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Partii da Patane un sabato mattina, e navigando sempre lungo
la costa con vento prospero, arrivammo alle spiagge di Lugor
la mattina del giovedì seguente.
Dato fondo alla foce del fiume rimanemmo tutto il giorno, e
prendemmo minute informazioni, sia per le merci, sia per la
sicurezza delle nostre persone.
Le notizie che ci diedero furono così buone che sperammo di
poter moltiplicare il denaro quasi sei volte, e per giunta era da-
ta sicurezza ad ognuno, con libertà e franchigia per tutto quel
mese di settembre.
Decidemmo così di risalire il fiume col levar del vento, ma la
sventura chiamata dai nostri peccati non permise che vedessi-
mo ciò che tanto desideravamo. Infatti, verso le dieci, allorché
eravamo già quasi pronti per prenzare e con le ancore a picco
ci accingevamo a far vela, vedemmo uscir dal fiume un gran
giunca, con le sole vele di trinchetto e mezzana, che si avvicina-
va di sopravvento.
Come ci ebbe raggiunti, riconosciuti per porteghesi, e vedendo che
eravamo molto pochi di numero, e che il nostro bastimento stava
per salpar l’ancora, calò su di noi, e accostando prua con prua da
dritta, ci lanciò, attaccati a lunghe catene di ferro, dei grapponi,
coi quali ci abbordò.
Essendo quella nave molto grande, e la nostra piccola, ci trovam-
mo sotto il suo occhio di cubia. Vedemmo allora uscire di sotto il
cassero, dove sin’allora erano rimasti nascosti, settanta o ottanta
mori, fra i quali era anche qualche turco: che, mandando alte grida,
ci gettarono addosso tante pietre, zagaglie, dardi e picche, da parer
una pioggia caduta dal cielo; e, in men che non si dica un credo, dei
sedici portoghesi che eravamo dodici vennero uccisi
assieme a trentasei indiani dell’equipaggio.
I quattro di noi che riuscirono a scampare si gettarono in mare,
dove uno affogò subito, mentre gli altri due miei compagni ed
io, benché feriti, riuscimmo ad arrivare a terra, e attraversando
una palude dove sprofondavamo sino a mezza vita, ci adden-
trammo nella foresta.
I mori della giunca saltarono tosto nella nostra nave e vi termina-
rono di uccidere sei o sette marinai, già feriti, senza risparmiare
nessuno; indi si affrettarono a trasportar tutte le mercanzie nella
lor giunca, e aprirono una falla del nostro legno, che andò a fondo.
Antonio de Faria attendeva con ansia il nostro ritorno e le notizie
dei suoi drappi, e come ci vide e gli ebbimo raccontato quanto
era accaduto, rimase così costernato che non gli riuscì di parlare
per più di mezzora.
La perdita del nostro bastimento fu stimata oltre 60.000 cruzados,
di cui la maggior parte era in argento monetato col quale doveva-
mo comprare dell’oro.
Non trovando Antonio del Faria soluzione alcuna pel furto dei
12.000 cruzados che gli avevano prestati in Malacca, e desideran-
do alcuni consolarlo di questa perdita, rispose loro che non ave-
va il coraggio di tornare colà e comparire innanzi ai suoi creditori,
temendo che in forza delle scritture che aveva loro date, volessero
obbligarlo a restituire quanto doveva; il che egli non era punto in
grado di fare.
Allora giurò innanzi a tutti sul santo Evangelio e promise a Dio di
cercar il rapitore delle sue sostanze, aggiungendo che questi avreb-
be dovuto ripagargliele il doppio o con le buone o con le cattive; era
tuttavia certo che ciò non potesse avvenire con le buone, dacché non
v’era ragione alcuna che chi gli aveva ucciso sedici portoghesi e
trentasei uomini dell’equipaggio cristiani se ne uscisse sì lievemente
e senza castigo alcuno: perché, se così fosse stato, ogni giorno ce ne
avrebbero fatta una, o un’altra, o cento simili a questa.
Quanti furono testimoni del suo giuramento lodarono molto tale
risoluzione.
Trovò molti giovani che si offersero di accompagnarlo in quell’impre-
sa, e buoni mercanti che gli offrirono del denaro per armarsi e provve-
dersi del necessario.
Egli accettò queste offerte dei suoi amici, e fece i preparativi con
tanta sollecitudine che in soli diciotto giorni unì seco cinquantadue
soldati.
(Fernao Mendes Pinto, Peregrinacao)