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– E’ arrivato il dottore! gridò, scoppiando in una risata.
– Finalmente!
– Signori, rallegramenti, il dottore ci degna di una visita!
– Maledetta canaglia!
sibilò e, in un raptus di violenza che nessuno aveva mai visto prima, pestò
un piede sul pavimento.
– Ammazzarla, bisogna, questa canaglia! No, ammazzarla è poco. Affogarla
nella latrina!
Andrej Efimyic, udito l’urlo, si affacciò dall’ingresso e chiese gentilmente:
– Perché?
– Perché?
gridò Ivan Dmitric, avvicinandosi a lui con aria minacciosa e avvolgendosi
convulsamente nella vestaglia.
– Perché? Ladro!
pronunciò questa parola con tono disgustato, atteggiando le labbra come
volesse sputare.
– Ciarlatano! Boia!
– Si calmi, disse Andrej Efimyic, sorridendo con aria colpevole.
– Le assicuro che non ho mai rubato nulla, per il resto forse lei esagera.
– Vedo che ce l’ha con me. Si calmi, la prego, se può, e mi dica con calma
perché ce l’ha con me.
– Perché mi tiene chiuso qui dentro?
– Perché è malato.
– Sì malato. Ma ci sono decine, centinaia di matti che vivono in libertà, perché
la sua ignoranza le impedisce di distinguerli dai sani. Perché allora io e
questi altri disgraziati dobbiamo star chiusi qui dentro a fare da capri espiatori
per tutti gli altri?
– Lei, l’infermiere capo, il sorvegliante e tutta la banda dell’ospedale, dal punto
di vista morale, siete mille volte peggio di ciascuno di noi: allora perché noi
siamo qui dentro e voi no?
– Dov’è la logica?
– La morale e la logica qui non c’entra. Tutto dipende dal caso. Chi è stato
ricoverato, sta dentro, chi non è stato ricoverato, sta fuori: ecco tutto.
– Il fatto che io sia dottore e lei malato di mente non dipende né dalla
morale né dalla logica, ma dal puro caso.
– Queste balordaggini non le capisco, rispose sordamente Ivan Dmitric e
si sedette sul suo letto.
Per l’agitazione si mise a camminare per la stanza e disse, abbassando il
tono:
– Quando sogno, mi appaiono dei fantasmi.
– Ricevo visite, sento delle voci, della musica, mi sembra di camminare per
i boschi, lungo la riva del mare, e ho così voglia di occuparmi di qualcosa
di interessarmi…
– Mi dica, fuori cosa c’è di nuovo? chiese Ivan Dmitric.
– Cosa c’è?
– Lei vuol sapere cosa c’è di nuovo in città o in generale?
– Bè, prima mi racconti della città, poi in generale.
– Che dire? In città è spaventosamente noioso….
– Non c’è nessuno con cui scambiare una parola, nessuno che valga la pena
di ascoltare.
– Gente nuova non ce n’è.
– Ma parliamo di lei (caro dottore…):
– In tutta la sua vita nessuno l’ha toccata nemmeno con un dito, né spaventato,
né picchiato: è sano come un toro. Il suo paparino ha teneramente allevato il
figliolo, lo ha fatto studiare: e appena laureato, lei si è preso una sinecura.
Più di vent’anni lei è vissuto in un appartamento pagato dallo stato, riscaldamento,
illuminazione, donna di servizio, col diritto di lavorare quanto le pare, anche
di non far niente. Lei per natura è pigro, fiacco, perciò ha organizzato la propria
vita in modo da non dover muoversi, non essere disturbato. Ha delegato tutto
all’infermiere capo e a quei farabutti dei suoi compari, e lei se ne sta in pace
al calduccio, si mette da parte un bel po’ di quattrini, leggiucchia i suoi
libercoli, si gode le sue sublimi meditazioni su eccelse stupidaggini e non
le dispiace ogni tanto di alzare il gomito.
In poche parole, lei non ha visto niente, conosce la realtà solo teoricamente.
Disprezza la sofferenza e non si stupisce di nulla per una ragione molto
semplice: la biblica vanità delle vanità, il disprezzo della vita, della sofferenza
e della morte, la comprensione, il bene supremo tutto ciò è pura filosofia,
adattissima a uno scansafatiche russo.
– Andrej Efimyic, quanti ne abbiamo oggi?
Ricevuta la risposta, Chobotov e il dottore biondo, con il tono della propria
incapacità, cominciarono a domandare ad Andrej Efimyic che giorno era
della settimana, quanti giorni ha un anno, e se era vero che nel reparto
n. 6 c’era uno straordinario profeta.
All’ultima domanda Andrej Efimyic rispose arrossendo:
– Sì, è malato, ma è una persona molto intelligente.
Non gli fecero altre domande.
(Anton Cechov, Il reparto n. 6)