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I cinesi invasero il Tibet il ventitreesimo giorno del nono mese
dell’anno della tigre di ferro – o, secondo il nostro calendario,
il 7 novembre 1950.
Avevano atteso questo momento fin da quando 37 anni prima
i loro predecessori Manchu erano stati cacciati via da Lhasa in
modo umiliante.
Uno tra i primi ad apprendere che avevano oltrepassato la fron-
tiera fu un inglese di nome Robert Ford.
Impiegato del governo tibetano in qualità di operatore radio,
era stato destinato alla remora città di Chamdo, circa 800 chilome-
tri a est di Lhasa e a un centinaio dal confine cinese.
Per via dell’estremo isolamento del luogo, l’ex sergente istruttore
della RAF era definito dai quotidiani in Inghilterra come ‘il britan-
nico più solitario al mondo’.
La sua solitudine sarebbe diventata presto assoluta.
I cinesi infattti, schiacciando ogni resistenza tibetana, attaccarono da
est. Nel giro di pochi giorni Chamdo – e con essa Robert Ford – fu
nelle loro mani. Non prima, però, che l’inglese fosse riuscito a lancia-
re l’allarme sull’invasione a Lhasa.
Se avesse voluto, avrebbe fatto in tempo a fuggire verso ovest per
salvarsi la pelle. Invece lavorò freneticamente al suo radio-trasmetti-
tore, riferendo man mano a Lhasa i progressi dell’avanzata cinese nel
Tibet orientale.
Quando alla fine abbandonò la radio per dirigersi verso la salvezza
insieme alle truppe tibetane in ritirata, era troppo tardi. I tibetani
catturati furono semplicemente disarmati e spediti a casa.
Ford fu preso prigioniero.
La dedizione al dovere gli costò i quattro anni successivi della
sua vita, che passò sopportando interrogatori implacabili e la-
vaggi del cervello in una prigione comunista.
L’invasione, in verità non era avvenuta senza preavviso.
In precedenza quell’anno, subito dopo aver preso il potere,
i comunisti cinesi avevano annunciato pubblicamente che
consideravano il Tibet parte dello Stato sovrano della Cina,
avvertendo che si riproponevano a breve di liberarlo dall’
imperialismo britannico e americano e ricongiungerlo una volta
per tutte alla grande madre-patria.
Dalla sua remota postazione d’ascolto, Ford stesso aveva sentito il
notiziario in tibetano della radio di Pechino annunciare che questo
era uno dei compiti dell’esercito di liberazione del popolo per il
1950.
Aveva passato questa informazione a Lhasa, insieme alle altre
notizie che monitorava regolarmente dalla radio cinese, nella
sgradevole consapevolezza di essere proprio un esempio di
imperialismo che i cinesi intendevano debellare.
Per mesi le autorità di Lhasa avevano tenuto sott’occhio con cre-
scente apprensione la Cina comunista, con il suo credo ateistico
e il potere militare che si andava rapidamente rafforzando.
Ora che le intenzioni di Pechino verso il Tibet all’improvviso
diventavano chiare, l’Assemblea Nazionale inviò urgenti richieste
d’aiuto al mondo esterno.
Furono spediti telegrammi a Gran Bretagna, Stati Uniti, India
e Nepal.
Il Dalai Lama, all’epoca solo sedicenne, ricorda nelle sue memo-
rie:
Le risposte ai telegrammi furono tremendamente scoraggianti. Il
governo britannico espresse la sua più profonda solidarietà al
popolo del Tibet, rammaricandosi che la nostra posizione geografica
e il fatto che all’India fosse stata concessa l’indipendenza non
permettessero loro un aiuto diretto. Il governo degli Stati Uniti
rispose a sua volta, allo stesso modo, e rifiutò di ricevere la nostra
delegazione. Anche il governo indiano disse esplicitamente che non
avrebbe fornito un aiuto militare e ci consigliò di non opporre
alcuna resistenza armata, ma di aprire ai negoziati per un accordo
pacifico.
Ancora una volta, nel momento del bisogno i tibetani scopriro-
no di essere soli…..
(Peter Hopkirk, Alla conquista di Lhasa)