. Dall’ultimo campo ci sono

ancora 480 metri di dislivello e 2200 metri per arrivare alla vetta.

Quando spuntano i primi freddi raggi del sole Wyn Harris, che era

davanti a tutti, si ferma di colpo.

Sulla striscia di roccia inclinata, davanti a lui, non c’è forse una pic-

cozza?

Si avvicina, la solleva, la tiene alla sua destra esaminandola.

Questa piccozza può appartenere solo a Mallory o Irvine, pensano

entrambi quando sopraggiunge Wager. 

Si trovano quindi sul luogo della tragedia del 924?

Si guardano, danno un’occhiata in giro, controllano la zona alla ri-

cerca di altri segni, delle bombole d’ossigeno, che non si decompon-

gono, dei corpi morti, di una seconda piccozza.

Nulla.

 

dispersi sui monti

 

Scagliato oltre, molto più in basso, nessuno riesce a vedermi.

Per fortuna!

Mi trovo sempre qui, sui detriti, la corda ancora intorno al corpo,

e vedo ancora me stesso, già senza volto (morto un’altra volta).

(R. Messner, La seconda morte di Mallory)

 

 

 

 

 

 

dispersi sui monti

 

TEMPESTE DI NEVE (eretici di montagna)

Precedenti capitoli:

Tita Piaz alla conquista del campanile &

due clienti

Da:

i miei libri &

Frammenti in rima

Foto del blog:

ci vediamo

a natale


 

tempeste di neve (eretici di montagna)







 

Il mattino successivo Hazard e Odell puntano il cannocchiale

verso le tende del campo avanazato.

Non si muove nulla.

Verso mezzogiorno Odell decide di iniziare le ricerche.

Stabilisce, con Hazard, un semplice segnale di riconosci-

mento: di giorno avrebbe messo i sacchi a pelo sulla neve

in modo di formare delle figure ben distinte, di notte avreb-

be mandato dei segnali luminosi.


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A mezzogiorno Odell si mette in cammino con due porta-

tori.

Sul pendio soffia un vento proveniente da ovest.

Ciò nonostante Odell va avanti, continua a cercare.

Nel campo V i due scalatori non ci sono.

Nessuno viene a salvarmi?

Il beniamino del cielo, delle donne, degli scalatori è un uo-

mo distrutto, povero e inetto, un mucchio di ossa e carne,

con un unica supplica: salvatemi!

Nessuno riesce a sentirmi oppure è la mia voce è diventa-

ta afona?

Sono già nell’aldilà?


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Di sicuro, dal basso, non possono vedermi, neppure con

il binocolo: sono sdraiato su questa cengia e non riesco a

muovermi.

Se solo potessero sentire la mia voce, le mie grida!

Forse potrei tentare di raggiungere una sporgenza, aiu-

tandomi con le mani e le ginocchia.

Potessi fare un cenno!

Arrivare un po’ più vicino alla tenda e gridare in modo

che qualcuno riesca a sentirmi.

Ma adesso è tutto così lontano, troppo lontano per me.

Anche la vita.

Al campo V le raffiche di vento minacciano di strappa-

re le tende.

Attraverso i frammenti di nuvole che scorrono via velo-

ci Odell getta uno sguardo verso la cima dell’Everest:

solo notte, vento e gelo.

Malgrado l’abbigliamento pesante e due sacchi a pelo

Odell non ha affatto caldo in questa lunga notte.


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I portatori, sofferenti per il mal di montagna, al mattino

salgano verso il colle nord.

Odell continua da solo verso il campo VI.

Con l’aiuto dell’ossigeno riesce a proseguire.

Di tanto in tanto cerca un riparo dietro una roccia per

scaldarsi.

Prima del campo VI si rende conto che l’ossigeno serve

poco:

Avevo un’unica bombola, da cui avevo assunto solo una

piccola quantità di ossigeno. Per non lasciare nulla di in-

tentato, aumentai l’afflusso e feci dei respiri più profon-

di.

Tranne una diminuzione, appena percettibile, della fati-

ca alle gambe, non provai nient’altro.

Tenendo conto delle esperienze di altri, ero molto mera-

vigliato.

Forse mi ero adattato particolarmente bene all’aria di

montagna povera d’ossigeno.

Chiusi la valvola del gas senza provare quelle conse-

guenze negative descritte dalla teoria. Tenendo prov-

visoriamente le bombole sulla schiena lasciai pendere

il fastidioso boccaglio e andai avanti.

Quassù il respiro è affannoso, sarebbe così anche per

un corridore veloce e ben allenato.


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Per quanto tempo riuscirò ancora a respirare?

Non sono più in grado di mettere insieme i pensieri, né

di dire nulla.

Il freddo, il dolore e la perdita della speranza mi sfini-

scono, cerco di restare sveglio.

Se non mi trovano adesso, sarà troppo tardi, quindi me-

glio una fine senza testimoni e testimonianze.

La tenda del campo VI è ancora così come l’aveva lascia-

ta Odell.

Sono trascorsi due giorni dalla bufera sulla cima.

Devono pur essere accovacciati da qualche parte!

Ma come hanno fatto a resistere all’aperto queste due

notti?

Quassù chiunque muore senza un riparo.

Odell continua a salire, cerca, grida; la tormenta sulla

montagna non concede tregua, soffoca tutti i suoni.

Non ha mai avuto così freddo, non si è mai sentito così

solo, e non ha mai provato un senso di abbandono così

amaro.

E’ troppo tardi.

Da solo non può far nulla, non può trovare niente e

nessuno.

Avrebbe bisogno di una squadra di soccorso.

Odell scende verso il campo VI.

Ecco il suo resoconto:

Dopo essermi affaticato per due ore, mi resi conto dell’-

impossibilità di trovare qualche traccia dei dispersi in

questo immenso deserto di roccia.

Soltanto una squadra di soccorso con molti uomini avr-

ebbe potuto organizzare le ricerche.

Nel luogo in cui i due sono stati visti per l’ultima volta

mi sarei dovuto imbattere nelle loro tracce ma, da solo,

non potevo avanzare fin lassù, sulla cresta nordest:

e poi, in ogni caso, sarebbe stato troppo tardi.


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Ieri sono morto, la mia prima morte, e ora, finalmente, posso

riposare tranquillo.

A quest’altitudine il corpo non si decompone neppure.

Per tre giorni gli altri hanno cercato e sperato, cercato e

aspettato.

Adesso possono essere certi che resto dove sono.

Sotto un cielo che conosce solo il nero e il bianco, il mio

corpo inizia a irrigidirsi il mio spirito a risorgere.

La mia prima vita è passata.

E’ successo. Ma non tutto è finito.

Il mito è vivo! Adesso tutti pensano che io sia sparito

senza lasciare tracce e finalmente nelle valli e nelle cit-

tà possono speculare e idealizzare la vicenda.

Perché che cos’è un eroe morto senza ideali elevati?

Ma da qualche parte deve pur esserci rimasto qualco-

sa di un uomo che sembra essersi volatilizzato tra le

nuvole.

(R. Messner, La seconda morte di Mallory)





 

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MURATORI

Precedente capitolo in:

dialoghi con Pietro Autier

Prosegue in:

dialoghi con Pietro Autier 2

Altri dialoghi in:

i miei libri &

Frammenti in rima


 

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Verso la fine del XIII secolo, nel 1294 i priori della città

di Firenze, vale a dire il consiglio dei ministri, incarica-

rono Arnolfo di Cambio di costruire una nuova chiesa

nello stesso luogo in cui sorge santa Reparata, che ha

tutto il difetto di non essere adeguata al prestigio, all’-

orgoglio d’una città che da qualche tempo fila col ven-

to in poppa, vittoriosa in guerra e in diplomazia, nei

traffici e nelle arti.

Firenze scoppia di salute, i suoi mercanti si espandono

in tutta Europa, i sovrani chiedono prestiti ai suoi ban-

chieri, il fiorino sta per diventare il dollaro del medio-

evo.  Firenze parteggia per i guelfi non soltanto per o-

dio verso l’imperatore, ma anche perché, col papa, i

suoi banchieri imbastiscono ottimi affari, qualcuno di

loro gestirà l’esazione delle decime in tutto l’orbe cri-

stiano.

Essa ha sconfitto i ghibellini di Arezzo, a Campaldino,

presente Dante Alighieri, e poi i nemici interni, i nobili

dell’ancien régime, obbligandoli a rinunciare ai privile-

gi feudali. 

Se Pisa ‘vituperio delle genti’, già possedeva un duomo

meraviglioso, e Lucca il suo san Martino, e Siena, super-

ghibellina si badi bene, profondeva milioni nella nuova

cattedrale, poteva Firenze, occhio destro della curia ro-

mana, restare in seconda linea?

Chiese ce n’erano, d’accordo.

Tra secolari, conventuali e oratori, i luoghi di culto am-

montavano a 150, per una popolazione di 90.000 abitan-

ti, di cui 3000 erano preti, frati o monache.

Ma la chiesa grande, di prestigio, mancava.

Perciò ‘i cittadini s’accordarono di rinnovare la maggio-

re chiesa’, scrive il Villani, ‘la quale era molto di grossa

forma e piccola in comparazione di sì fatta cittade, e or-

dinarono di crescerla e di trarla addietro e farla tutta di

marmi e di pietra intagliata’.

Doveva essere, diceva il decreto della Signoria, ‘tale che

inventar non si possa né maggiore né più bella dell’indu-

stria e potere degli uomini’. Il rivestimento sarebbe stato

fatto con marmo bianco di Carrara, rosso di Siena, ver-

de di Prato.

Troppo lusso, sghignazzò un veronese di passaggio, do-

ve andrete a prendere tutti quei soldi?

Per questo insulto alle finanze della città l’incauto fu ar-

restato, tenuto in prigione due mesi e rilasciato dopo es-

sere stato portato a vedere le casse dell’erario, straripan-

ti d’oro.

L’8 settembre 1296, giorno della natività di Maria (Dante

ha trentun anni) il cardinale Pietro Duraguerra da Piper-

no, vicecancelliere della chiesa e legato di Bonifacio VIII

in Toscana per scopi più politici che religiosi benedisse a

nome del pontefice la prima pietra del duomo.

In ogni luogo di vendita e di scambio fu esposta al pub-

blico la cassetta per l’offerta del ‘denaro a Dio’, che dava

una sanzione spirituale alla conclusione dell’affare.

Il papa mandò tremila fiorini, detraendoli dal monte del-

le usure, restituite dagli strozzini in punto di morte.


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A tutti, usurai e no, furono promesse indulgenze propor-

zionate all’importo.

Si noti che la chiesa considerava usuraio chiunque impre-

stasse denaro, qualunque fosse il tasso. Irrigidita su posi-

zioni aristoteliche che stabilivano ‘il denaro non può ge-

nerare denaro, essa condannava il prestito a interesse,

in aperto contrasto con una società che si stava lancian-

do nella grande avventura mercantile e capitalistica.

Perciò l’arricchito quando vedeva, in punto di morte,

le fiamme dell’inferno spuntare in fondo al letto, si af-

frettava a destinare i suoi beni a opere di bene, speran-

do, se il medico non riusciva a salvargli la vita, di sal-

vare, con l’aiuto del notaio, almeno l’anima.

E quella dei mercanti era di più difficile salvataggio,

giacché su di loro pesavano le pessimistiche previsio-

ni della Bibbia: ‘a stento un mercante sarà esente da

colpe, un rivenditore non sarà immune dal peccato….

tra la compera e la vendita si insinua il peccato’.

Alcuni non attesero l’ultima ora per fare larghe dona-

zioni, in espiazione delle loro colpe.

Grandi peccatori, grandi cattedrali.

Su ogni pagamento eseguito dal comune si applicò,

pro fabbrica del duomo, una tassa di quattro denari per

lira. Gli appaltatori delle gabelle versavano due denari

per ogni lira incassata, una specie di Iva sacra che pre-

vedeva multe astronomiche per i contravventori.

Ai bestiemmiatori furono inflitte, al posto delle peniten-

ze materiali, pene pecuniarie, sempre a vantaggio del

duomo, cosicché ‘molti blocchi di marmo di santa Maria

del Fiore furono acquistati col ricavato delle bestemmie’.

Ogni cittadino fu tassato per due soldi annui.

L’unico esente da tasse fu l’architetto Arnolfo, al quale i

fiorentini, fiscalmente parlando, non torsero un capello,

per timore che si arrabbiasse e andasse a lavorare altro-

ve.

Arnolfo non usufruì a lungo dell’agevolazione, morì

poco dopo….

Siamo nell’anno di Nostro Signore 1301….

(Cesare Marchi, Grandi peccatori grandi cattedrali)




 

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L’INVASIONE (2)

Precedenti capitoli:

l’invasione &

al cinema con il Dalai Lama 

Prosegue in:

catturato in Tibet

La Genesi in:

il giardino dell’eden (11)

Da:

i miei libri &

Frammenti in rima

 

l'invasione 2

 

 

 

 

 

 

Mi unii alla grande carovana del dio-re, che agli inizi di dicembre

lasciò Gyantse per dirigersi a sud.

Durante il viaggio il clima divenne ancora più freddo.

Com’era tipico degli inizi d’inverno tibetani, verso mezzogiorno

le ampie distese degli altipiani cominciavano a essere spazzate da

tempeste di sabbia simili a uragani, per cui bisognava arrotolare

in fretta i vessilli.

 

l'invasione 2

 

Da giorni vedevamo in lontananza la piramide possente del Cho-

molhari, alto 7328 metri, a ovest del quale sorgeva il capoluogo

della provincia di Phari, la nostra prossima meta. Per arrivarci

dovevamo attraversare il grande altopiano di Tuna.

Per combattere il freddo viaggiavamo a piedi, compreso il Dalai

Lama, sostenuto da due abati. Per i nobili si trattava di un’espe-

rienza del tutto nuova, e la fotografia che riuscii a scattare in

quella circostanza dice più di tante parole.

 

l'invasione 2

 

Dopo ore di marcia, bisognava allestire l’accampamento per uo-

mini e animali. Eravamo ancora sul terreno scoperto e ventoso

dell’altopiano, ma verso il tardo pomeriggio l’aria si calmava.

Si potevano spiegare i vessilli, e mentre, già immersi nel freddo

e nell’ombra, montavamo le tende, sulla cresta del Chomolhari

vedemmo una immensa striscia di neve orizzontale illuminata

dal sole calante.

 

l'invasione 2

 

Durante la lunga marcia avevo riflettuto sulla sicurezza del Dalai

Lama. I cinesi erano nel Tibet orientale già da tre mesi, e i 400

chilometri quadrati dell’altopiano di Tuna costituivano una pista

d’atterraggio ideale per i loro aerei.

D’altra parte un aereo avrebbe anche potuto essere il modo più

rapido per portare al sicuro il Dalai Lama. Io ero sempre stato a

favore della scelta dell’esilio, prima e dopo l’invasione, perché

credevo che ciò avrebbe aumentato le possibilità del Dalai Lama

di tornare un giorno in un Tibet libero; lo si può leggere pure

nelle memorie di Sua Santità.

Alla fine di maggio giunse da Pechino la notizia che i delegati

del Dalai Lama, guidati dal ministro Ngabo, avevano firmato

un accordo in 17 punti con i cinesi su cui avevano apposto il

sigillo di Stato.

 

l'invasione 2

 

Era chiaro che un simile accordo poteva essere stato estorto

solo con la forza; inoltre il sigillo del governo del Tibet si tro-

vava con il Dalai Lama presso il monastero di Dungkhar. 

Quindi il timbro sul documento era sicuramente un falso.

Il destino del Tibet sembrava segnato: l’accordo non lasciava

dubbi riguardo al fatto che il paese fosse da considerarsi par-

te della Cina.

Come si sarebbe comportato adesso il Dalai Lama?

Avrebbe deciso di accettare l’accordo e di tornare a Lhasa op-

pure di andare in esilio e di combattere da lì contro gli invasori?

Il Dalai Lama ascoltò la notizia via radio.

Cercai di immaginare i sentimenti di quel sovrano poco più che

bambino: la situazione doveva sembrargli sconfortante.

Soltanto la sua intelligenza, il suo senso di responsabilità e la

sua calma interiore potevano aiutarlo a sostenere l’assedio dei

tanti consiglieri che gli presentavano ognuno una proposta di-

versa, seppure a fin di bene.

 

l'invasione 2

 

Lo ammiravo, ma purtroppo non potevo aiutarlo, per quanto gli

fossi amico. Non avemmo occasione di parlarci: qui non mi era

consentito fargli visita facilmente come al Norbulingka. 

Era evidente che i vecchi monaci avevano osservato con diffiden-

za la nostra amicizia, così, in quella situazione di crisi, mi tene-

vano alla larga.

Presi congedo dal giovane sovrano con una lettera in cui gli consi-

gliavo di ‘cercare asilo in India’, come si può leggere nell’autobio-

grafia del Dalai Lama del 1990.

Il generale cinese Zhang Jingliu era atteso nella valle di Chumbi

per un colloquio con il Buddha vivente.

Io avevo deciso di proseguire per l’India…ma un altro presagio

come il terremoto del 15 agosto del 50….mi aveva scosso e turba-

to…..

(H. Harrer, La mia sfida al destino) 

 

 

 

 

 

 

l'invasione 2

 

LA GENESI (13)

Precedenti capitoli:

la genesi 11 (il giardino dell’eden)

la genesi 12

Prosegue in:

la genesi 14

Foto del blog:

il giardino

dell’eden

Da:

i miei libri &

Frammenti in rima &

 

 

la genesi 13

 

 

 

 

 

 

 

…..E poi compariva l’altra grafia, la prima volta che l’aveva

vista sul registro riconoscendola per quella di suo zio, cuoco

e uomo di casa che anche McCaslin, che l’aveva conosciuto,

e il padre del ragazzo nei sedici anni che avevano preceduto

la sua nascita, ricordavano seduto tutto il giorno nella sedia

a dondolo da cui cucinava il cibo, davanti alla stufa su cui

lo cucinava:

 

21 Giugno 1833 Si è annegata

 

…e la prima:

 

23 Giugno 1833 Chi diavolo ha mai sentito di un negro

che si annega

 

….e la seconda, pacata, assolutamente perentoria; le due

annotazioni identiche e tranne per la data apparentemen-

te fatte con uno stampino:

 

13 Ago 1833 Si è annegata

 

….e lui pensò Ma perché? Ma perché?

 

la genesi 13

 

Aveva sedici anni all’epoca.

Non era la prima volta che gli capitava di restare solo

nello spaccio né la prima volta che tirava giù i vecchi

registri sempre lì nello scaffale sopra lo scrittoio da

quando era in grado di ricordare.

Da bambino e anche dopo che ebbe nove dieci e undici

anni, quando aveva imparato a leggere, guardava le

costole e i margini sbrindellati e screpolati ma senza

il particolare desiderio di aprirli, e anche se intendeva

esaminarli un giorno perché si rendeva conto che con-

tenevano probabilmente un resoconto cronologico mol-

to più esaustivo, per quanto senza dubbio tedioso, di

quello che avrebbe potuto avere da una qualsiasi altra

fonte, non solo della sua carne e del suo sangue, ma di

tutta la sua gente, non solo i bianchi ma anche i neri,

 

la genesi 13

 

che erano parte della sua stirpe quanto i suoi progeni-

tori bianchi, e della terra che tutti loro avevano tenu-

to e usato in comune e di cui si erano nutriti e che in

comune avrebbero continuato a usare a prescindere

dal colore e dal titolo di proprietà, l’avrebbe fatto sol-

tanto in un giorno d’ozio, quando fosse ormai vecchio

e magari anche un po’ annoiato, visto che dopo tutti

quegli anni il contenuto di quei libri sarebbe stato or-

mai fisso, compiuto, inalterabile, inoffensivo.

E poi ebbe sedici anni.

Sapeva che cosa avrebbe trovato prima di trovarlo.

Prese la chiave dello spaccio nella stanza di McCaslin

dopo la mezzanotte mentre McCaslin dormiva e con

la porta chiusa e sprangata alle sue spalle e la lanter-

na dimenticata che riprese a appestare la gelida aria

viziata e stantia, si chinò sulla pagina ingiallita e pen-

sò non perché si è annegata ma si mise a pensare quel-

lo che pensava suo padre avesse pensato quando ave-

va trovato il primo commento del fratello: perché mai

zio Buddy pensava che si era annegata?

 

la genesi 13

 

Trovando, cominciando a trovare nella pagina imme-

diatamente successiva quel che sapeva vi avrebbe tro-

vato, solo che non era ancora quello che cercava, per-

ché questo lo sapeva:

 

Tomasina detta Tomy Figlia di Thucydus & Eunice

Nata 1810 morta di Parto Giugno 1833 e sepolta.

L’anno che caddero le stelle

 

né ciò che seguiva:

 

Turl Figlio di Tommy di Thucydus & Eunice nato

Giugno 1833 l’anno che caddero le stelle Testamento

di Papà

 

…..E poi nient’altro, nessun tedioso resoconto che

riempisse questa pagina di paghe giorno dopo gior-

no e di cibo e vestiario a loro carico, nessuna menzio-

ne di morte e sepoltura perché era sopravvissuto ai

suoi fratellastri bianchi e i registri compilati da Mc-

Caslin non includevano necrologi; nient’altro che….

Testamento di papà……

(Faulkner, Go Down Moses; L’orso)

 

 

 

 

 

la genesi 13

LA GENESI (9) (….ci sono cose che lui ha detto….)

Precedente capitolo:

la genesi 8 &

l’ordine divino

Prosegue:

la genesi 10

Da:

i miei libri &

Frammenti in rima


 

la genesi 9








(Da la-genesi-8.html)

‘Ci sono nel Libro certe cose che Lui ha detto, e cose a Lui attribuite

che Lui non ha detto.

E so quello che dirai ora: se la verità è per me una cosa e per te un’-

altra, come faremo a scegliere qual è la verità? Non c’è bisogno che

tu scelga. Il cuore già sa. Il Suo Libro lo volle non perché fosse letto

con quel che elegge e sceglie, ma col cuore, non dai saggi della terra

perché forse essi non ne hanno bisogno o forse i saggi non hanno più

cuore, ma dai dannati e dagli umili della terra che per leggere non

hanno altro che il cuore.

Perché gli uomini che scrissero per Lui il Libro scrivevano la verità

e c’è una sola verità e abbraccia tutto quel che tocca il cuore’

e McCaslin

‘Dunque gli uomini che trascrissero per Lui il Suo Libro a volte

mentivano’

e lui

‘Sì. Perché erano uomini. Dalla tumultuosa complessità del cuore

cercavano di estrarre e mettere per scritto la verità del cuore, per

tutti i cuori complessi e travagliati che avrebbero battuto dopo il

loro. Quello che cercavano di dire, quel che Lui voleva si dicesse,

era troppo semplice. E coloro per i quali trascrissero la Sua paro-

la magari non ci avrebbero creduto. Dovevano esporla in termini

quotidiani che fossero familiari e comprensibili non solo a chi a-

scoltasse ma anche a chi parlava, perché se tra chi respira e parla

una lingua c’era chi Gli era tanto vicino da essere stato eletto a

trascrivere e trasmettere la Sua parola, e quello poteva conoscere

la verità solo attraverso la complessità della passione e del desi-

derio e dell’odio e della paura che agita il cuore, che distanza do-

veva superare per tornare alla verità chi la verità poteva raggiun-

gere solo di bocca in bocca?

e McCaslin

 

la genesi 9


‘Visto che ti sei messo in testa di dimostrare le tue tesi e confutare

le mie appellandoti allo stesso testo, potrei rispondere che non lo

so. Ma non lo faccio,perché ti sei risposto da solo: niente, niente

tempo se come affermi il cuore conosce la verità, quell’infallibile

e irreprensibile cuore. E forse hai ragione, perché nonostante tu

abbia contato tre generazioni dal vecchio Carothers a te, non ce

n’erano tre. E neppure due piene…..

e lui

‘Sì. Altri ancora oltre a mio padre e zio Buddy’

senza nemmeno sollevare lo sguardo verso lo scaffale sopra lo

scrittoio, e neppure McCaslin. Non ne avevano bisogno. Gli sem-

brava che i registri con le loro rilegature di pelle screpolata e sbrin-

dellata venissero prelevati a uno a uno nella loro sequenza scolo-

rita e spalancati sullo scrittoio o forse su qualche Banco apocrifo

o anche Altare o forse dinnanzi al Trono Stesso per un’ultima con-

sultazione e contemplazione e ripasso dell’Onniscente prima che

le pagine ingiallite e l’inchiostro sbiadito prima nella mano di suo

nonno e poi di suo padre e di suo zio, scapoli fino a cinquant’anni

e passa e poi sessanta, uno che gestiva l’amministrazione della

piantagione e cucinava e continuò a farlo anche dopo il matrimo-

nio del gemello e la nascita del ragazzo i due fratelli che appena

fu sepolto il padre abbandonarono l’edificio più che altro una ri-

messa, mostruosamente concepito, che lui non aveva nemmeno

ultimato, per una capanna con un’unica stanza che loro due si

costruirono da soli a cui aggiunsero altre stanze mentre ci abita-

vano, proibendo a qualunque schiavo di toccare anche solo una

trave se non per l’effettiva messa in opera dei tronchi che i due

da soli non erano in grado di maneggiare, e alloggiarono tutti

gli schiavi nella casa grande dove le finestre erano ancora in par-

te chiuse sbarrate giusto coi resti di tavoloni o con pelli d’orso

e di cervo inchiodate sui telai vuoti……

(Prosegue in la genesi 10)





 

la genesi 9

LA GENESI (3)

Precedente capitolo:

l’uomo e la natura &

l’ordine-divino.html &

una diversa interpretazione

 

(In riferimento alla parentesi dedicata

alla Genesi precedente capitolo:

la genesi 2

prosegue in:

la genesi 4

 

Foto del blog:

la genesi 3

Libri, riflessioni, appunti, …dialoghi in:

i miei libri

Frammenti in rima

 

 

la genesi 3

 

 

 

 

 

Il passo dove viene narrata la caduta dallo stato di grazia e la

punizione per aver disobbedito al comando divino, è un passo

chiave del mito della creazione elaborato dalla nostra tradizio-

ne culturale, in quanto fornisce la giustificazione del dolore,

delle fatiche e delle avversità della vita sulla terra.

Tale passo fonda una concezione del mondo e della vita uma-

na come essenzialmente basati sul dolore e sulla privazione.

Dalla Caduta derivano due importanti conseguenze: la prima

consiste nel fatto che la vita è difficile e dolorosa, piena di su-

dore, fatica e avversità; la seconda che la terra è qualcosa di

negativo e indegno, qualcosa da risollevare.

La terra non è il male, ma è comunque vile e spregevole: il

serpente, come punizione per la sua malvagità, è condanna-

to a strisciare col ventre a terra e ad Adamo viene detto:

‘Maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il

cibo’ e, sempre a causa del suo peccato, Adamo dovrà morire

e tornare alla terra:

 

Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché tornerai alla

terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere

tornerai.

 

Occorre prestare molta attenzione a queste considerazioni,

dato che le ritroveremo in tutte le espressioni culturali, nella 

letteratura, nell’arte e nella musica, delle civiltà ‘superiori’ di

stampo agricolo: la terra, la carne e questa vita sono da consi-

derarsi cose infime, volgari e prive di valore, mentre il cielo, lo

spirito, e la vita nell’aldilà come cose elevate, maestose e desi-

derabili.

Adamo ed Eva, scacciati dal Giardino dell’Eden, si moltiplica-

rono.

Il loro primo figlio, Caino, era un ‘lavoratore del suolo’, un

orticultore, mentre il secondo, Abele, era un ‘pastore di greg-

gi’, un allevatore.

Caino, accecato dalla gelosia e dalla rabbia, uccise Abele.

Adirato, Dio maledì Caino e gli ingiunse di vagare per la ter-

ra, ramingo e fuggiasco:

‘Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodot-

ti’. Di nuovo, Dio maledice l’umanità e condanna gli uomini,

e soprattutto i contadini, a una vita di stenti e di mortificazio-

ni.

 

 

 

 

 

la genesi 3

   

LA MELA (2)

Precedente capitolo:

la mela

Prosegue in:

contra galilaeos &

io povero pagano

Foto del blog:

la mela 2

Da:

i miei libri &

Frammenti in rima


 

la mela 2

 

 






Un’ulteriore mutazione simbolica si verificò nel Medioevo

cristiano quando l’Albero della conoscenza venne spesso

raffigurato con un melo e il frutto del peccato originale con

la mela.

In realtà il racconto della Genesi non descrive quest’albero.

Narra che il Serpente, il più astuto fra tutti gli animali creati

dal Signore, disse alla donna: ‘E’ vero che Dio ha detto:

Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?’.

Rispose Eva: ‘Noi possiamo mangiare dei frutti degli alberi,

ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha

detto:

Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti

morirete’.

‘Non morirete affatto! Anzi Dio sa bene che se lo mangiate si

aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscen-

do il bene e il male’.

 

la mela 2


Eva, suggestionata dal Serpente, cominciò a pensare che quel

frutto non soltanto era buono ma indispensabile per acquisire

saggezza.

Lo mangiò, poi ne offrì a Adamo che lo accettò di buon grado.

Proprio in quel momento si aprirono gli occhi a entrambi ed

essi si accorsero di essere nudi: intrecciarono foglie di fico e

se ne fecero cinture.

Poi, avendo udito il rumore dei passi del Signore che stava

passando nel giardino alla brezza del giorno, si nascosero tra

gli alberi.

Ma non potevano sfuggire all’occhio dell’Onnipotente.

Egli chiamò Adamo, il quale timoroso rispose: ‘Ho udito il tuo

passo nel giardino: ho avuto paura perché sono nudo e mi so-

no nascosto’.

‘Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’-

albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?’.

‘La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato del frutto

di quest’albero e io ne ho mangiato’.

Allora il Signore domandò a Eva: ‘Che hai fatto?’.

E lei: ‘Il Serpente mi ha ingannata e io ho mangiato’.

Dopo aver maledetto il Serpente, Iahveh disse alla donna:

‘Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore

partorirai i tuoi figli. Verso tuo marito sarà rivolto il tuo

istinto, ma egli ti dominerà’.

 

la mela 2


E a Adamo: ‘Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai

mangiato dall’albero, di cui ti avevo ordinato di non mangiare,

maledetto sia il suolo per causa tua!

Con dolore ne trarrai il cibo della tua vita.

Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi. 

Con il sudore del tuo volto mangerai il pane finché tornerai al-

la terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polve-

re ritornerai!’.

Dopo aver fatto tuniche di pelli il Signore rivestì i due peccato-

ri dicendo: ‘Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi grazie al-

la conoscenza del bene e del male. Ora egli non stenda più la

mano e non prenda anche dell’Albero della vita, ne mangi e

viva per sempre’.

Poi li scacciò dall’Eden dove pose a oriente i cherubini e la fiam-

ma della spada folgorante per custodire l’Albero della vita.

La scelta iconografica del melo come Albero della conoscenza

nell’arte cristiana medievale e poi moderna sembra ispirarsi all’-

antica iconografia egea: quella, come si ricorderà, che mostrava

la dea circondata dal Serpente e dal figlio Stella.

Ma qui le parti sono cambiate: la dea è diventata compagna del

Figlio e il Serpente ha assunto il ruolo di Tentatore, mentre

compare la figura patriarcale di Iahveh.

Tuttavia, di là dalla mela, la fonte primaria del mito della Gene-

si non è egea ma mediorientale: un antico mito persiano raccon-

ta che Meshia e Meshiane erano vissuti di sola frutta fino a quan-

do il demone Ahriman li ebbe persuasi a rinnegare il Signore.

Così persero la loro purezza, tagliarono gli alberi, uccisero gli

animali e commisero altri peccati.

(A. Cattabiani, Florario)


 

 

 

la mela 2

   

CONOSCI TE STESSO

Precedente capitolo:

gli educatori (della Repubblica)

al cinico Eraclio 

Prosegue in:

io povero pagano 3 &

al cinico Eraclio 2

Foto del blog:

conosci te stesso

 

giuliano.jpg

 






….Ma se il Cinico, come appunto il dio prescriveva a Diogene,

dopo aver conianto la sua moneta’ avesse seguito il precetto det-

tato dal dio stesso prima di questo, cioè ‘Conosci te stesso’, che

appunto Diogene e Cratese sembra abbiano emulato con ardo-

re nelle loro azioni, io direi che questo comportamento è in

tutto degno di un uomo che vuole al contempo essere un capo

di stato e un filosofo.

Ma sappiamo forse che cosa disse il dio?

Sappiamo che impose a Diogene di disprezzare l’opinione dei

più e di coniare non la verità, ma la moneta.

A quale categoria rincondurremo dunque il precetto ‘Conosci

te stesso’?

A quella forse di una moneta?

Oppure proprio questo concetto riterremo che sia il nucleo fon-

damentale della verità e per mezzo dell’affermazione ‘Conosci

te stesso’, che sia il modo per dire ‘Conia la tua moneta’? (..e la

tua falsa moneta…che noi non appreziamo).

Come infatti colui che disdegna in maniera assoluta le opinio-

ni e va diritto alla verità, per quanto lo riguarda non si atter-

rà ad opinioni convenzionali ma a fatti che siano reali, alla

stessa maniera, credo, colui che conosce se stesso saprà alla

perfezione, ciò che è reale e non ciò che si considera tale.

Il dio di Pito non dice dunque la verità, e Diogene non ne era

palesemente convinto?

Lui che, per avergli obbedito, invece che come un esule fu

presentato non come più importante del Re dei Persiani, ma,

secondo la tradizione, come oggetto di invidia da parte dello

stesso distruttore della potenza persiana, emulatore delle fa-

tiche di Eracle e ambizioso competitore di Achille?

E bada bene, mio uditore, se ora mi proponessi di scrivere

riguardo al Cinismo, direi che le idee che si presentano alla

mia mente, su questo tema, non sono certo meno numerose

di quelle già esposte ma, per continuare a sviluppare gli ar-

gomenti prescelti all’inizio, esaminiamo qui di seguito le

qualità di cui bisogna che siano dotati gli inventori dei miti.

Ma forse prima di questa indagine viene quella che mira, a

sua volta, ad identificare con quale genere filosofico sia com-

patibile la redazione di miti.

Di tali creazioni sembra che abbiano fatto uso molti filosofi

e teologi, come Orfeo, il più antico fra tutti, le cui dottrine

erano ispirate dalla divinità, e non pochi altri dopo di lui.

Non meno anche Senofonte, Antistene e Platone sembra che

siano serviti, in molti passi delle loro opere, di narrazioni al-

legoriche, così che ci appare chiaro che se non proprio per il

Cinico, per un altro genere di filosofo è conveniente utilizza-

re racconti mitici.

A questo punto è necessario che io fornisca delle brevi indica-

zioni sulle parti e sugli strumenti della filosofia (che forse non

hai mai intuito, capito, letto, appreso…).

Non fa in realtà molta differenza se si include la logica nella

filosofia pratica o nella fisica: in entrambi i casi infatti appa-

re indispensabile.

Ciascuna di queste tre parti a sua volta si suddivide ancora in

tre: la fisica nella teologia, nella matematica e in una terza di-

sciplina che ha per oggetto, da un lato, lo studio degli esseri che

nascono, di quelli che muoiono, di quelli che sono eterni, dall’-

altro dei corpi, dei quali indaga quale sia la natura e, per cia-

scuno, la sostanza; della filosofia pratica sono competenti la

parte che riguarda il singolo individuo, denominata etica,

quella che riguarda la conduzione di un’unità familiare, de-

nominata economica, quella che riguarda il governo di una

città, denominata politica.

Orbene della logica una parte è detta ‘dimostrativa’, quando

si fonda su elementi reali, un’altra ‘confutativa’, quando si

fonda su dimostrazioni conformi all’opinione comune, un’-

ultima ‘paralogistica’, quando si fonda su dimostrazioni so-

lo in apparenza conformi all’opinione comune.

Queste sono le suddivisioni della filosofia, se non me ne è

sfuggita qualcuna, e non c’è assolutamente da stupirsi se un

soldato, come me, non conosce alla perfezione e non ha, per

così dire, sulla punta delle dita cose del genere, di cui egli

parla non per aver avuto consuetudine con i libri ma per una

sua casuale attitudine; e me ne sarete testimoni anche voi, se

farete il calcolo di quanti giorni, e quanto mai lunghi, sono

intercorsi fra questa risposta e la conferenza che abbiamo a-

scoltato ultimamente, e di quanti impegni furono per noi fit-

te queste stesse giornate.

Considerate le suddette ripartizioni della filosofia, la compo-

sizione di miti non è di alcuna utilità né per la logica, né per

la matematica, sezione della fisica, lo è, se mai, solo per la

parte della filosofia pratica che riguarda il singolo indivi-

duo e per la parte della teologia relativa ai riti iniziatici e

misterici:


la natura ama infatti nascondersi …e non sopporta

che il segreto dell’essenza degli dei sia incautamente

trasmesso ad orecchie profane…..

(Giuliano Imperatore, Al cinico Eraclio)


 
 
 
 
 
 
Giuliano Apostata.jpg