IL POPOLO DEGLI ABISSI (2)

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Talune cronache raccontate, piene zeppe di follie, tragedie,

drammi familiari e disperazione illustrano i sintomi più

sorprendenti del disagio alpino (e non solo..).

Narrano cioè una serie di vicende eccezionali, una selezione

di accadimenti in qualche modo extra-ordinari, sia rispetto al-

la quotidianità di quei luoghi che non è caratterizzata unica-

mente dal disagio, sia in relazione al modo più consueto di

tacere, di tenere dentro di sé, di dissimulare e di nascondere

il malessere laddove è presente.

Le cronache quindi non sono indicative di una particolare

predisposizione degli abitanti delle valli al crimine e alla

violenza, o per lo meno non di un’inclinazione superiore a

quella degli abitanti di altri luoghi; esse segnalano più

semplicemente la presenza in quelle comunità di una cor-

rente sotterranea di sofferenza e di inquietudine repressa e

soffocata che di tanto in tanto, quando trova delle debolezze

nelle difese individuali e collettive di superficie esplode con

irruenza e brutalità.

 

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Primo fatto:

Il 23 maggio 1946, verso le 7.30 del mattino, una giovane insegnante

si era messa in cammino per raggiungere la scuola nella quale lavo-

rava.

Doveva attraversare il bosco per arrivare a Cologna, il paesino dove

si trovava la scuola. Fu lungo il sentiero che quella mattina la giova-

ne maestra incontrò il suo carnefice. Le si parò davanti all’improvviso

e con la forza la trattenne.

Si spogliò e costrinse la giovane a fare altrettanto. Le legò le mani

dietro alla schiena e la violentò selvaggiamente per ore. Esausto pre-

se a colpirla alla testa con delle pietre. Poi la seppellì, ancora viva,

sotto alcuni sassi vicino a un torrente e sopra il corpo, più o meno

all’altezza dell’addome, posizionò un masso di quasi mezzo quinta-

le sul quale rimase appollaiato per qualche giorno, sino a che la ra-

gazza morì per fame e asfissia.

Il 25 luglio 1946, circa due mesi dopo, la stessa sorte toccò a una

contadinella di 15 anni intenta a percorrere il sentiero che da Col-

lepietra scendeva verso Cornedo, due paesini deliziosi a poca

distanza nel cuore dei massicci Catinaccio e Latemar.

La trascinò sino a una radura minacciandola con un coltello.

Qui si spogliò, le deflorò e la possedette per tutta la notte. All’

alba la fece rivestire e la condusse in una caverna dove la legò e

la bendò. Poi fece rotolare davanti all’imbocco dei grossi massi

chiudendone l’accesso. Fortunatamente, non si sa bene come, la

ragazzina riuscì a liberarsi e a mettersi in salvo.

Trasferitosi a Innsbruck nel novembre del 1947, in seguito a due

violenze carnali, l’uomo fu catturato e condannato a un anno di

carcere.

Circa tre anni dopo, fu rinvenuto il corpo di una turista inglese di

43 anni, originaria di Oxford, alloggiata al Parkhotel nella zona del

Patscherkofel, scomparsa misteriosamente il primo luglio del 1950.

Era stata massacrata a colpi di pietra in una grotta tra i boschi a 2000

metri: la belva aveva colpito ancora.

‘Saranno state le quattro del pomeriggio – raccontò poi durante il

processo – era un sabato. Ero eccitato dal vino. Ho incontrato quella

donna, una turista. Le ho fatto subito delle profferte sessuali, lei ha

però rifiutato.

Allora abbiamo iniziato una conversazione politica e a un certo punto

lei ha offeso la Germania. Io le ho sferrato un pugno al volto, lei è ca-

duta a terra. Allora l’ho trascinata in una grotta. L’ho posseduta per

tutta la notte.

Poi, verso le tre del mattino, l’ho uccisa. Poi l’ho seppellita, ho chiuso

l’accesso alla grotta e sono tornato a casa mia, a Innsbruck.

Saranno state le sei e mezza del mattino’.

La belva del Tirolo fu catturata nuovamente in una malga a 2000 metri

tra il monte Tondo e il monte Piatto sopra Bolzano: era Guido Zingerle,

nato il 3 settembre 1902 a Ciardes, frazione di Castelbello, in Val Venosta.

(C. Arnoldi, Tristi montagne)

 

 

 

 

 

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LA CAUZIONE (Buster un comico eretico) (2)

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Dopo un po’ il direttore ci fece segno che erano arrivate le sezioni

della Sfera della Morte.

Potevamo sentire i macchinisti che la montavano dietro le quinte.

Ma ci sarebbe voluto un sacco di tempo. Quando non riuscimmo a

pensare ad altro, il babbo urlò:

– Tirate su il sipario!

 

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Dietro stavano ancora cercando di mettere insieme la Sfera della

Morte.

Io e il babbo ci mettemmo a lavorare di buzzo buono, aiutando i

macchinisti, in realtà intralciandoli, facendoci inchiodare i pantaloni

e altri pezzi di vestiario alla grande sfera. Nonostante il nostro aiuto

alla fine riuscirono a mettere insieme quell’affare, che era puntellato

da tutte le parti da travi d’acciaio.

A questo punto eravamo stati sul palcoscenico per un’ora e 35 minuti…..

 

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Per certe ragioni il babbo si trovava meglio a fare a botte con più

di un uomo alla volta. Penso che lo considerasse più divertente per

gli avversari.

Di certo la sua capacità di combattere con i piedi lo aiutò un sabato

quando entrò al Considine’s Metropole, il posto in cui si ritrovavano

le personalità dello sport a New York.

Il babbo era solo.

La mamma giocava a carte alla Ehric House, e io osservavo il gioco.

 

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Tre universitari entrarono ed esplosero in pazze risate alla vista

di un omino barbuto al bar.

– Vieni qui, ebreuccio,

disse uno di loro.

– Vieni a far festa con noi.

Poi cominciarono a prenderlo in giro e a dargli noia, raggiungendo

il massimo del divertimento quando gli abbassarono il cappello su-

gli occhi.

– Lasciatelo stare,

disse mio padre.

– Allora devi essere ebreo anche tu,

disse uno dei ragazzi.

– Vi ho detto di lasciarlo stare,

urlò mio padre quando gli altri due cominciarono a spingere l’

uomo.

Il terzo disse a mio padre:

– Ti ho fatto una domanda. Sei ebreo?

– Certo, annunciò il babbo, facendo rimanere a bocca aperta il

barista, che lo conosceva da anni come irlandese.

Gli universitari andarono verso di lui. Uno tirò un pugno.

Il babbo lo evitò, sistemò uno di loro con i piedi, e con un mon-

tante destro fece volare il terzo attraverso la vetrina di Considine’s.

 

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Il barista e il piccolo ebreo guardarono stupiti i vetri e i due giovani

aitanti a terra.

– Bene, cosa ordina signor Keaton?,

disse il barista.

Joe si massaggiò le nocche della mano destra mentre pensava, poi

disse:

– Una birra.

Disse poi che stava per offrirne una al piccolo ebreo, ma decise che

aveva già fatto abbastanza per lui.

Nel frattempo mentre si beveva la sua birra, uno dei camerieri uscì

dal bar e chiamò il grasso poliziotto che era di ronda.

Andando con il babbo alla stazione di polizia, il poliziotto chiese:

– Perché non sei scappato?

Un sorriso si allargò sulla faccia di Joe:

– Ora è troppo tardi?

– Sì,

disse tristemente lui,

– Ora è troppo tardi. Il sergente sa già tutto.

Io e la mamma lo venimmo a sapere quando George Howard,

degli Howard Brothers, un grande gruppo di suonatori di banjo,

irruppe nella sala in cui si giocava a carte.

Era il momento sbagliato: la mamma aveva appena puntato 350

dollari a picche, e picche vale doppio.

– Myra,

esclamò George,

– Joe è nella stazione di polizia della 47sima ovest. Ha steso tre ra-

gazzi da Considine’s. La cauzione è 250 dollari.

La mamma che doveva mettere dei guanciali per sedere allo stesso

livello degli altri al tavolo, guardò fissi gli altri due giocatori.

– Apro di 350,

disse con tono aggressivo.

Geoge pensò che la mamma non avesse sentito.

– Myra, ho detto che Joe è in prigione e….

La mamma gli fece segno di stare zitto.

Quando nessuno rispose alla puntata, mise giù la sua scala,

giocò la mano e vinse facilmente.

Si girò verso George solo dopo aver raccolto la somma vinta e

chiese:

– Di quanto ha bisogno Joe per la cauzione?

– Due e cinquanta. 250 dollari, cioè.

La mamma si piegò verso la sua borsetta, tirò fuori i soldi, li

dette a George Howard, facendogli segno di andare, e disse:

– Va bene, date le carte….

(Buster Keaton, Memorie a rotta di collo)

 

 

 

 

 

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DAL BATTERIO A PASTEUR (12)

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dal-batterio-a-pasteur-11.html

 

 

 

 

 

 

Senza dubbio l’asimmetria molecolare non rivela nulla sull’

origine del mondo, sulla fonte primaria delle manifestazio-

ni della vita.

Se si considerano fondate le ipotesi di Pasteur, essa ci fa risa-

lire un po’ più su in quella catena delle operazioni della natu-

ra, ci svela questa complessità orientata alla perfezione, questa

organizzazione dove i processi logici, il gioco razionale degli

elementi avversi non è mai sostituito dal miracolo, da queste

ellissi che dovrebbero essere proprie del divino.

Si può pensare, è vero, che questo ordine rigoroso dove tutto

scaturisce ineluttabilmente da ciò che lo precede o che a lui

è connesso, in un’immagine di equilibrio, armonioso, è giusta-

mente il segno della potenza intelligente che governa l’universo

e che avendo creato, dato il via alla ‘forza delle cose’ non deve

più intervenire nel loro svolgimento. 

Che tutto quello che oggi è spiegabile lo sia senza dover invo-

care l’azione di un Essere supremo, non prova evidentemente

che Esso non esiste, potendosi invece situare a monte delle

nostre scienze. Esisterà sempre questo al-di-là della conoscenza

umana, questo infinito che disarma la ragione e dove può trova-

re ospitalità qualsiasi principio nato della nostra immaginazione,

dalle nostre necessità.

Collegando, in modo ancora più stretto di quanto non sia stato

fatto fino ad ora, la nostra natura terrestre e l’uomo all’universo,

vedendo l’influenza delle forze cosmiche in seno alla cellula vi-

vente, Pasteur non ci autorizza a pensare che ciò che noi chiamia-

mo la nostra anima potrebbe essere solo una particella, appena e

in modo molto provvisorio, differenziata da un’irradiazione ge-

nerale?

Quando in sostanza scrive nei suoi appunti: 

E’ un caso che il movimento asimmetrico della luce solare abbia

la stessa direzione che prendono gli atomi di carbone e di ossi-

geno, nell’attimo in cui entrano nelle molecole?

Non può non avere la tentazione di chiedersi, se espressioni ‘es-

seri di luce’ o ‘figli della luce’, usate dai teologi cristiani per desi-

gnare gli uomini abitati dalla fede e sicuri della salvezza, non

debbano d’ora in poi avere un’eccezione concreta. (forse il dibat-

tito è ancora aperto….)

(P. Gascar, La strada di Pasteur)

 

 

 

 

 

 

dal batterio a pasteur 12

     

ORA TORNIAMO INDIETRO AD UNA REMOTA ‘ONDA’ (simmetrie evoluzionistiche) (10)

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Prosegue in:

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ora torniamo indietro ad una remota onda 10

 

 

 

 

 

 

 

Nel 1981 Corliss pubblicò insieme a due collaboratori un

articolo intitolato ‘Ipotesi sulla relazione tra le sorgenti cal-

de sottomarine della vita sulla Terra’.

Più o meno nello stesso periodo, la classificazione degli or-

ganismi viventi subì una profonda trasformazione, che die-

de fondamento all’idea che la vita avesse avuto origine sulle

sorgenti calde sottomarine. Prima della fine degni anni 70, la

distinzione principale era stata quella tra i batteri, chiamati

anche ‘procarioti’, organismi unicellulari la cui cellula era pri-

va di nucleo e tutte le altre forme di vita. 

 

ora torniamo indietro ad una remota onda 10

 

Queste ultime, gli ‘eucarioti’, hanno, al contrario dei batteri, cel-

lule dotate di veri e propri nuclei. Presumibilmente evolutisi

più tardi, gli ‘eucarioti’, quando vengono classificati in base al-

la forma, alla funzione e alle dimensioni, sono suddivisi in quat-

tro regni, piante, funghi e alghe.

Alla metà degli anni sessanta il microbiologo Carl Woese aveva

cominciato a mettere ordine nel mondo dei batteri. Si trattava 

di una sfida non da poco in un periodo in cui il più auterevole

testo di batteriologia affermava: ‘L’obiettivo scientifico fonda-

mentale della classificazione biologica non può essere consegui-

to nel caso dei batteri’. 

Respingendo questa tesi, Woese la interpretò semplicemente 

nel senso che studiare al microscopio la forma, la funzione e le

dimensioni dei batteri non era sufficiente; egli pensava che le

tecniche innovative della biologia molecolare fornissero un nuo-

vo mezzo per affrontare il problema.

 

ora torniamo indietro ad una remota onda 10

 

Utilizzando nuovi strumenti, Woese concentrò la sua attenzione

su un particolare tipo microscopico di RNA di cui sapeva che ri-

siede nei siti intracellulari nei quali vengono assemblate le pro-

teine. Considerando il grado di sovrapposizione del materiale

genetico, riuscì a ricostruire l’albero genealogico dei batteri, cioè

il momento in cui due specie si erano separate. 

In pratica stava creando un cronometro batterico universale.

Nel 1976 uno dei colleghi di Woese suggerì di prendere in e-

same i metanogeni, ossia proprio quegli organismi che ave-

vano indirettamente causato la morte dei foramiferi. Woese

fu subito interessato perché i metanogeni hanno una grande

varietà di forme, potendo essere rotondi, a bastoncino o a

spirale. Hanno anche dimensioni molto diverse. 

 

ora torniamo indietro ad una remota onda 10

 

Ma, nonostante le differenze di aspetto, tutti i matanogeni

effettuano la medesima reazione chimica. Dunque la funzio-

ne era identica, ma non così la forma e la grandezza. Se il lo-

ro RNA fosse risultato simile quanto Woese si aspettava, es-

si avrebbero potuto fornire un’efficace conferma del suo nuo-

vo modo di classificare i batteri. 

Poi esplose la bomba.

Il sequenziamento genetico dei metanogeni non sembrava di

tipo batterico. Inizialmente cauto, Woese li classificò come ar-

cheobatteri. La maggior parte dei biologi non prese sul serio

il suo lavoro. Per dirla con un ricercatore, era ‘un eccentrico,

che usava una tecnica folle per rispondere a una domanda im-

possibile’.

Ma le prove in favore della sua tesi cominciarono ad accumu-

larsi via via che Woese e altri scienziati studiavano i dettagli

molecolari dei matanogeni. L”eccentrico’ stava diventando un

eroe. Abbastanza presto la parola ‘batteri’ fu lasciata cadere e

gli archeabatteri divennero noti semplicemente come ‘archea’,

una terza forma di vita, distinta sia dagli eucarioti che dai pro-

carioti.

 

ora torniamo indietro ad una remota onda 10

 

Una conferma spettacolare della correttezza del punto di vista

di Woese è stata fornita dalle tecniche genetiche più recenti.

Il matanogeno ‘Methanococcus jannaschi’ è stato uno dei primi

organismi il cui DNA sia stato completamente sequenziato.

I suoi geni sono per il 44% a quelli dei batteri o degli eucarioti,

ma per il resto sono del tutto differenti. Inequivocabilmente si

tratta di ‘qualcosa d’altro’.

‘Methanococcus jannaschi’ ha un altra caratteristica significati-

va. E’ un ipertermofilo che si sviluppa nel modo migliore a

temperature prossime a 80 gradi Celsius.

La vicinanza degli archea alle radici dell’albero della vita e la

dimostrazione della loro natura estremofila fanno pensare che

siano stati i primi microrganismi. Purtroppo, è raro che la bio-

logia evoluzionistica non lasci spazio ai dubbi.

Gli archeani sono assai più abbondanti di quanto in origine si

pensasse.

La scoperta degli archea e del loro stretto legame con i termofili 

non ha risposto agli interrogativi – come, quando e dove – relati-

vi alle origini della vita, ma ha modificato i parametri della….

discussione!

Gran parte della difficoltà di individuare con precisione le rispo-

ste, ha un’unica radice………..

(G. Segrè, A qualcuno piace freddo) 

 

 

 

 

 

 

ora torniamo indietro ad una remota onda 10

   

….MA E’ UN’ONDA …O UNA ‘PARTICELLA’? (8)

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c-e-molta-strada-da-fare-7.html

Prosegue in:

l-errore-di-einstein-9.html

Aggiornamento sugli esperimenti dei neutrini ore 20,00

del 23/02/2012:

ereditato-opera-neutrini-19415.html

 

 

ma è un'onda o una particella 8

 

 

 

 

 

 

Per risolvere questo paradosso, vi ricorderò un principio

fondamentale: per calcolare correttamente la probabilità

di un evento si deve ‘definire con chiarezza l’evento com-

pleto’, in particolare quali siano le condizioni iniziali e fi-

nali dell’apparato.

Si devono controllare gli strumenti di misura prima e do-

po l’esperimento e cercare le eventuali variazioni.

Quando prima calcolavamo la probabilità che un fotone

da S a D senza rivelatori in A e in B, il fenomeno consiste-

va semplicemente nello scatto del rivelatore in D.

Quando tale scatto era l’unico cambiamento nell’apparato

di misura, non c’era modo di conoscere il percorso scelto

dal fotone e si osservava interferenza. 

Mettendo rivelatori in A e in B, abbiamo cambiato il proble-

ma.

Adesso ci sono ‘due’ eventi completi, cioè due insieme di

condizioni finali, distinguibili:

1) scattano i rivelatori in A e in D;

2) scattano i rivelatori in B e in D.

Essendovi diverse condizioni finali possibili, si deve calcola-

re la probabilità di ciascuna di esse come evento separato e

completo.

Per calcolare la probabilità che vi sia uno scatto nei rivelatori

in A e in D, si devono moltiplicare le frecce che rappresentano

i seguenti passi: un fotone va da S ad A, poi da A a D e il rive-

latore in D scatta.

Il quadrato della freccia finale dà la probabilità di questo even-

to. Essa risulta l’1% cioè la stessa di quando il foro in B è chiu-

so, perché ambedue i casi si hanno gli stessi passi.

L’altro evento completo è lo scatto dei rivelatori in B e in D.

La relativa probabilità si calcola in modo analogo e anch’essa

è circa l’1%, la stessa di quando A è chiuso.

Se si vuole sapere con che frequenza ticchetta il contatore in D

e non interessa se nel contempo è scattato A o è scattato B, la

probabilità è la semplice somma delle probabilità dei due even-

ti: il 2%.

Anche nei casi in cui si trascura qualcosa che ‘avrebbe potuto’ 

essere osservato per discriminare il percorso seguito dal foto-

ne, siamo di fronte a ‘stati finali’ differenti, cioè a condizioni fi-

nali distinguibili, e si devono sommare le ‘probabilità’ relative 

a ciascuno di essi, non le ampiezze.

(R. Feynman, QED)

 

 

 

 

 

ma è un'onda o una particella 8

 

UN MONDO ALLO SPECCHIO (6)

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un mondo allo specchio 6

 

 

 

 

 

 

 

 

La teoria di Dirac fu accolta con diffidenza e talora, soprattutto

in Francia, con viva resistenza.

Per rispondere alle critiche in merito all’instabilità associata alla

sua equazione, Dirac immaginò che tutte le risoluzioni di energie

negative fossero in effetti accupate da particelle e che, per osserva-

re una particella di energia negativa, bisognasse anzitutto comin-

ciare a sloggiare una particella installata in uno di quegli stati di

energia negativa.

Un osservatore penserebbe allora di vedere due particelle, mentre

in realtà osserverebbe solo la particella espulsa, passata nel campo

infinitamente vasto delle energie positive, e il ‘buco’ lasciato dietro

di sé.

 

un mondo allo specchio 6

 

Questa interpretazione, presto denominata ‘mare di Dirac’ per de-

scrivere l’oceano dei livelli di energia negativa già riempiti, ha l’

inconveniente di attribuire alla particella statuti diversi a seconda

che sia di energia positiva o negativa. Peciò oggi non la si utilizza

più.

Negli anni venti, il mondo delle particelle, che era ancora all’inizio

della sua esplorazione e limitato alla materia ordinaria, pareva che

potesse essere costruito a partire da soli protoni, elettroni e neutro-

ni. Per un criterio di economia, ovvero quello di non introdurre nuo-

ve particelle inutili, Dirac cercò di approfittare di questa dissimetria

introdotta dal modello del mare e formulò l’ipotesi che le particelle

di energia negativa, i buchi, fossero dei protoni.

 

un mondo allo specchio 6

 

Ma il matematico tedesco Herman Weyl fece ben presto notare che,

nella misura in cui l’equazione di Dirac trattava in modo perfetta-

mente simmetrico le risoluzioni di energia positiva e negativa, era

necessario che avessero masse rigorosamente uguali.

Quattro anni dopo, nel 1932, il fisico americano Carl Anderson con-

fermò clamorosamente questa ipotesi, individuando nella radiazio-

ne cosmica una particella che aveva la stessa massa dell’elettrone

ma carica opposta. Si osservò ben presto che indietreggiando nella

materia il positrone si disintegrava in due fotoni gamma che, come

vedremo, sono la propria particella. 

 

un mondo allo specchio 6

 

La scoperta del positrone comportò una nuova ipotesi, quella dell’

esistenza di un’antiparticella gemellata a ogni particella e di un…

mondo specchio finora inosservato. 

Dopo questa scoperta, passarono successivi 23 anni, prima che Emi-

lio Segré, Owen Chamberlain, Clyde Wiegand e Tom Ypsilantis sco-

prissero, nel 1955, l’antiprotone e, un anno dopo, l’antineutrone.

In entrambi i casi, la scoperta fu realizzata non più osservando la ra-

diazione cosmica, ma utilizzando un acceleratore di particelle cos-

truito allo scopo di creare l’antiprotone.

Dopo queste due successive scoperte, si sarebbe potuto pensare che

l’attività si sarebbe fermata lì, poiché le tre particelle di base a parti-

re dalle quali è possibile costruire tutta la materia ordinaria aveva-

no trovato la propria antiparticella. Ma nel trentennio trascorso fra

 

un mondo allo specchio 6

 

la scoperta del positrone e la realizzazione di un acceleratore di 

particelle abbastanza potente da fabbricare l’antiprotone furono sco-

perte nella radiazione cosmica altre particelle instabili, come il muo-

ne e il kaone, che allora avevano nomi diversi dagli attuali.

Negli anni sessanta, con l’aumento della potenza degli accelleratori

di particelle, fu scoperto un autentico zoo di particelle, il quale la-

sciava intendere che la loro fisica era assai complessa, forse non me-

no della chimica, con le sue miriadi di composti.

E dopo queste scoperte, fino ai giorni nostri, quando rileviamo che

la velocità……….

(G. Chardin, L’Antimateria)

 

 

 

 

 

 

un mondo allo specchio 6

   

PAGINE DI STORIA IN RIMA

 

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Frammenti in rima

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pagine di storia in rima

 

 

 

 

 

 

Come nel precedente post (Dialoghi…), approfitto

per la breve presentazione del mio nuovo libro.

Lo faccio con un Frammento ‘storico’ del Vangelo

di Tomaso:

 

(50) Gesù disse:

‘Se vi domandano (essi nella luce, costringendovi

alle tenebre…):

‘Donde venite?’.

Rispondete loro (nel buio dove vi hanno costretti…):

‘Siamo venuti alla luce, dal luogo ove la luce nacque

da se stessa; si eresse e si manifestò nella loro imma-

gine’.

Se vi domandano:

‘Chi siete voi?’.

Risponderete:

‘Noi siamo suoi figli, noi siamo gli eletti del Padre

vivo’.

Se vi domandano:

‘Qual è il segno di vostro Padre in voi?’.

Risponderete:

‘E’ il movimento e il riposo’.

 

 

 

 

 

pagine di storia in rima

 

QUELLI DELLO SPIELBERG (2)

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Silvio Pellico, ‘Le mie prigioni’: 

quelli dello spielberg 2

Le_mie_prigioni

 

 

quelli dello spielberg 2

 

 

 

 

 

 

 

 

….Il processo si concluse con la condanna a morte del Pellico.

Poi intervenne la grazia e la pena capitale fu commutata nel

carcere a vita nella fortezza dello Spielberg.

Lo Spielberg era una vecchia e tetra fortezza appollaiata in

vetta a un’altura che domina Brno. A popolarla per primi

erano stati i condannati del processo Villa: Foresti, Solera,

Oroboni, Fortini, Munari, Bacchiega.

Poco dopo vi erano giunti Maroncelli e Pellico, cui dobbia-

mo la minuta descrizione di quel plumbeo carcere.

 

quelli dello spielberg 2

 

Le celle erano antri sotterranei, stillanti umidità e senz’altro

mobilio che un tavolaccio e una brocca d’acqua. Regola e  

dieta erano così dure che, se i guardiani avessero dovuto

applicarle alla lettera, nessun prigioniero vi avrebbe soprav-

vissuto. Per fortuna erano gente del posto, buoni diavoli che

in fondo simpatizzavano con le loro vittime e il poco che po-

tevano per alleviargli la pena e arrotondargli il rancio, lo fa-

cevano.

I detenuti li secondavano arrangiandosi, da buoni italiani,

in mille modi. Alcuni si specializzarono in maglieria per ri-

pararsi alla meglio dal freddo. Maroncelli riuscì a ricavare 

materiale per scrivere ingommando con mollica di pane 

sciolta nell’acqua i fogli di carta igienica, fabbricando pen-

nini con lische di pesce e inchiostro con residui di medici-

nali. Dapprincipio i prigionieri vennero tenuti in stretto i-

solamento, senza contatti fra loro. 

 

quelli dello spielberg 2

 

Ma poi furono messi due a due per mancanza di spazio.

Confalonieri ebbe un trattamento speciale: gli furono conces-

se due celle, le migliori, e il diritto di scegliersi il compagno.

Moretti, che invece si era condotto con magnifico coraggio, 

ora dava segni di squilibrio, in tutti vedeva traditori e dela-

tori, e ogni poco piombava in cupe crisi di disperazione.

Col mondo esterno, nessuno aveva rapporti.

Le giornate scorrevano vuote e uguali: a riempirle c’era so-

lo la disperata lotta per sopravvivere alla fame e al freddo.

Ma non tutti ci riuscirono, molti morirono in mezzo agli

stenti.

Pellico e Maroncelli furono liberati solo dopo nove anni,

quando ormai erano ridotti a rottami. 

(Indro Montanelli, Storia d’Italia)


 

 

 

 

 

 

quelli dello spielberg 2

 

IL DOTTOR COOK (intermezzo artico)

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intermezzo artico

 

 

 

 

 

Quell’autunno, Peary ricevette una visita da Vilhjalmur Stefansson,

un antropologo islandese ventottenne di origini canadesi, tornato di 

recente dalla sua prima spedizione; scopo del viaggio era stato quel-

lo di trovare un continente misterioso che si pensava fosse situato a

nord dell’Alaska.

 

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Affondata la nave, non avevano fatto molti progressi in slitta – si erano

fermati ad appena 160 chilometri dallo Yukon, a nord, e avevano fatto

dietrofront.

Stefansson riferì a Peary di alcune voci che gli erano giunte in Alaska:

la gente del posto si era molto risentita davanti al comportamento dell’

outsider che affermava di aver conquistato la ‘loro’ montagna; dicevano

che era assolutamente impossibile che Cook avesse raggiunto la vetta.

 

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Peary liquidò la notizia, considerandola un pettegolezzo maligno,

e disse all’antropologo di conoscere bene Cook, ‘un uomo d’onore’.

Poco tempo dopo, tuttavia, gli giunse un’altra voce che decise di

prendere seriamente. Si trattava di una notizia tremenda: l’ex colle-

ga, il medico che l’aveva accompagnato nelle prime spedizioni, si

trovava in posizione per sferrare un attacco al Polo; e la ‘Roosevelt’

non era nemmeno in grado di lasciare il porto.

Quando John Bradley, il brillante giocatore d’azzardo, era tornato

dalla Nuova Scozia dopo la battuta di caccia, rilasciò interviste ai

giornali sugli ambiziosi piani di Cook: sulle prime pagine delle

testate di tutto il paese campeggiavano titoli come questo apparso

sul ‘Boston Herald’ del 2 ottobre 1907:

 

 

IL DR. F.A. COOK TENTERA’ DI CONQUISTARE IL POLO,

 

                         PER BATTERE PEARY SUL TEMPO

 

 

Cook è sbarcato a Etah con le provviste e in primavera proverà a

compiere l’impresa che ha frustrato le speranze degli esploratori

di tutto il mondo.

Due giorni dopo il ‘New York Times’, citando la dichiarazione di

Bradley a proposito della spedizione di Cook, ‘che aveva provviste

sufficienti per due anni, cani e slitte’, pubblicò un editoriale che, in

breve, recitava così:”Il fatto che Cook sia partito per primo non è poi 

così importante. Peary si batterà….

E’ a uomini come loro che dobbiamo guardare, per ottenere nuove

conoscenze sulla geografia del Grande Nord. Il dottor Cook sa quel-

lo che fa, ed è partito con il piede giusto”.

 

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Persino la testata della città natale di Peary, il ‘Portland Press, da

sempre cronista entusiasta delle sue imprese, commentò:”L’ingegnere

resterebbe deluso, se dovesse raggiungere il Polo Nord soltanto per

scoprire che Cook l’ha preceduto”.

 

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I membri del Peary Arctic Club rimasero scioccati quando vennero a

sapere dei progetti di Cook, dopo aver speso tempo, fatica e denaro 

per sostenere il loro socio. Gli amminastratori tennero una riunione

d’emergenza, cui presenziò lo stesso Peary.

Fino ad allora, Cook era stato considerato un amico, un collega nell’

ambito delle spedizioni artiche: dopotutto, il club aveva chiesto pro-

prio a lui di guidare la missione di salvataggio che aveva riportato a

casa lo stesso Peary nel 1901. 

A partire da quel momento, però, iniziò a essere visto sotto una luce

differente: era un rivale di cui tener conto, un concorrente in lizza per

il premio cui ambiva il loro candidato.

Al termine della riunione, venne inviata una lettera al Bureau inter- 

nazionale per le ricerche sui poli di Bruxelles, in cui venivano avan-

zate lamentele nei confronti delle tattiche del rivoltoso Cook, il qua-

le, tra le altre cose, veniva accusato di essersi intromesso senza auto-

rizzazione nella sfera d’influenza di Peary; per via del suo comporta-

tamento, si diceva, le sue imprese future non sarebbero state ricono-

sciute ufficialmente.

La firma in calce era di Robert E. Peary.

 

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All’ingegnere rodeva terribilmente quello che considerava un manca-

to rispetto dell’etichetta: come scrisse in una lettera indirizzata al ‘New

York Times’, Cook si era diretto a nord ‘sub rosa’ fino a Eath, ‘il luo- 

go che da due anni sceglieva come punto d’incontro e deposito per

le provviste’, e ‘stava sfruttando per i suoi scopi personali’ gli eschi-

mesi e i cani che avevano acquisito esperienza ‘sotto la guida e la

direzione’ di Peary; in pratica, stava sfruttando le risorse che quest-

ultimo intendeva adoperare nella prossima spedizione al Polo. 

Era degno di stima questo medico?

(B. Henderson, Vero Nord)



 

 

 

 

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