IL SUPERUOMO NEL WEST (2)

 

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‘A questo cupo quadro possiamo aggiungere un appassionato

amore del gioco d’azzardo, un’inclinazione innata alla simula-

zione, alla ghiottoneria ed a qualsiasi cosa possa lusingare la

sensualità’.

 

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Padre De Smet sarà intermediario fra le autorità americane e

i Sioux di Sitting Bull, che egli riuscì a cattivarsi, giungendo

fra loro, narra, con una bandiera di pace sulla quale campeg-

giava la Vergine Maria, così simile alla loro Vergine dei bi-

sonti; ma poiché la sua bonarietà seducente celava un così

radicale disprezzo, non è inverosimile quanto ancor poco

tempo fa i vecchi Sioux ripetevano: ‘I nerovestiti erano i mi-

gliori amici di Sitting Bull mentre era nella prateria, ma

quando venne all’agenzia furono i primi a rivoltarsi contro

di lui’.

 

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Il sommo naturalista Audubon seguì dal 1840 al 1843 gl’

itinerari del pittore Catlin e tenne un diario in cui rinfaccia

al suo predecessore la cooperiana benevolenza verso gl’In-

diani. 

Nulla in loro riconosce che non sia spregevole o ridicolo.

Ecco una tenda sciamanica:


Eravamo entrati in questa bottega d’antiquariato da parte

una pelle d’alce bagnata, stesa su quattro piuoli. Guardan-

domi attorno vidi un certo numero di recipienti, otto o dieci

teschi di lontre, due grossi teschi di bufalo con le corna, chia-

ramente di un’età assai avanzata, e alcuni bastoni e altri stru-

menti magici coi quali un gran mago ha dimestichezza.

Durante la mia spedizione un Indiano sedeva curvo e acco-

sciato, avvolto in una coperta sudicia da cui spuntava soltan-

to la sozza testa.


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Gl’Indiani affamati e sudici mangiano animali putrefatti e

Audubon esclama: “Ah, signor Catlin! Mi dispiace di vedere

e leggere i ragguagli che deste degl’Indiani incontrati.

Di praterie soffici come tappeti, di lontani vellutati paesag-

gi’ non ne abbiamo visti”.

Ogni contatto con l’Indiano è revulsivo: s’accostano alcuni

celebri guerrieri, ‘il solo tocco delle loro mani è nauseoso,

sarà una liberazione davvero eliminare tutta questa ‘poesia

indiana’.

 

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Nel suo saggio su Concord a distanza di un secolo dalle ul-

time vicende missionarie, colui che per tanta parte fu l’epi-

gono dello spirito puritano, Ralph Waldo Emerson, rammenta

la patente del Massachusetts che imponeva di attendere alla

conversione, ma dipinge l’Indiano quale ancora puritanamente

gli appariva, un remoto mistero, parte della natura inconverti-

bile:

 

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‘L’uomo della foresta ben può attrarre la compassione dei coloni.

La sua figura dritta e perfetta, benché mostrasse qualche irrego-

lare virtù, era congiunta a un’anima sminuita. Padrone d’ogni 

arte boschereccia pareva parte della foresta e del lago, ed il se-

greto della sua stupefacente perizia pareva la sua partecipazione

alla natura ed ai feroci istinti delle bestie che uccideva. Coloro

che abitavano presso i laghi ed i fiumi avevano qualche traccia

di civiltà, ma i cacciatori della tribù si svelarono intrattabili al

catechismo. Thomas Hooher, anticipando le opinioni di Hum-

boldt, li chiamò ‘rovine dell’umanità’. 

(E. Zolla, I letterati e lo sciamano)






 

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RICORDI DI GUERRA (2)

 

ricordi di guerra 2



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ricordi di guerra 2






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ricordi di guerra 2

NON SOLO ERETICO MA ANCHE APOSTATA

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Vale forse la pena di indagare come il corpo circolare possa

contenere le cause incorporee delle forme materiali.

Infatti, è chiaro ed è evidente di per sé che, prescindendo da

queste cause, la generazione non può sussistere.

Perché, infatti, c’è una tale molteplicità di cose soggette al

divenire?

Quale origine ha la differenzazione del sesso maschile da

quello femminile?

Da dove proverrebbe il carattere distintivo degli esseri secondo

forme determinate, se non vi fossero ragioni preesistenti e pres-

tabilite e cause predeterminate a fungere da modello?

Se noi le percepiamo solo con difficoltà, cerchiamo di purificare

ulteriormente gli occhi dell’anima.

La vera purificazione consiste nel ripiegarsi su sé stessi, e nel

riflettere come l’anima e l’intelletto materiale siano una sorta

di calco e di modello delle forme materiali.

Infatti, non esiste nulla di corporeo, o un solo fenomeno riguar-

dante i corpi, che sia concepito come incorporeo, di cui l’intelli-

genza non possa farsi rappresentazione incorporea: questo non

potrebbe avvenire se non possedesse qualche elemento natural-

mente connesso con le forme incorporee.

E appunto per questa ragione, Aristotele chiamò l’anima ‘il luogo

delle forme’ se non in atto, almeno in potenza.

Un’anima simile, che è rivolta al corpo, deve necessariamente

possedere queste forme in potenza. ma, se un’anima è indipen-

dente e immune da mescolanza, dobbiamo ritenere che contenga

tutte le ragioni non in potenza, ma in atto.

Cerchiamo di chiarire queste considerazioni con l’esempio utiliz-

zato dallo stesso Platone nel Sofista benché per un altro fine.

Platone a un certo punto osserva che, se qualcuno che si occupi

diimitazione desidera imitare l’originale così che questo sia ripro-

dotto esattamente, un simile tentativo gli riesce faticoso e difficile

e giunge, per Zeus, ai limiti dell’impossibile, mentre l’imitazione,

che si limita a riprodurre l’apparenza della realtà, è piacevole,

facile e certamente conseguibile.

Così, dunque quando prendiamo uno specchio e lo facciamo


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ruotare, cogliamo facilmente le immagini di tutti gli oggetti e

mettiamo in evidenza i contorni di ciascuno.

Da quest’esempio risaliamo all’analogia di cui dicevo, e lo

specchio stia per quello che Aristotele chiama luogo delle

forme in potenza.

Certo, le forme stesse debbono sussistere in atto prima che in

potenza. Perciò, se l’anima che è in noi contiene in potenza, co-

me pensa Aristotele, le forme degli esseri, dove collocheremo

queste forme nel loro stato primario di attualità?

Forse negli esseri materiali?

Certo no, poiché si tratta manifestatamente di esseri di infimo

ordine.

Non resta che ricercare cause immateriali in atto e prestabilite

agli esseri materiali. La nostra anima, coesistendo e procedendo

con loro, ne riceve necessariamente le ragioni delle forme, come

gli specchi le immagini degli oggetti, e quindi grazie alla natura

li trasmette alla materia e a questi corpi materiali.

Noi, in effetti, sappiamo che la natura è creatrice dei corpi poiché,

nella sua totalità, è creatrice dell’universo, mentre è assolutamente

evidente che la natura individuale di ciascuno è creatrice degli es-

seri particolari.

Tuttavia, mentre la natura esiste in noi in atto senza rappresenta-

zione, l’anima, che è superiore ad essa, ha ricevuto la capacità di

rappresentazione.

Se ammettiamo dunque che la natura contiene in sé le cause di

cose, di cui peraltro non ha rappresentazione, perché, in nome

degli dei, non attribuiremo questo stesso privilegio all’anima,

e in un grado più alto e prioritario, dal momento che lo conce-

piamo con la rappresentazione e lo comprendiamo con la

ragione?

Chi poi sarà così amante delle controversie, da ammattere che

le ragioni esistono per natura, anche se non tutte ugualmente in

atto, almeno in potenza, e da non accordare d’altra parte questo

stesso privilegio all’anima?

Se perciò le forme eistono per natura in potenza ma non in atto

e anche nell’anima in potenza, ma a un livello più alto di purez-

za e di separazione, in modo tale che appunto si possono com-

prendere e riconoscere ma in atto da nessuna parte, a che cosa

attaccheremo la catena dell’eterna generazione?

Su che cosa fonderemo le nostre teorie sull’eternità del mondo?

Infatti anche il corpo circolare è composto da materia e forma.

Ne consegue di necessità che, sebbene in atto questi due fattori

non sussistono mai separati l’uno dall’altro, tuttavia per la nostra

mente le forme debbono sussistere in precedenza ed essere consi-

derate anteriori.

(Giuliano Imperatore, Alla madre degli dei)






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EPILOGO DEL ‘VIAGGIO’ (nel vasto territorio della storia…e non solo) (2)

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epilogo del viaggio 2







Per centinaia d’anni, gli aspetti secolari della società tibetana

furono mantenuti in equilibrio dal sistema monastico, che ser-

viva come centro di alti studi e iniettava nella comunità disci-

plina spirituale e valori.

Ma mentre Pemba discretitava la cinesizzazione del Tibet, la

sua stessa storia rivelava la fragilità di quella condotta cultura-

le tradizionale, che ha così spesso attirato la repressione politi-

ca del governo cinese a partire dagli anni 50.

 

epilogo del viaggio 2


In tutto il Tibet, ha fortemente ristretto a un numero simbolico

l’iscrizione nei monasteri. Parecchi monaci raccontavano di es-

sere stati buttati fuori o esclusi dai quei luoghi santi per colpa

delle quote di governo.

La religiosità alimentava il nazionalismo e in più, secondo i

cinesi, il monacato era uno sforzo economicamente improdut-

tivo perché allontanava dall’economia elementi capaci: una

posizione piuttosto risibile, se consideriamo le difficoltà di

tibetani come Pemba nel trovare lavoro.

Contemporaneamente, continuava la manipolazione politica

dei monasteri.

 

epilogo del viaggio 2


Un monaco che studiava a Sera, uno dei due grandi centri del-

la valle di Lhasa, parlò di una crescente campagna di ‘rieduca-

zione’ durante l’autunno del 2006, nella quale i funzionari cine-

si ordinavano che i monaci studiassero cinque libri di teoria

telogica del comunismo cinese.  

I monaci erano regolarmente interrogati dai funzionari cinesi

sulla situazione delle loro opinioni politiche e costretti a scon-

fessare ripetutamente la propria fedeltà al Dalai Lama in ses-

sioni che potevano essere difficili e spesso violente, proprio

come ai tempi della Rivoluzione culturale.

 

epilogo del viaggio 2


Mi raccontò che, alcune settimane prima, un suo confratello

del monastero di Drepung si era suicidato in segno di protesta.

In generale, erano state eliminate le posizioni degli insegnanti,

e il sistema di istruzione indipendente del Tibet era stato canni-

balizzato dal governo centrale.

Considerando il contesto delle politiche di uso delle aree rurali

e delle leggi di tassazione, secondo Pemba era difficile non pen-

sare che quelle politiche religiose non facessero parte di una

più vasta campagna per annientare l’identità tibetana.

….Quando iniziò ad addentrarsi in temi più delicati, arrivò un

suo caro amico, un cinese che lavorava per una banca statale.

Si strinsero la mano e si sorrisero con affetto.

 Dovrei spiegargli di che cosa stavamo parlando,

dissi a Pemba, sperando che avrebbe tradotto.

– ….No, non devi, mi rispose.

E così finì la conversazione…..

(Con la certezza che il principio ‘cinese’ della politica coniugato

con il progresso, non dimora solo in questi luoghi narrati…….

di questo ‘Viaggio’…..).

(A. Lustgarten, Il grande treno)






 

epilogo del viaggio 2

 

L’ ‘ERACLIO’ DELLA STORIA (3)

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l'eraclio della storia 3








….Ad essa sempre nuove se ne aggiungono per una lapide d’infamia

su cui incidere il ricordo della memoria.

In ciò Eraclio è maestro e signore.

Maestro nel dire nel potere che il Signore dispensa dall’alto del feudo.

Maestro di recitare nel grande palcoscenico dove assieme sovrintendo-

no il Tempo.

Maestro nel dispensare, nel dare e togliere al mercato del sapere.

Maestro di interpretare, ingannare, sindacare, umiliare, ed anche….

confortare, dall’alto della giustizia convinto di amministrare.

Signore e padrone delle vite altrui che indaga e amministra distribu-

endo meriti e verità.

Signore della verità sposato felicemente con la falsità che ogni con-

fratello indossa come un doppio sigillo per la certezza della conti-

nuità.

Signore dell’essere ed apparire.

Signore della pace e della guerra.

Signore di ogni intrigo.

Signore di ogni spia e signore di ogni Cristo.

Signore del Tempo e della Memoria.

Signore dell’Idea, quando essa è divenuta parola da sindacare &

manipolare.

 

l'eraclio della storia 3


Maestro poi dello stesso pensiero che ci restituisce a piene mani

dall’alto del suo (presunto) sapere.

Signore del Paradiso e dell’Inferno, nell’eterno Purgatorio dove

regna.

Signore della grammatica comandata e distribuita a pene mani

nell’esercizio del lento deambulare della sua lingua antica.

Signore dell’acqua e del fuoco nella vasta geografia che vorrebbe

governare. 

Signore della nostra veglia e del nostro sonno, nella libertà che

ci racconta.

Maestro della parola nella stretta confraternita dove confonde il

diritto con il privilegio.

Signore delle nostre Dimore e delle nostre Chiese.

Maestro di ogni Diavolo che tenta di svelare l’inganno nuovo fuori

dal grande Pulpito.

Maestro dell’oratoria e della politica che allo stesso pulpito inchina

la testa.

Maestro dell’immutato e Signore del divenire mentre nella grande

mensa della politica scorre da un convento all’altro per il cosoloda-

mento di ciò che lui chiama Potere.

…..Ma noi chiamiamo Inganno…..

(Giuliano Lazzari, Dialoghi con Pietro Autier)






 

l'eraclio della storia 3

 

UN MONASTERO (2)

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un monastero 2

 

 

 

 

 

 

Veramente il capo supremo del monastero non è lui.

Ora mi spiegherò: capo supremo del monastero è un personaggio

di nome ‘Thupden Oden’ (Luce perpetua della dottrina di Budda).

Questi visse circa cento anni or sono e la sua esistenza terrena fu

distinta da tanta santità, da tale veggente saggezza, da segni cospi-

cui di vicinissima e finale illuminazione che, dopo morto, lo si

considera un ‘Bodhisattva’.

 

un monastero 2

 

Grande e bella cosa per un monastero avere un vero ‘Bodhisattva’

come capo supremo! E’ come ospitare un ambasciatore dell’Asso-

luto od avere un proprio rappresentante nelle aule adamantine

del cosmo.

E’ un contratto sicuro e consolante con l’indubitabile e l’inamovibile.

In che modo è tornato fra gli uomini ‘Thupden Oden’?

Poco dopo la sua morte s’è incarnato in un altro corpo, in quello

d’un bambino; è dunque rinato, e la sua presenza in questa seconda

veste terrena è stata rivelata da miracolosi avvenimenti.

Il bambino è poi cresciuto, è stato educato con cure speciali nel mo-

nastero ed a Lhasa, è divenuto uomo, ha retto per molti anni le sorti

della comunità, infine anche lui è morto.

 

un monastero 2

 

Alcuni anni fa (1937) ‘Thupden Oden’ si è reincarnato per la seconda

volta, comparendo di nuovo nella persona d’un bimbo. Non vi sono

mai state, nel senso nostro delle parole, morte e nascita, ma dei tra-

passi della medesima essenza spirituale, del medesimo ‘Bodhisat-

tva Thupden Oden’ da un soggiorno di carne e sangue ad un altro.

Così adesso egli guarda il mondo dagli occhi d’un gracile e penso-

so ragazzo di nove anni. 

Nel frattempo fin quando sarà maggiorenne, la direzione temporale

della comunità aspetta al reggente, al ‘Rimpoché Nge-Drup Dorje’.

Più avanti vedremo come tutto questo si ripeta, in maniera incom-

parabilmente più splendida, nel caso del Dalai Lama e del governo

stesso del Tibet.

 

un monastero 2

 

Mentre attendiamo il Gran Prezioso, un giovane lama di nome Ton-

gye (Alto scopo) mi conduce a visitare le cappelle del convento.

Riguardo a Ton-gye: raramente ho visto nel Tibet una così perfetta

incarnazione dell’ideale di bellezza monastica.

E’ prestante ed imponente, porta i nerissimi capelli lunghi riuniti

con cura dietro al capo; i tratti del volto glabro hanno una serena

venustà mitologica, un po’ Noa-Noa; è timido e solenne, impaccia-

to ed augusto; il drappo togale di monaco gli ricade in pieghe 

classiche sul corpo.

Torniamo alla saletta.

Nella stanza acanto si sente quel rapido pesticcìo di piedi, quel 

concitato movimento di tonache e sottane, quei tesi e brevi silenzi

che preludono all’ingresso d’un importante personaggio ecclesias-

tico lungamente atteso.

 

un monastero 2

 

L’Om-tse si affaccia, mi dice di restare dove sono e di preparare la

sciarpa. E’ uso nel Tibet che, facendo visita ad una persona d’impor-

tanza, gli si doni una sciarpa bianca di seta; quegli allora ve ne rende

una simile; è uno scambio che va eseguito con molti inchini, con molti

sorrisi e con quei segni accuratamente studiati e graduati di deferenza

che tutti gli orientali curano ed amano.

Dopo qualche attimo sento il passo lento d’un uomo d’età in sandali;

è il Gran Prezioso che appare sull’uscio; è un vegeto colosso di 84 an-

ni, una vera quercia umana, la cui vivezza ed il cui tono intatto del-

le facoltà splendono nei due occhi furbi, desti, penetranti.

Terminata la visita al Gran Prezioso scendo con l’Om-tse per vedere

un momento il piccolo Bodhisattva vivente: ‘Thupden Oden’.

Dinanzi al monastero vero e proprio sta un’altra e minore costruzio-

ne in cui vivono il bimbo incarnato, i suoi professori ed i seminaristi.

Mi accoglie un grosso lama piuttosto giovane che sembra un cinese;

il grosso lama m’invita con modi molto cordiali a fermarmi nella sua

stanza per bere una tazza di tè. 

Il luogo è simpatico, si capisce subito che fra quelle mura vive uno

studioso. Da un lato, lungo il muro, giacciono dei grossi cuscini qua-

drati (den), alti un palmo, che costituiscono nel Tibet le sedie.

Forse su di essi il lama dorme la notte; di giorno vi si siede a gambe

incrociate. Ad un estremo, vicino alla finestra, sta il posto ordinario

di lavoro: un tavolino quadrato, basso, con molti libri, molte scartof-

fie, un calamaio, delle penne.

I libri tibetani sono lunghi, stretti, stampati a mano; le pagine vengo-

no tenute unite da due assicelle di legno e da un pezzo di stoffa che

le avvolge. Molti altri libri stanno appoggiati in un angolo, sopra un

secondo tavolo. Poi c’è un piccolo tabernacolo con delle offerte di ri-

so e di burro; alle pareti stanno appese delle ‘tangka’ (pitture su stof-

fa), di cui una di eccezionale eleganza: è tutta nera nello sfondo e 

porta dipinta, con  tratti in oro d’una vita gagliarda, la figura terrifi-

cante di ‘Palden Lha-mo. Cosa d’una raffinatezza estrema; capola-

voro di satanismo metafisico espresso in simboli.

Conversando mi accorgo subito che il lama sa moltissime cose, ch’è

una vera miniera d’informazioni; peccato aver fretta, dover ripartire

….E poi la stanzetta è così simpatica!

Vi si respira quella atmosfera serena, staccata dal mondo, dei luoghi

dove trascorre il tempo chi vive pel sapere e lo studio.

 

un monastero 2


 (RILETTURA del 1985 all’edizione del 1950:

Il miserando monastero,

Kar-gyu, come s’è già visto, è stato una delle tante vittime delle

violenze barbariche a cui i fanatici cinesi e ragazzini tibetani si

lasciarono andare tra il 1966 e il 1976, incoraggiati dal regime.

Quindi tutto ciò che si dice nel testo, riguardo per esempio al

numero dei monaci ‘che ci vivono’, alle 280 divinità diverse che

vi sono raffigurate in sculture e pitture, va inteso come riferito

al passato e per la precisione ad epoca anteriore agli anni 60.

Certo è che mai più si vivrà quella genuina atmosfera, così co-

me io ebbi modo di viverla. Le facili comunicazioni, la diffu-

sione di notizie, l’imitazione di costumi stranieri, l’arrivo di

energia elettrica, della benzina, della plastica, del gas liquido,

l’influenza della propaganda comunista e dell’indottrinamento

culturale cinese, avranno portato tali mutamenti di fondo da

rendere impossibile, o artificiale e posticcia, qualsiasi restau-

razione anche se genuinamente desiderata e sentita.)


Da:

 

un monastero 2


frammenti-in-rima.html

 

 

(Fosco Maraini, Segreto Tibet; Foto e disegni: Sven Hedin)

 

 

 

 

 

un monastero 2

    

LE ORIGINI (2)

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A questo punto si inserisce l’opinione degli antichi storici cinesi.

Per loro, i Tibetani propriamente detti, quelli il cui regno ha unificato

il paese all’alba della sua storia, I Tufan, sono un ‘ramo’ dei Qiang

(Chiang).

Questi Qiang sono noti attraverso documenti cinesi sin da circa il

XIV secolo avanti la nostra era, e fino ai nostri giorni. Erano dappri-

ma i vicini occidentali dei Cinesi (dinastie Shang e Zhou), a nord-

ovest della Cina. Intorno all’inizio della nostra era avevano popolato

le zone di confine sino-tibetane, dal Kokonor fino al Sichuan.

Nel momento in cui il potere regale tibetano dei Tufan faceva la

sua comparsa nello Yarlung, due importanti paesi di popolazione

Qiang occupavano l’attuale Kham, o Tibet orientale: il ‘Paese delle

donne’ e il paese di Fu.

Questi Qiang erano collegati a un’altra popolazione del nord-est

tibetano, i Sumpa (in tibetano) o Subi (in cinese), mentre più a nord,

nell’attuale Amdo, si sovrapponevano a una popolazione turco-

mongola venuta dalla Manciuria, i Tuyuhun (in cinese) o Azha

(tibetano) che vi avevano fondato un regno.

Questa popolazione mista, il cui territorio fu chiamato Minyag dai

Tibetani, si è conservata nella regione del Kokonor e nel nord-est

della Cina, ove si è organizzata in stato, il Xi Xia, dal 1032 al 1226.

In precedenza, ancor prima dell’arrivo di queste popolazioni turco-

mongole, i Qiang avevano assorbito, nella medesima regione, i resti

di un popolo indoeuropeo, gli Yuezhi, i quali erano stati costretti,

all’inizio della nostra era, ad emigrare ad ovest.

Toscari o Indosciti, essi fondarono stati importanti che, a loro volta,

hanno lasciato tracce alla frontiera del Tibet. Gruppi di Qiang vivo-

no ancora oggi sulle montagne delle zone di confine sinotibetane;

hanno lingua, credenze e costumi di fatto affini a quelli Tibetani.

E, come i Tibetani, si dicevano, già nel VII secolo, discendenti da

una scimmia; hanno in comune con i Tibetani un elemento impor-

tante delle loro concezioni relative al capostipite e al Cielo, e in

esse il montone bianco e la scimmia svolgono un ruolo di primo

piano; infine, è appunto presso di loro che gli storici cinesi segna-

lano sin dal VII secolo alcune costruzioni monumentali in pietra,

sorte di torri o case fortificate, ancor oggi frequentati nelle loro

terre, ma che si trovano anche nel Kongpo e nel Lhobrag, e sem-

brano essere i prototipi dell’architettura tibetana in generale.

E così, l’idea che bisogna farsi degli antichi Tibetani è un po’ di-

versa da quella che più spesso viene in mente quando si parla di

nomadi, allevatori di yak e di cavalli sulle steppe degli altipiani

del nord.

Si dovrebbe pensare, piuttosto, ad alpeggi ai margini di fitte fo-

reste, e ad uomini che frequentano entrambi gli ambienti. Non che

il grande allevamento, tipico dei pastori del nord, non sia divenuto

ben presto una parte integrante della civiltà tibetana: il regno tibe-

tano dello Yarlung, sviluppatosi, estese rapidamente il suo potere

verso il nord-est; Sumpa e Azha furono sottomessi e presto assimi-

lati (VI-VII secolo), e finirono con l’essere niente altro che clan e 

distretti tibetani.

Sin da allora troviamo, nei testi di poco posteriori, lunghi racconti

folkloristici sulla inimicizia fra cavalli e yak.

(R.A. Stein, La civiltà Tibetana)

 

 

 

 

 

 

le origini 2

    

….PRENDETE E MANGIATENE TUTTI…..(2)

 prendete e mangiatene tutti 2

 

 

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prendete e mangiatene tutti 2

 

 

 

 

 

 

Il tantrismo indo-tibetano ha spiritualizzato ancor più

radicalmente lo schema iniziatico della ‘messa a morte’

per mano dei demoni.

Ecco alcune meditazioni tantriche eventi per oggetto lo

spogliamento del corpo dalla sua carne e la contempla-

zione del proprio scheletro.

Lo yogi deve raffigurarsi il corpo come un cadavere e la

propria intelligenza come una Dèa….irritata, ad una faccia

e con due mani che reggono un coltello e un cranio.

‘Pensa che ella tronca la testa al cadavere e ne fa a pezzi

il corpo, gettando questi pezzi nel cranio come una offer-

ta alle divinità’. 

Un altro esercizio consiste nel veder se stessi come ‘uno

scheletro bianco, luminoso ed enorme, donde si sprigiona-

no tali fiamme da riempire il Vuoto dell’Universo’.

Infine una terza meditazione propone allo yogi di contem-

plarsi come se egli fosse trasformato in una ‘dakini’ irata

in atto di strapparsi la pelle dal corpo. 

Il testo continua: ‘Stendi questa pelle in modo da ricoprire

l’Universo…..Su di essa ammucchia tutte le ossa e tutta la

tua carne. E quando gli spiriti malvagi del male godranno

in questo mondo….tutti dalla testa, immagina che la ‘dakini’

irata prende la pelle, l’arrotola….e la scaglia per terra così

violentemente da ridurla, insieme al suo contenuto, ad una

poltiglia di carne e di ossa che orde di belve, prodotte men-

talmente…..divoreranno….’.

(Mircea Eliade) 

 

 

 

 

 

prendete e mangiatene tutti 2

 

L’ALTRA MURAGLIA

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l'altra muraglia

 

 

 

 

 

 

Come vero baluardo la Muraglia non aveva senso.

Unni, mongoli, manciù la travolgevano quasi a loro piacimento.

Il sinologo Owen Lattimore ha azzardato l’ipotesi che fosse stata

costruita più per tenere dentro i cinesi che fuori i nomadi.

Forse, inconsapevolmente, era più una grandiosa presa di

posizione che non una difesa fisica.

Separava la civiltà dalla barbarie, la luce dalle tenebre.

Era un atto di vibrante nagazione: laggiù non è ciò che siamo.

Ed era impregnata di paura.

Vi furono murati cadaveri per respingere gli avidi spiriti del

deserto.

Come i russi scaricavano i loro condannati in Siberia, così i cinesi

rigettavano nelle zone di confine tutti i rifiuti del Celeste impero:

i dissidenti, i criminali, perfino gli sciocchi. E così facendo si

purificavano.

 

l'altra muraglia

 

Perciò la desolazione nella quale Lao Tzu cavalcava il suo bufalo

nero ha messo radici nell’inconscio dei cinesi come un simbolo di

mortalità. Credevano che tutti i loro dèi vivessero in città cinte

da mura come le loro, e in palazzi anch’essi cinti da mura.

Tra questi, il Dio delle Mura e dei Fossati era il dio della morte.

Sussurrava alla gente quando doveva varcarli.

Ma sebbene la paura permanesse, la frontiera spesso non costitui-

va affatto una limitazione. All’epoca dell’espansione imperiale i

cinesi si spingevano in massa molto oltre di essa. 

 

l'altra muraglia

 

La linea frammentaria di una fortificazione della dinastia Han

si estende per altri 480 chilometri a ovest della Muraglia. A quel

tempo i condannati esuli diventavano schiavi agricoli, oppure

lavoravano nelle miniere imperiali oltre la Muraglia, e i 

funzionari caduti in digrazia venivano assegnati in prova a

remote destinazioni.

In altre epoche, quando la Cina cominciò a indebolirsi, il temuto

deserto vi irruppe non per distruggerla, ma per ricostituirla.

Come il quasi mistico Imperatore Giallo, le sue grandi dinastie 

unificatrici – i fondatori Qin, i Sui, i Tang, gli Yuan – in origine

non erano affatto cinesi, ma erano giunti tra nugoli di polvere

dal Nord e dall’Ovest barbari.

Qui a Jiayuguan, dove terminava la Grande Muraglia, il leggenda-

rio isolamento della Cina andava a pezzi. Il deserto esalava una

promessa che ne bilanciava gli orrori. Da qualche parte al di 

là delle distese brulicanti di demoni c’era un paradiso montano

dove la Regina Madre dell’Occidente presiedeva un giardino

di immortali; e mentre le prime carovane partivano con i loro

rotoli di seta e di altri filati, i mercanti cominciarono a tornare

con prodotti di origini ignote.

 

l'altra muraglia

 

Per secoli la Cina e l’Occidente continuarono a non sapere 

nulla l’una dell’altro. Proprio come i romani, che conoscevano

il cotone, immaginavano che la seta crescesse sugli alberi, i

cinesi, basandosi sui bachi da seta, immaginavano che il 

cotone fosse prodotto da un animale. 

Perciò immaginarono l”Agnello Vegetale’, una creatura che

spuntava fuori dal terreno dove pascolava segretamente di

notte, e generava dei piccoli ricoperti di cotone.

Per i romani gli sperduti cinesi erano un popolo remoto, felice,

e allo stesso tempo, dapprima in maniera vaga, in Cina si

diffusero le voci di una potente monarchia elettiva al di là

della Persia i cui sudditi erano onesti e pacifici.

(C. Thubron, Ombre sulla Via della Seta)

 

 

 

 

 

l'altra muraglia

      

QUEL TRENO PER LHASA (2)

 quel treno per lhasa 2

  

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Un libro monastico ‘proibito’:

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quel treno per lhasa 2

 

 

 

 

 

 

 

Nemmeno una settimana più tardi, gli animi si infiammarono 

ancora di più quando i funzionari cinesi annunciarono che la

persona designata come reincarnazione del leader religioso 

avrebbe dovuto essere approvata dal Consiglio di Stato. 

Il fatto che la Cina negasse il diritto tibetano di scegliere l’un-

dicesimo Panchen Lama fu interpretato non solo come un atto

di disprezzo nei confronti di un processo religioso sacro, ma

anche come rifiuto di ogni concessione di autonomia politica.

 

quel treno per lhasa 2

 

Nelle settimane che seguirono, quasi ogni giorno Lhasa fu

teatro di disordini di piccola entità.

Il 5 marzo 1989, mentre si avvicinava l’anniversario della rivolta

tibetana del 1959, un piccolo gruppo di monache e monaci per-

corse il Barkhor reggendo una bandiera del Tibet disegnata a

mano.

Secondo testimoni oculari, cantavano: ‘Il Tibet è indipendente.

La nostra è una manifestazione pacifica. Per favore, non usare

la violenza’.

La protesta si allargò, subentrò il disordine e i militari cinesi

spararono tra la folla. Soprattutto in Tibet, la fiducia della Cina

era andata completamente sprecata. A Pechino, i partiti conser-

vatori dichiararono che lo spazio concesso dalle politiche libe-

rali degli anni 80 era stato il catalizzatore della resistenza tibe-

tana.

 

quel treno per lhasa 2

  

Le misure disciplinari di Hu Jintao furono strettissime.

In tutto il Barkhor furono installate telecamere di sorveglianza

e Lhasa fu avvolta da un massimo stato di sicurezza. L’espansio-

ne e le attività dei monasteri furono fortemente limitate. Gli inizi

degli anni 90 furono piuttosto tranquilli, anche se punteggiati

da occasionali proteste che erano accolte con repressioni su pic-

cola scala per ricordare ai tibetani che i discorsi politici non sareb-

bero stati tollerati.

La politica di Hu fu definita ‘governo con due mani’: lo stato di

controllo fu strettamente mantenuto con la forza, in modo che

gli obiettivi di sviluppo economico e industrializzato potessero

essere portati avanti con vigore.

 

quel treno per lhasa 2

 

Nel mirino della strategia di controllo cinese c’era la religione.

Hu Jintao riteneva che la diffusione della religione in Tibet fosse

del tutto inconciliabile con gli obiettivi delle ‘quattro moderni-

zazzioni’ che definivano la politica economica cinese: la religione,

come sostenevano lui e molti altri conservatori, coltivava il nazio-

nalismo.

I tibetani dovevano creare un mercato basato sui beni materiali,

non pregare i Buddha dorati o il Dalai Lama, la cui testimonianza

in tutto il mondo dava parecchio fastidio a Pechino.

 

quel treno per lhasa 2

 

Gli antitodi, espressi all’inizio degli anni 90 attraverso un flusso

continuo di politiche, erano la privatizzazione e l’incorporazione

di popolazione che incoraggiavano la migrazione degli Han.

Le politiche economiche furono accompagnate da un’ulteriore

repressione culturale.

Nel 1995, il giovane Panchen Lama, che era stato designato all’ini-

zio di quell’anno dal Dalai Lama, fu preso in custodia dai cinesi:

secondo i tibetani fu rapito, secondo i cinesi fu isolato per garantire

la sua sicurezza e un’educazione protetta. 

 

quel treno per lhasa 2

 

Da allora, il governo iniziò un periodo di intensa repressione del-

le pratiche religiose nei monasteri. Attraverso un processo di ‘rie-

ducazione’, i monaci dovettero studiare testi di propaganda cinesi

per poi essere interrogati a fondo e dimostrare la loro lealtà, e a

volte erano mantenuti in isolamento per molti giorni.

Il governo chiedeva che disconoscessero il Dalai Lama e giurasse-

ro la loro fedeltà al Partito cominista. Quelli che rifiutavano veni-

vano imprigionati, altri si suicidarono.

Il risultato fu che il sistema monastico, che aveva iniziato a ricom-

porsi negli anni 80, fu di nuovo travolto e i tibetani dovettero sot-

tomettersi ai cinesi un’altra volta.

(A. Lustgarten, Il grande treno)


 

 

 

 

 

 

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