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Verso la fine degli anni 70 il sommergibile ‘Alvin’, è stato utilizzato per
esplorare il fondale marino lungo la fossa delle Galapagos, nell’oceano
Pacifico. Questa formazione, situata a circa 2,5 chilometri di profondità,
è interessante per i geologi in quanto esempio primo di un tipo di camini
vulcanici sottomarini detti ‘black smokers’.
Il nome deriva dall’aspetto dei camini rocciosi, ricoperti di minerali, che
riversano liquidi scuri nell’oceano circostante. Nei pressi di un ‘black
smoker’ l’acqua può arrivare a temperature di 350° C, molto al di sopra
del normale punto di ebollizione. La cosa è possibile grazie all’immensa
pressione che si registra a simili profondità.
Con grande stupore degli scienziati che partecipavano al progetto, le
regioni intorno ai ‘black smokers’ delle Galapagos, e diverse altre delle
profondità marine, si sono rivelate brulicanti di vita.
Tra gli abitanti più esotici degli abissi si annoverano granchi giganteschi
vermi tubicoli, ma alla periferia dei ‘black smokers’ c’erano anche i familiari
‘batteri termofoli’. La scoperta più straordinaria è stata però quella di
microbi, fino a quel momento sconosciuti, che vivevano molto vicino al
brulicante materiale emesso dal sottosuolo, a temperature che giungevano
a 110° C. Nessuno scienziato aveva mai seriamente immaginato che una
forma di vita potesse sopportare una temperatura così alta.
Gli organismi che vivevano a 80° C. o più sono noti come ‘ipertermofoli’,
per via della loro stupefacente resistenza al calore. Dopo la scoperta è
subito divenuto chiaro che questi ‘estremofoli’ non erano un capriccio
isolato della natura; a tutt’oggi ne sono stati descritti una ventina di generi
diversi.
Fatto significativo, molti ‘ipertermofoli’ appartengono al regno degli archei.
Il record ufficiale di temperatura è detenuto al momento da un ‘Pyrodictium
occultum’ un organismo che è stato trovato vivo è vegeto in materiale tenuto
in autoclave a 121° C. per un’ora. Si hanno le prove che questi microbi che
vivono sotto il fondo marino alla temperatura di 169° C.
Un interrogativo fondamentale circa questi organismi delle profondità marine
è: da dove traggono il nutrimento?
I biologi hanno creduto per lungo tempo che ogni forma di vita sulla Terra
ricavasse l’energia vitale, più o meno direttamente, dal Sole.
Le piante non crescono in assenza di luce, e gli animali devono mangiare le
piante (o altri animali) per sopravvivere. A quelle profondità abissali però
regna il buio più assoluto. Neanche un raggio di luce solare riesce a penetrarvi.
Questo non è un problema per i granchi e i vermi, che cercano il cibo tra le
piccole creature che popolano il fondale; ma la catena alimentare deve pur
avere una base su cui poggiarsi.
Si è scoperto che il ruolo di produttori primari è svolto dai microbi, i quali
ricavano l’energia direttamente dalla rovente brodaglia chimica eruttata dalle
profondità vulcaniche. Gli organismi che non si nutrono di materia organica,
ma producono la propria biomassa direttamente si dicono autotrofi. L’esempio
più familiare è quello delle piante, che usano l’energia della luce solare per
trasformare sostanze inorganiche, come l’anidride carbonica e l’acqua, in
composti organici. Gli autotrofi che fabbricano la propria biomassa sfruttando
l’energia chimica anziché quella della luce sono stati denominati ‘chemioautotrofi’
o, più concisamente, ‘chemiotrofi’.
La scoperta dei veri chemiotrofi ha rappresentato un evento cardine nella storia
della biologia, perché ha svelato la base di una nuova catena alimentare, del
tutto indipendente, di una gerarchia di organismi che potevano esistere accanto
alle familiari forme di superficie, e tuttavia non dipendere dalla luce solare come
fonte primaria di energia.
Si affacciava per la prima volta la possibilità di un ecosistema svincolato dalle
complicazioni della ‘fotosistesi’. Gli scienziati hanno cominciato a intravedere un
nuovo vasto regno della biologia che era rimasto nascosto per miliardi di anni.
(P. Davis, Da dove viene la vita)