LA PESTE (2)

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Frammenti in rima


 

la peste 2

 

 





La prima cosa che la peste recò ai nostri concittadini fu insom-

ma, l’esilio, e il narratore è persuaso di poter scrivere qui, a no-

me di tutti, quello che lui stesso ha provato allora, avendolo

provato contemporaneamente a molti dei nostri concittadini.

Ben era il sentimento dell’esilio quel vuoto che portavamo co-

stantemente in noi, quella precisa emozione, il desiderio irra-

gionevole di tornare indietro o invece affrettare il cammino

del tempo, queste due ardenti frecce della memoria.

 

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Se talvolta ci si lasciava andare alla fantasia e ci s’illudeva di

aspettare la scampanellata del ritorno o un passo familiare per

le scale, se, in quei mementi, si era d’accordo nel dimenticare che

i treni erano immobili, se ci si disponeva allora a restare in casa

nell’ora in cui, normalmente un viaggiatore portato dal diretto

poteva giungere nel nostro quartiere, tali giochi, beninteso, non

potevano durare.

Veniva sempre il momento in cui ci si accorgeva chiaramente

che i treni non arrivavano; sapevamo allora che la nostra sepa-

razione era destinata a durare e che dovevamo cercare di veni-

re a patti col tempo.

 

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D’allora, insomma, ci si reintegrava nella nostra condizione di

prigionieri, eravamo ridotti al nostro passato, e se anche alcuni

di noi avevano la tentazione di vivere nel futuro, vi rinunciava-

no rapidamente, almeno per quanto gli era possibile, provando le

ferite che la fantasia finisce con l’infliggere a coloro che hanno fi-

ducia in lei.

In particolare, tutti i nostri concittadini si privarono assai presto,

anche in pubblico, dell’abitudine, che avevano potuto prendere di

calcolare la durata della loro separazione.

Perché?

Gli è che se i più pessimisti l’avevano stabilita, a esempio, di sei

mesi, quando avevano esaurito in anticipo tutta l’amarezza dei

mesi futuri, sollevato il loro coraggio a livello di tale prova, teso

le loro ultime forze per rimanere senza indebolirsi all’altezza d’-

un patimento prolungato per tanti giorni, allora, talvolta, un ami-

co incontrato, un articolo del giornale, un sospetto fuggevole o

una brusca chiaroveggenza gli dava l’idea che, dopo tutto, c’era

ragione che la malattia non durasse più di sei mesi, e forse un an-

no, o ancora più. 

 

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In quel momento l’inabissarsi del loro coraggio, della loro volontà e

della loro pazienza era sì brusco che gli sembrava di non poter mai

più risalire la china. Di conseguenza, si costringevano a non pensar

mai più al giorno della loro liberazione, a non rivolgersi più verso il

futuro e a tener sempre, diremmo, gli occhi bassi.

Ma naturalmente una tale prudenza, un tal modo di barare col dolo-

re, di rinchiudere le sentinelle per rifiutar battaglia, erano mal ricom-

pensati. 

 

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Nello stesso tempo che evitavano quell’inabbissarsi, di cui a nessun

costo volevano saperne, si privavano poi di quei minuti, nel comples-

so frequenti, in cui potevamo dimenticare la peste nelle immagini del

futuro ricongiungimento.

E di qui, incagliati a mezza via tra gli abissi e le cime, ondeggiavamo

più che non vivessero, abbandonati a giorni senza direzione e a sterili

ricordi, ombre erranti che non avrebbero potuto prender forza che ac-

cettando di radicarsi nella terra del loro dolore.

(A. Camus, La peste) 



 

 

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