SUL PRATO DI BENNETT: Zilpha Marsh (47)

Precedenti capitoli:

sul prato di Bennett: Julian Scott (46) &

Bennett Story Greene (45) &

Bennett Story Greene (44)

Prosegue in:

la chiesa di Shiloh (48)

(Dedicato a Mark Twain:

Avvistata una meteora il 22/03/2013…….

avi -38 -)

 

 

 

zilpha marsh

 

 

 

 

 

Alle quattro, sul finire di ottobre,

sedevo solo nella scuola di campagna

dietro la strada fra i campi battuti,

e un turbine di vento sbatteva le foglie contro il vetro,

e bisbigliava nel camino della stufa,

che dallo sportello aperto soffondeva le ombre

con lo spettrale bagliore di un fuoco morente.

Pigramente spostavo la planchette….

d’improvviso il polso mi cedette

e la mano cominciò a muoversi in fretta sulla lavagna,

finché il nome di ‘Charles Guiteau’ fu compitato

e minacciò di concretarsi davanti a me.

Mi alzai e fuggii dalla stanza a testa nuda

nel crepuscolo, atterrito dal mio talento.

Da allora gli spiriti sciamarono –

Chaucer, Cesare, Poe e Marlowe,

Cleopatra e Mrs Surrat –

dovunque andassi, con messaggi….

…Tutte sciocchezze, sentenziò Spoon River.

Ma si dicono sciocchezze ai bambini nevvero?

Supponete allora che io veda ciò che voi non vedeste mai…

e di cui mai udiste parlare e per cui non avete parole,

dovrò ben dire sciocchezze, quando mi interrogate

su ciò che io vedo!

(Masters, Antologia di Spoon River)

 

 

 

 

 

 

zilpha marsh

 

AVI (41)

Precedenti capitoli:

Avi (38) &

Avi (39) &

Avi (40)

Prosegue in:

Pionieri e nativi: la ‘storia’ (42) &

Pionieri e nativi: la ‘storia’ (43)

 

 

 

avi 41

 

 

 

 

 

 

…Era di nuovo disperato.

– “Povero me… se penso che può esistere una cosa che

si fa chiamare ‘mente’ e che non riesce a capire una ba-

nalità come questa!

Senti, August, non esistono suddivisioni del Tempo,

credimi, nessuna. Tutte le volte che voglio, posso a-

vere il Passato qui davanti a me, il Passato vero, non

una sua immagine (basta così poco…): basta che io

voglio, ed eccolo qui (lo senti?)!

Lo stesso per il Futuro (è appena sufficiente fare qual-

cosa al di sopra della piccolezza del loro..Tempo….poi

guardali…)….ed eccoli lì, presenti, vivi e veri; e non è

una fantasia, un’immagine (di una pessimo fotografo),

o un prodotto della mia immaginazione. Ah queste

tue limitazioni, sono una vera seccatura, sempre tra

piedi.

Pensa che la tua razza non riesce nemmeno a immagi-

nare qualcosa che sia fatto di niente…si sa, i vostri stu-

diosi e i vostri filosofi lo confessano sempre.

Dicono che ci deve essere pure stato ‘qualcosa’ all’ini-

zio, e intendo qualcosa di solido, una sostanza, con

cui creare il mondo.

Invece è così semplice, l’Uomo è stato fatto con il ‘Pen-

siero‘, non capisci? (infatti si affannano a modificarne

il corso, forse per correggere i parametri di quel …….

Dio Straniero….)”.

– No, non ci riesco! Pensiero! Ma nel pensiero non c’è

nessuna sostanza, come si fa a credere qualcosa di ma-

teriale?

– No August, non un pensiero come il tuo, io dico un

pensiero come il mio, come quello degli Dèi…!

– Ma scusa, qual è la differenza? Il pensiero non è solo

pensiero, e basta?

– “No. L’uomo non crea niente nella sua mente, tutto

quello che sa fare è osservare le cose così come queste

appaiono, e combinarle nel proprio cervello.

Poi mette insieme (con l’aiuto di qualche idiota della

mente che sempre mente..) alcune di queste cose che

pensa aver osservato, scrutato o rubato e tira una sua

conclusione.

Solo sua però, non ti confondere!

Se lo osservi scopri che la sua mente è soltanto una….

macchina, ecco, una macchina automatica, che l’uomo

non può controllare; non sa concepire qualcosa di nuo-

vo (e i pochi che vi riescono….), di originale, sa soltan-

to raccogliere materiale dall’esterno e combinarlo in

forme nuove, in nuove figure.

Ma è pur sempre necessario questo materiale esterno,

perché la mente non può concepire e produrlo da sé.

Insomma, la mente umana non sa Creare – solo la men-

te di un Dio può farlo, e naturalmente anche noi della

nostra razza.

E’ questa la differenza.

Non abbiamo bisogno di materiale esterno, perché lo

produciamo da noi, con il pensiero. Tutte le cose che 

esistono sono fatte col pensiero, e con nient’altro….”.

(M. Twain, N. 44. Lo Straniero….)

 

 

 

 

 

 

avi 41

 

L’ ALTRO JOHN BROWN (36)

Precedenti capitoli:

Pionieri e nativi: l’altro John Brown (34)

Pionieri e nativi: l’altro John Brown (35)

Prosegue in:

Pionieri e nativi: l’altro John Brown (37)

 

l'altro john brown 36

 

Frammenti in rima

 

 

 

 

l'altro john brown 36

 

 

 

 

 

 

– “Allora,

disse la signora Glossop,

– cosa dovremmo fare secondo voi: far portare le Vecchie

una alla volta a casa di Nancy Taylor dal signor Brown,

o farle salire entrambe sul carretto, e lasciare che sia lui

a condurre il cavallo?”.

Brown era senza fiato.

-“Ecco, questa sì che è una domanda,

disse la signora Enderby

– Vedi bene che siamo tutte stanche, e qualunque cosa de-

cideremo sarà un problema. Perché, se il signor Brown le

porta entrambe, almeno una di loro dovrà tornare indie-

tro per aiutarlo, perché non può caricarle da solo sul car-

retto, e loro sono così deboli”.

– “Giusto,

disse la signora Taylor.

– Non sembra che…..oh, e come potrebbe? Una di noi va-

da là con il signor Brown, e le altre si avviino verso casa

mia a preparare tutto. Io andrò con lui. Insieme possiamo

caricare una delle Vecchie sul carretto, portarla fino a ca-

sa mia e…..”.

– “Ma chi si occuperà dell’altra?

disse la signora Enderby.

– Non possiamo certo lasciarla sola nel bosco, soprattutto

la matta. Andare e tornare sono otto miglia, non so se mi

spiego”.

Nel frattempo si erano sedute sull’erba accanto al carret-

to, nel tentativo di dare riposo alle loro stanche membra.

Rimasero in silenzio per qualche istante, rimuginando 

sulla complicata situazione; poi la signora Enderby s’illu-

minò e disse:

– “Credo di avere avuto l’idea giusta. E’ chiaro che non

possiamo più camminare. Pensate a cosa abbiamo fatto:

quattro miglia fin qui, due fino a casa di Mosley e sono

sei, poi di nuovo qui: nove miglia da mezzogiorno, e tut-

to senza aver messo nulla sotto i denti. Confesso di non

sapere come abbiamo fatto; per quanto mi riguarda, sto

morendo di fame. Ora, qualcuno deve tornare indietro

ad aiutare il signor Brown, inutile girarci intorno; ma,

chiunque vada, dovrà andarci a cavallo, non a piedi.

Pertanto la mia idea è questa: una di noi torna indietro

con il signor Brown, quindi cavalca fino a casa di Nan-

cy Taylor con una delle Vecchie, lasciando il signor

Brown a tenere compagnia all’altra, voi ora andate da

Nancy a riposarvi e aspettate; poi una di voi tornerà

a prendere l’altra e la porterà da Nancy, mentre il si-

gnor Brown verrà a piedi”.

– “Splendido!

esclamarono all’unisono

– Oh, è quello che ci vuole…è la soluzione perfetta”.

E tutte dissero che la signora Enderby era la migliore

mente organizzativa dell’accolita; e si dissero meravi-

gliate di non essere arrivate da sole a quella semplice

soluzione. Non intendevano rimangiarsi il complimen-

to, anime semplici, e non si rendevano conto di averlo

fatto. Dopo un consulto fu deciso che la signora Ender-

by sarebbe tornata indietro con Brown; l’onore le aspet-

tava di diritto, essendo lei l’autrice del piano. Una vol-

ta che tutto fu così brillantemente risolto e organizza-

to, le signore si alzarono, sollevate e felici, e si scrolla-

rono i vestiti, e tre di loro si avviarono verso casa; la

signora Enderby mise piede sulla pedana del carretto,

e stava per salire a bordo, quando Brown trovò un re-

siduo di voce e farfugliò:

– “La prego signora Enderby, le richiami…..Mi sento

debole; non posso camminare, davvero non posso”.

– “Diamine, mio caro signor Brown! In effetti lei è pal-

lido; sono mortificata di non essermene accorta prima.

Tornate indietro tutte!! Il signor Brown non si sente be-

ne. Posso fare qualcosa per lei, signor Brown? Sono….

davvero dispiaciuta. Si sente male?”.

– “No signora, soltanto debole; non sono malato, sono

soltanto debole….all’improvviso; non da molto, mi è

successo all’improvviso…..”.

Le altre tornarono indietro ed espressero la loro vici-

nanza e la loro comprensione, piene di rimorso per

non essersi accorte di quanto egli fosse pallido. Mise-

ro a punto un nuovo piano, e concordarono sul fatto

che fosse il migliore in assoluto. Sarebbero andati a

casa di Nancy Taylor per occuparsi innanzi tutto di

Brown. Questi avrebbe potuto stendersi sul divano

del salotto, e mentre la signora Taylor e Mary lo ac-

cudivano, le altre due donne avrebbero preso il car-

retto e sarebbero andare a raccogliere una delle Vec-

chie, e una di loro sarebbe rimasta con l’altra….

A quel punto, senza che nessuno lo avesse chiesto, a-

vevano preso il cavallo per il capo e si apprestavano

a farlo girare. Il pericolo incombeva, ma Brown trovò

nuovamente la voce e si salvò.

Disse:

– “Ma signore, state trascurando qualcosa che rende

il vostro piano inattuabile. Vedete, se accompagnate

a casa una di loro, e l’altra rimane lì insieme a una di

voi, ci saranno tre persone quando tornerete a pren-

derla, perché il carretto deve essere condotto da qual-

cuno, e non può portare tre persone…..”.

Tutte esclamarono:

– “Diamine, ma è evi-den-te, è così!!”.

e sprofondarono nuovamente nell’incertezza.

– “Mie care, mie care, che possiamo fare?

disse la signora Glossop.

– E’ la cosa più intricata del mondo. L’indovinello del-

la volpe, della rana e del sacco di grano eccetera….è

niente a confronto….”.

Sedettero ancora una volta esauste, a torturare nuo-

vamente le loro tormentate teste nella speranza di e-

scogitare un piano che funzionasse.

Di lì a poco Mary propose un piano; era il suo primo

sforzo.

Disse:

– “Io sono giovane e forte, e ora mi sono riposata.

Portate il signor Brown a casa nostra, e dategli assisten-

za – vedete bene quanto ne abbia bisogno. Io tornerò in-

dietro e mi prenderò cura delle Vecchie; posso essere lì

in venti minuti. Voi potete continuare a fare ciò che ini-

zialmente stavate facendo: aspettare sulla strada mae-

stra davanti a casa nostra che giunga qualcuno con una

carrozza; quindi mandarlo a prenderci tutt’e e tre.

Non dovrete attendere a lungo; presto i contadini saran-

no di ritorno dalla città. Terrò calma Polly e la tirerò su

di morale…..la matta non ne ha bisogno……”.

(M. Twain, Seguendo l’Equatore)

 

 

 

 

 

 

l'altro john brown 36

 

PIONIERI e NATIVI: anatomia di un incontro (33)

Precedenti capitoli:

pionieri e nativi: anatomia di un incontro (30) &

pionieri e nativi: anatomia di un incontro (31) &

pionieri e nativi: anatomia di un incontro (32)

Prosegue in:

una fotografia (analisi e considerazioni…)

 

 

 

1

 

 

 

 

 

 

 

Il giorno di Capodanno del 1898, di primo mattino, guardai fuori

da una finestra della casa di Cambaceres. Di là dal porto esterno,

a circa 800 metri verso sud, c’era un piccolo vascello adagiato su

una secca, con lo scafo profondamente incagliato e molto inclina-

to (…sembrava guardarmi…).

Scesi alla spiaggia, spinsi la barca in acqua e cominciai a remare

verso la nave. L’incidente era avvenuto già da un po’ e la marea

si stava abbassando. L’equipaggio aveva calato una barca in mare

e, dopo aver fissato alla sua poppa un ancorotto, stava srotolando

la catena dal ponte inclinato della nave.

Sulla barca quattro uomini remavano furiosamente, mentre altri,

dal ponte, li incitavano ancor più furiosamente in francese. Grazie

agli sforzi dei rematori, la scialuppa era riuscita ad allontanarsi 

di una decina di metri dalla nave. A quel punto, la pesante cate-

na si era adagiata sul fondo del mare e tratteneva la barca come

un’ancora, così che a ogni colpo di remi balzava avanti, ma tra l’-

uno e l’altro tornava esattamente al punto dove si trovava prima

(non progrediva di un metro…).

 

2

 

Sembrava che a nessuno fosse venuto in mente di tirare la catena

a bordo della barca e di farla sfilare man mano che avanzavano

per poi gettare l’ancora alla fine. 

Il Belgica non era meno singolare del suo equipaggio: uno strano

ibrido, né vapore né veliero, ma con qualcosa dell’uno e dell’altro.

Il suo ponte, che non si sarebbe inclinato a quel modo se avesse

spiegato le vele, era completamente ricoperto da uno strano as-

sortimento di merci. Grandi pile di carbone, rotoli di corde, slitte,

sci e tende da campo contribuivano alla confusione generale.

Mentre osservavo gli sforzi della ciurma con l’ancorotto, sul pon-

te di coperta apparve un uomo che mi salutò in un inglese dal leg-

gero accento americano. Vestito elegantemente e di bell’aspetto

doveva avere poco più di trent’anni e sprizzava energia da tutti

i pori, era di statura piuttosto bassa e snello di costituzione.

 

3

 

Si presentò come il dott. Frederick A. Cook, antropologo e medi-

co chirurgo, membro di una spedizione scientifica belga diretta 

all’Atlantico. Mi informò che la robusta nave in legno della spe-

dizione era stata appositamente equipaggiata per l’impresa. 

Dato che si era incagliata con l’alta marea, gli suggerii di allege-

rirla quanto più possibile in modo da permetterle di riprendere

il mare con la marea della sera.

Mi offrii di andare ad Harberton per prendere la chiatta da otto

tonnellate costruita da Despard. Potevano farla accostare al Bel-

gica e trasbordarvi il carico di carbone che ingrombava la coper-

ta del piroscafo, prima che giungesse l’alta marea. 

Il dottor Cook parlò al capitano in francese. 

La mia proposta fu accettata e insieme con il dottore partii per

Harberton. Tornammo con la chiatta e con un equipaggio com-

posto da yahgan e dagli ona più affidabili. Sbarcammo sulla

spiaggia più vicina due carichi di carbone e con l’arrivo dell’al-

ta marea e il favore del vento il Belgica si sfilò indenne dalla sec-

ca.

I suoi problemi tuttavia non erano finiti.

Il vento prese a soffiare così forte che gli ci vollero quasi due

ore per mettersi al riparo nel porto di Cambaceres.

 

4

 

Dalle mani consacrate alla scienza sarebbe probabilmente ingiu-

sto attendersi un particolare senso pratico, e pertanto non dovrem-

mo essere troppo severi nel condannare il lieve peccato di negligen-

za commesso dagli esploratori quando scesero a terra.

…. Seppure diretti verso il Polo Sud, il dottor Cook e gli altri scien-

ziati a bordo del Belgica erano anche interessati a tutto ciò che po-

tevano incontrare en-route. Li informai che un gruppo di ona, au-

tentici guerrieri delle foreste, con vestiti di pelle, lunghi capelli e

corpi pitturati, erano accampati a poco più di un chilometro da

Cambaceres.

I nostri ospiti manifestarono immediatamente il desiderio di fo-

tografarli. Il mattino seguente li accompagnai all’accampamen-

to. Sapendo che gli ona si sarebbero inquietati, precedetti gli

scienziati in modo da fugare i timori degli indiani.

 

6

 

Arrivai che stavano per lasciare il campo, ma li persuasi a riman-

dare un’ora la partenza. Agli ona, uomini o donne che fossero,

non piaceva che l’occhio magico della macchina fotografica fos-

se rivolto verso di loro. Feci del mio meglio per rassicurarli; e co-

sì il dottor Cook poté scattare qualche bella fotografia, soprattut-

to alle donne, con i loro enormi fardelli aggiustati nella tipica for-

ma di sigaro e in cima uno o due marmocchi.

Terminati gli scatti (perché proprio da scatti…erano composti i

suoi ‘movimenti’…), il dottor Cook tirò fuori da un’ampia tasca

una calza con dentro un chilo scarso di caramelline dure multi-

colori, ciascuna con un semino al centro. Ne distribuì una picol-

la manciata a ciascuno dei tanti indiani presenti e si rimise in

saccoccia il mezzo chilo che gli era avanzato, dicendomi:

– Mi pare che tutti ne abbiano avute un po’.

Gli indiani non sapevano che farci con quelle strane perline,

perciò ne chiesi due o tre al dottor Cook, me le misi in bocca e

cominciai a sgranocchiarle, incurante del rischio che facevo cor-

rere ai miei denti. Gli indigeni mi imitarono. Ritenendo che la

sprezzante munificenza dell’antropologo non fosse un’adegua-

ta ricompensa per quanto gli ona avevano fatto dietro mia ri-

chiesta, ne feci venire due a casa mia e diedi loro un sacco di 

farina.

 

7

 

Era sempre un dono gradito per fare il damper, un particolare

tipo di pane senza lievito e cotto nella cenere. 

Prima che si allontanassero dalle nostre coste per proseguire

nel loro viaggio verso sud, portai gli scienziati ad Harberton

e li presentai a mio padre. Il dottor Cook si mostrò molto inte-

ressato al dizionario yahgan-inglese su cui egli a quell’epoca

aveva speso più di trent’anni di fatiche e riflessioni.

Si parlò di una sua pubblicazione.

Tra le difficoltà maggiori c’era quella dei caratteri di stampa.

Papà si era servito del sistema fonetico di Ellis, ma aveva

dovuto apportarvi numerose modifiche e aggiunte per adat-

tarlo alla pronuncia yahgan di diversi termini.

Il dottor Cook gli assicurò che negli Stati Uniti esisteva una

società specializzata in lingue indigene americane, che dispo-

neva delle risorse necessarie (faceva tante promesse, mentre

degustava una immensità di portate, che una indigena gli

offriva durante questa conversazione….) per stampare l’ope-

ra e si disse convinto che sarebbe stata lieta di farlo…..

 

5

 

Si offrì di prelevare il manoscritto in modo del tutto discreto,

con gli stessi scatti delle sue fotografie, sul momento. Era al-

la seconda bottiglia, e alla quinta portata. Papà temeva, però,

che il prezioso volume potesse perdersi tra i ghiacci polari

e non volle separarsene. Promise al dottor Cook di consegnar-

glielo al ritorno del Belgica dell’Antartico, sperando di veder-

lo in migliori condizioni di sobrietà.

Fummo tutti sollevati dal suo rifiuto, compresa l’improvvisa-

ta oste, alquanto preoccupata dall’ingordigia del dott…, dato

che nessuno in quel luoghi nutriva una grande stima per le

doti nautiche del capitano e dell’intero equipaggio della nave.

Neppure della loro famelica cultura… notammo… in silenzio…

Si erano incagliati su una secca segnalata dal kelp e da una lin-

gua di terra che la collegava alla spiaggia.

… Per gli stessi buoni motivi declinai i pressanti inviti a unirmi

a loro nella spedizione nelle regioni polari…..

(E. Lucas Bridges, Ultimo confine del mondo)

 

 

 

 

 

8

PIONIERI E NATIVI: il dottor Cook e Thomas Bridges (un caso di plagio) (29)

Precedenti capitoli:

pionieri e nativi: il dottor Cook e Thomas Bridges (28) &

la sofferenza necessaria all’uomo (27)

Prosegue in:

pionieri e nativi: anatomia di un incontro (30) &

pionieri e nativi: Considerazioni ‘eretiche’ (31)

pionieri e nativi: anatomia di un incontro  (32)

 

un caso di plagio

 

 

 

 

 

 

 

Il signor Lucas Bridges approvò l’accordo a nome della famiglia.

Il sovrintendente lodò l’opera con entusiasmo, affermando come

fosse incredibile che potesse essere stata completata nell’arco di

una singola vita, e disse al signor Bridges che sarebbe stata distri-

buita nelle principali università e biblioteche di tutto il mondo.

Tuttavia c’erano ancora da risolvere i problemi tipografici, poi-

ché era necessario convertire l’alfabeto usato in un sistema fone-

tico universale – un lavoro di anni.

Comunque si pensava che sarebbe uscito dalla tipografia prima

della fine del 1914.

Con questa prospettiva il signor Bridges prese commiato.

 

un caso di plagio

 

Ma quando non mancava molto alla fine del 1914 la Prima guerra

mondiale piombò sull’Europa, travolgendo Bruxelles e l’Osserva-

torio.

Il prezioso dizionario sparì nuovamente.

Il signor Bridges riprese le ricerche dopo l’armistizio, ma le sue

lettere all’Osservatorio non ebbero alcun esito.

Questa volta il manoscritto sembrava davvero scomparso, e do-

po qualche tempo la famiglia rinunciò al compito apparentemen-

te disperato.

Poi, nel settembre del 1929, quindici anni dopo la sua ultima spa-

rizione, il documento ritornò alla luce.

Un membro della famiglia Bridges in Inghilterra ricevette senza

preavviso una lettera firmata dal dottor Ferdinand Hestermann,

professore all’università di Munster, il quale annunciava che sia 

il dizionario sia la grammatica erano in mano sua, che era estrema-

mente interessato all’opera e al suo autore e che desiderava sapere

di più di entrambi.

 

un caso di plagio

 

Questa volta fu la signora Alice Bridges a organizzare una spedi-

zione nel continente all’inseguimento del libro del padre.

In tutta fretta andò ad Amburgo in aereo, incontrò il professore e

avviò con lui un nuovo progetto per la pubblicazione, in omaggio

alla memoria del padre.

A questo punto fa il suo ingresso nella storia un altro personaggio:

il signor W. Barclay, già segretario dell’Esposizione del commercio

britannico allestita a Buenos Aires nel 1931, e da molti anni fedele

all’amico di famiglia Bridges, nella cui residenza australe si era re-

cato trent’anni prima.

I Bridges gli chiesero di seguire i lavori di pubblicazione e di scri- 

vere una prefazione introduttiva, come fece.

 

un caso di plagio

 

La storia sarebbe dovuta finire qui, ma le cose andarono diversa-

mente.

Il documento originale vergato da Thomas Bridges rimase in Eu-

ropa – nessuno dei Bridges, anzi, aveva ancora avuto modo di

vederlo – e, quando il professor Hestermann chiese il permesso

di continuare a studiarlo, i Bridges acconsentirono.

Decisero però che a tempo debito la proprietà del manoscritto sa-

rebbe passata al British Museum, e quando nel 1939 il signor Lu-

cas Bridges offrì il documento all’istituzione, l’offerta venne accet-

tata.

Ma prima che potesse essere spedito dalla Germania scoppiò nuo- 

vamente la guerra e il dottor Hestermann svanì assieme al mano-

scritto.

 

un caso di plagio

 

Un recupero sembrò questa volta assolutamente improbabile.

Le ultime notizie su Hestermann lo davano ad Amburgo, e via

via che il tempo passava e i raid sulla città si intensificavano, i 

figli di Thomas Bridges si rassegnarono con vivo rimpianto alla

perdita del documento.

Un uomo, tuttavia, conservò una fede ostinata nella sua soprav-

vivenza.

Il signor Barclay – all’epoca settantenne – si rifiutava di pensare

che la buona stella grazie alla quale il manoscritto aveva attra-

versato indenne le vicissitudini l’avesse ora lasciato perire nell’-

esplosione di una bomba inglese.

 

un caso di plagio

 

Si mise a smuovere mari e monti nel fermo proposito di rintracciarlo.

Intanto la Croce Rossa Internazionale accertò un anno dopo che il

signor Hestermann era in possesso del documento allo scoppio del-

la guerra, ma non riuscì comunque a mettersi in contatto con lui.

Quando il Belgio fu liberato dall’occupazione tedesca, scrisse all’-

ambasciatore a Bruxelles, che lo mise in contatto con il Dipartimen-

to per l’arte, i monumenti e gli archivi, organizzato dagli alleati allo

scopo di restituire ai legittimi proprietari i beni depredati dal nemi-

co.

Nel giro di una settimana ricevette una risposta dal XXI  Corpo d’-

armata, presso la sede centrale del governo militare.

Annunciava che il manoscritto era stato ritrovato custodito dal

dottor Hestermann, addirittura in una credenza della cucina di

una fattoria.

 

un caso di plagio

 

La storia sollevò un tale interesse che ne fu trasmesso un resoconto

alla radio di Berlino e il signor Barclay telegrafò immediatamente a

Lucas Bridges:

Manoscritto del dizionario di suo padre trovato in Germania.

Ora al sicuro.

Seguirà storia completa.

…La frode perpretrata dal dottor Cook trentacinque anni fa ha lascia-

to una matassa ancora tutta da sbrogliare…..

(E. Lucas Bridges, Ultimo confine del mondo)

 

 

 

 

 

 

un caso di plagio

 

PIONIERI e NATIVI: la terra trasformata (25)

Precedenti capitoli:

pionieri e nativi: la terra trasformata (24) &

quando la ‘lingua’ contribuisce alla vittoria (23) &

li ho creati io (22)

Prosegue in:

pionieri e nativi: la terra trasformata (26)

Da:

pionieri e nativi 25

 

Frammenti in rima

 

 

 

 

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Visto in questo modo, un mutamento nel paesaggio

significava la perdita di uno stato selvaggio e di una

virilità fondamentalmente spirituali nel loro signifi-

cato più profondo, un segno di decadenza sia della

natura sia dell’umanità.

‘Non è questa allora’, chiese Thoreau, ‘una natura

mutilata e imperfetta quella che mi circonda?’.

E’ importante rispondere in modo preciso a questa

domanda di Thoreau: in che modo cambiò la ‘natu-

ra’ del New England all’arrivo degli europei?

Inoltre, è adeguato parlare dei suoi cambiamenti in

termini di mutilazione e di imperfezione?

 

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Non c’è nulla di nuovo nell’affermare che la colonizza-

zione europea ha trasformato il paesaggio americano.

Molto prima di Thoreau, naturalisti e storici avevano

commentato il processo mediante il quale la ‘wilderness’

era stata convertita in una terra di insediamenti agrico-

li europei.

Sia che scrivessero di indiani, di commercio di pellicce,

di foreste o di fattorie, gli autori del periodo coloniale

erano decisamente consapevoli che profonde alterazio-

ni della struttura ecologica si stavano verificando attor-

no a loro.

 

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In un brano di un suo scritto, Benjamin Rush, anticipando

parzialmente la tesi sulla frontiera di F. J. Turner, per e-

sempio, descrisse una precisa sequenza di passaggi per

deforestare e civilizzare la ‘wilderness’.

‘Dalla riconsiderazione delle tre diverse tipologie di colo-

no’, scrisse della Pennsylvania ‘risulta che vi sono alcune

fasi regolari che segnano il progresso dalla vita selvaggia

a quella civilizzata.

Il primo tipo di colono è quasi vicino a un indiano per il

modo di comportarsi. Nel secondo, i modi di comporta-

mento da indiano sono più diluiti: è solo nel terzo tipo di

colono che vediamo la completa civilizzazione’.

Sebbene il paesaggio risultasse modificato da questa sup-

posta evoluzione sociale, il processo ‘umano’ di sviluppo –

dall’indiano, a colui che disbosca, al prospero agricoltore –

era il momento centrale su cui Rush focalizzava la sua

attenzione.

Il cambiamento ambientale era di interesse secondario.

Per i pensatori illuministi come Rush, a ogni fase, la con-

figurazione del paesaggio era una conferma visibile del-

lo stato della società umana.

Ambedue subivano uno sviluppo evolutivo dallo stato

selvaggio alla civilizzazione. Sia che venisse interpreta-

to come decadenza, sia che venisse interpretato come

progresso, il mutamento – dalla foresta – ‘degli animali

più nobili’ di Thoreau ai campi e ai pascoli del prospero

agricoltore di Rush – indicava una campagna veramen-

te trasformata, una campagna i cui cambiamenti erano

strettamente legati alla storia umana che si era svilup-

pata al suo interno.

Nel New England, la sostituzione degli indiani con la

popolazione prevalentemente europea fu una rivolu-

zione tanto ecologica quanto culturale, e l’aspetto u-

mano di questa rivoluzione non può essere pienamen-

te compreso finché rimane vincolato a quello ecologi-

co.

Per arrivare a ciò è necessaria una storia non solo di at-

tori umani, di conflitti e di questioni economiche, ma

anche di ecosistemi.

(……) Questo ci porta direttamente al cuore delle diffi-

coltà teoriche implicite nel fare storia ecologica. Quan-

do ci si chiede quanto un ecosistema sia stato modifica-

to dall’influenza umana, l’inevitabile domanda succes-

siva deve essere: ‘Cambiato rispetto a cosa?’.

Non esiste una risposta semplice.

 

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Prima di poter analizzare i modi mediante i quali le per-

sone alterano il proprio ambiente, dobbiamo innanzitut-

to considerare come questi ambienti mutino in assenza

di attività umane; questo a sua volta richiede di riflette-

re su cosa intendiamo per ‘comunità’ ecologica.

L’ecologia in quanto scienza biologica ha dovuto accu-

parsi di questo problema fin dall’inizio.

La prima generazione di ecologi accademici, guidati da

Frederic Clements, definirono in senso letterale le comu-

nità che studiavano superorganismi, sottoposti a nascita,

crescita, maturità e a volte anche morte, come le piante

e gli animali.

Secondo questo modello, la dinamica del cambiamento

di una comunità poteva essere espressa nel concetto di

‘successione’.

 

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Dipendendo dalla propria regione, una comunità biotica

poteva iniziare come uno stagno che veniva poi trasfor-

mato gradualmente dalle proprie dinamiche interne in

una palude, in un prato, in una foresta di alberi precur-

sori e infine in una foresta di alberi dominanti.

Quest’ultimo stadio veniva assunto come stabile ed era

conosciuto come il ‘climax’, vale a dire una comunità,

più o meno permanente, che si sarebbe riprodotta inde-

finitivamente se lasciata indisturbata.

Il suo stato di equilibrio definiva l”organismo’ maturo

della foresta, in modo tale che tutti i membri della co-

munità potessero essere intesi in funzione del mante-

nimento della stabilità dell’insieme.

Vi era un punto di riferimento apparentemente ogget-

tivo: qualunque comunità effettiva poteva essere con-

frontata con il ‘climax’ teorico, e allora le differenze

tra essi potevano venire normalmente attribuite a ‘fat-

tori di disturbo’.

Spesso la fonte dei fattori di disturbo era umana, e ciò

implicava che l’umanità era in qualche modo esterna

alla comunità ideale del ‘climax’.

Quest’enfasi funzionalista dell’equilibrio e del ‘climax’

ebbe importanti conseguenze, poiché tese a rimuovere

le comunità ecologiche dalla storia.

Se qualunque cambiamento ecologico fosse autoequili-

brante oppure inesistente, allora la storia sarebbe più o

meno assente, a eccezione delle scansioni che si prolun-

gano nel tempo, come le variazioni climatiche o l’evolu-

zione darwiniana.

Il risultato fu un paradosso.

Gli ecologi, cercando di definire il ‘climax’ e le successio-

ni per una regione come il New England, dovettero affron-

tare una massiccia alterazione ambientale causata dagli

esseri umani, sebbene i loro programmi di ricerca richie-

dessero la determinazione dell’ambiente senza la presen-

za umana.

Togliendo le influenze corruttrici dell’uomo e della don-

na, potevano scoprire l’originaria comunità ideale del

‘climax’.  Si scorge qui una certa rassomiglianza con

l’interpretazione data da Thoreau su Wood:

il cambiamento storico veniva definito più come un’aberra-

zione che come la norma.

(W. Cronon, La terra trasformata)

 

 

 

 

 

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PIONIERI e NATIVI: la terra trasformata (24)

Precedenti capitoli:

li ho creati io (22) &

quando la ‘lingua’ contribuisce alla vittoria (23)

Prosegue in:

pionieri e nativi: la terra trasformata (25)

 

 

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Il passaggio dal dominio indiano a quello europeo nel

New England (come in molti altri luoghi) comportò

importanti cambiamenti – ben conosciuti agli storici –

nei modi in cui questi popoli organizzarono le loro vi-

te, ma implicò anche una riorganizzazione sostanziale –

meno conosciuta dagli storici – nella comunità vegeta-

le e animale della regione.

Alle conseguenze culturali dell’invasione europea, che

gli storici a volte definiscono ‘il processo della frontiera’,

dobbiamo aggiungere anche quelle ecologiche.

Tutto era collegato da complesse relazioni che per esse-

re ben comprese richiedono gli strumenti di un ecologo

e quelli di uno storico.

La grande forza dell’uso dell’analisi ecologica, quando

si scrive di storia, consiste nella sua capacità di scopri-

re processi e cambiamenti di lungo termine che altri-

menti potrebbero restare invisibili.

E’ particolarmente utile per valutare i cambiamenti sto-

rici nei modi di produzione: in un simile approccio, l’e-

conomia diventa, in un certo senso, un sottoinsieme del-

l’ecologia.

 

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La mattina del 24 gennaio 1855, Henry Thoreau si sedette

con il proprio diario a riflettere su come Concord, la sua

terra natale, era stata modificata da più di due secoli di

colonizzazione europea.

Aveva letto da poco il libro ‘New England’s Prospect’ nel

quale il viaggiatore inglese William Wood narrava il pro-

prio soggiorno del 1633 nel New England meridionale

descrivendo il paesaggio ai lettori inglesi.

Ora Thoreau tentò di stabilire quanto il Massachusetts di

Wood fosse diverso dal suo. I cambiamenti sembravano

veramente radicali.

 

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Iniziò dai prati che, scrisse, ‘a quel tempo sembravano

crescere più rigogliosi’. Anche le fragole, se le descrizio-

ni di Wood erano precise, erano state più grosse e ab-

bondanti ‘prima che i campi coltivati non le costrin-

gessero in spazi angusti’.

Alcune arrivavano a misurare almeno tre centimetri di

diametro ed erano così numerose che se poteva racco-

gliere mezzo staio in una mattina.

Altrettanto abbondanti erano l’uva spina, i lamponi e,

in modo particolare, i ribes dei quali, pensò Thoreau,

‘così tanti scrittori del passato hanno narrato, mentre

così pochi tra i moderni ne trovano allo stato selvatico’.

Nel 1633, le foreste del New Englan erano state molto

più estese e gli alberi molto più grandi.

Sulla costa, dove gli insediamenti indiani erano stati

maggiormente vasti, i boschi erano apparsi ai primi

coloni inglesi più aperti, simili a parchi, senza sotto-

bosco e senza vegetazione cedua, così comuni invece

nella Concord del XIX secolo.

 

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Per poter ammirare una simile foresta, secondo Thoreau,

sarebbe stato necessario organizzare una spedizione fino

al Maine, dove si trovava l’unico ‘esemplare ancora esi-

stente di essa’.

Le querce, gli abeti, i prugni e i liriodendri erano comun-

que tutti, a suo dire, meno numerosi di quanto non lo fos-

sero stati ai giorni di Wood.

Nonostante la foresta fosse stata molto ridotta al suo sta-

to originario, la maggior parte delle specie degli alberi e-

rano rimaste.

Non si poteva dire lo stesso per gli abitanti del regno ani-

male. L’elenco di Thoreau delle specie scomparse era de-

solante: ‘L’orso, l’alce, il cervo, il porcospino, il leopardo

delle nevi, il lupo vorace, il castoro, e la martora’.

Non solo se ne erano andati i mammiferi terrestri; anche

il mare e l’aria sembravano più vuoti.

Un tempo si potevano catturare due o trecento esempla-

ri di pesce persico in una sola volta. La riproduzione del-

le alose era stata ‘quasi incredibile’.

Nessuno di questi pesci era ormai presente in tale abbon-

danza. Circa gli uccelli, Thoreau scrisse: ‘Le aquile sono

probabilmente meno comuni; sicuramente i piccioni i fa-

giani sono scomparsi e i tacchini.

Probabilmente allora vi erano stati più gufi, e cormorani,

e poi uccelli marini in genere, e cigni’. Se una volta Wood

poteva affermare che era possibile acquistare per cena un

cigno appena preso al prezzo di sei scellini, Thoreau non

poteva che scrivere sbigottito: ‘Pensateci!’.

 

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Vi è una sorta di malinconia in questa lista di Thoreau,

il lamento di un romantico per un mondo incorrotto di

tempi passati e ormai perduti.

Il mito di un’umanità perduta in un mondo perduto è

sempre molto presente negli scritti di Thoreau, e risul-

ta maggiormente percepibile nella sua descrizione del

paesaggio antico.

Un anno dopo il suo incontro con il New England del

1633 di William Wood, Thoreau ritornò alle sue lezio-

ni con un linguaggio più esplicitamente morale.

‘Quando penso’, scrisse ‘che qui gli animali più nobili

sono stati sterminati il puma, la pantera, la lince, il

ghiottone, il lupo, l’orso, l’alce, il cervo, il castoro, il

tacchino e altri ancora – non posso che sentirmi come

se vivessi in un paese addomesticato ed evirato rispet-

to al suo stato originario’.

(W. Cronon, La terra trasformata)

 

 

 

 

 

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PIONIERI E NATIVI: John Wesley (20)

Precedente capitolo:

pionieri e nativi (19)

Prosegue in:

rivoluzionari (21)

Da:

i miei libri & blog

 

 

pionieri e nativi 20

 

 

 

 

 

(Le preziose immmagini che accompagnano il

presente post sono di pionieri originari attinen-

ti al periodo & luogo storico trattato…)

 

 

I canti profani del negro americano furono, per molto

tempo, gli unici che si potessero udire fra le comunità

degli schiavi.

Ci vollero infatti poco meno di due secoli prima che i-

niziasse, su larga scala, la conversione degli schiavi al

Cristianesimo, e si cantassero quindi le lodi del Signo-

 

pionieri e nativi 20

 

re. Le resistenze alla conversione erano state forti, so-

prattutto da parte dei piantatori, che ritenevano che la

schiavitù non potesse essere giustificata se le sue vitti-

me non fossero state tenute allo stato selvaggio.

Alcuni gruppi religiosi, e in particolare i Quaccheri del-

la Pennnsylvania, i Battisti e i Metodisti, riuscirono pe-

rò infine ad aver ragione delle resistenze: si rendevano

conto, come ha osservato con amaro realismo LeRoi Jo-

nes, che la schiavitù si sarebbe potuta giustificare sol-

tanto con la possibilità della conversione.

 

pionieri e nativi 20

 

quanto ai piantatori, finirono per comprendere che la

prospettiva della salvezza in un’altra vita avrebbe po-

tuto tenere tranquilli gli schiavi in questa.

Ma non compresero solo questo: capirono anche che

la religione avrebbe potuto essere un efficace strumen-

to di controllo sociale.

Il predicatore avrebbe potuto fornire agli schiavi degli

eccellenti motivi perché essi obbedissero ai loro padro-

ni comportandosi nel modo che a questi faceva più co-

modo.

 

pionieri e nativi 20

 

Cominciò così l’opera di predicazione e di conversione,

soprattutto da parte dei ministri della Chiesa Battista e

di quella Metodista.

Non fu facile, all’inizio, trasformare gli schiavi in qual-

cosa che somigliasse ai ‘buoni cristiani’. Il primo risulta-

to fu comunque un ibrido tra paganesimo e Cristianesi-

mo, fra usanze e riti africani e liturgia cristiana.

 

pionieri e nativi 20

 

In un articolo del 30 maggio 1867 pubblicato su ‘The

Nation’ è descritta una tipica funzione ‘afro-cristiana’:

‘I banchi vengono addossati al muro, quando la funzio-

ne vera e propria è finita, e tutti, vecchi e bambini, uo-

mini e donne, una folla grottesca di giovani azzimati

stando in piedi in mezzo alla stanza cominciano a cam-

minare in tondo, tenendosi stretti l’uno all’altro, strisci-

ando i piedi senza mai sollevarli da terra. Il senso dell’-

avanzare è dato dai movimenti scattanti che agitano i

corpi, presto madidi di sudore.

 

pionieri e nativi 20

 

Talvolta ballano in silenzio, talaltra, mentre avanzano

strisciando i piedi, cantano il ritornello dello sperichil

(spiritual), solo raramente lo cantano per intero.

Ma più spesso quelli che cantano meglio e gli ‘shouters’

ormai stanchi si radunano in gruppo su un lato della stan-

za e provvedono all’accompagnamento degli altri, cantan-

do il motivo conduttore, e battendo le mani, anche sulle

ginocchia.

Il ballo e il canto sono pieni di energia, e quando lo shout

dura fino a notte, il cadenzato e sordo rumore dei piedi

strisciati per terra impedisce di dormire a quanti stanno

entro il raggio di mezzo miglio’.

 

pionieri e nativi 20

 

E’ importante notare che questi primi partecipanti al ‘ring-

shout’ dovevano compiere ogni sforzo per non incrociare

i piedi perché, se così avessero fatto, avrebbero ‘danzato’:

avrebbero cioè reso omaggio al demonio….

Ad essi era infatti stato insegnato che la musica profana

e naturalmente anche la danza erano diaboliche. Persino

il banjo, persino il violino, in cui i negri eccellevano, era-

no strumenti del demonio, e ‘devil song’ o quanto meno

‘sinful’, peccaminosi, erano i canti che per decenni erano

risuonati nelle piantagioni.

 

pionieri e nativi 20

 

Non per nulla John Wesley, il fondatore della Chiesa Me-

todista, i cui inni avrebbero influenzato profondamente

la musica religiosa dei negri americani, aveva detto:

E’ un peccato che Satana (e quel certo Pietro…) debbono

avere tutte le migliori canzoni …..

Gli schiavi dovevano comunque avvertire confusamen-

te che anche le cerimonie come quella sopra descritta a-

vevano qualcosa di peccaminoso, proprio per la loro ori-

gine africana, e dunque pagana.

 

pionieri e nativi 20

 

Probabilmente proprio per questo motivo esse si svolge-

vano di notte, in luoghi appartati (per lo più in baracche

isolate, spesso in mezzo ai boschi, per la naturale paura

di essere spiati dai valorosi ‘uomini bianchi’…), e si ricor-

reva a strani espedienti nella speranza di attutire il ru-

more dei canti e delle danze….(ed anche, perché no, del-

le poesie…..).

Quasi sempre all’entrata della baracca veniva collocata,

capovolta, una tinozza per il bucato, oppure un vaso di

ferro, che, sollevati da terra da un lato, avrebbero dovu-

to ‘inghiottire’ i rumori, spegnendoli.

Era già un sintomo di quel complesso di colpa che avreb-

be afflitto per molti decenni i negri americani, che fino

ad epoca recentissima si sono vergognati (forse è più giu-

sto dire che ciò poteva contribuire all’ennesima umiliazio-

ne da parte dell’ ‘uomo bianco’), poco o molto, della loro

 musica e in particolare del blues e del jazz.

(A. Polillo, Jazz)

 

 

 

 

 

 

pionieri e nativi 20

 

IL PIONIERE (17) (ma sempre una croce tenevano in mano)

ma sempre una croce tenevano in mano

 

Precedenti capitoli:

il pioniere: Frederick Douglass (16)

(anche se ora il suo ricordo appare lontano)

Prosegue in:

pionieri e nativi: The Trail of Tears (18)

(convinti il progresso aver conquistato)

 

 

 

ma sempre una croce tenevano in mano

 

 

 

 

 

 

 

Io amo il puro, pacifico, imparziale cristianesimo di Cristo:

quindi odio il corrotto, schiavizzatore, fustigatore di donne,

devastatore di culle, parziale e ipocrita, cristianesimo di que-

sto Paese.

Non vedo anzi il motivo, se non il più artificioso, di identifi-

care la religione di questo Paese col cristianesimo. Vedo in

esso il colmo  degli equivoci, la frode più audace, la diffama-

zione in suo nome più sconcia.

Di nulla si può dire con maggior diritto, che ‘ruba la livrea

della Corte celeste, per farvi entrare il demonio’. Uno sde-

gno inesprimibile s’impadronisce di me, quando contemplo

la pompa di solennità dei riti e, insieme, le orribili incoeren-

ze che da ogni parte mi circondano.

 

ma sempre una croce tenevano in mano

 

Abbiamo dei ladri d’uomini per ministri della fede, dei fu-

stigatori di donne per missionari, dei saccheggiatori di culle

per fedeli.

L’uomo che , durante la settimana, alza la frusta macchiata di

sangue, occupa il pulpito la domenica e pretende d’essere mi-

nistro del mite e umile Gesù. L’uomo che, alla fine della setti-

mana, ruba i miei guadagni (guardatelo se non ci credete ora

difende i diritti dei lavoratori, gli stessi che deruba ogni dì…),

la domenica mattina vorrebbe, come capoclasse, indicarmi la

strada della vita e il cammino della salvezza. 

La vende questa menzogna, la urla, la spaccia in ogni dove…

Colui che vende mia sorella a scopo di prostituzione, passa

per il devoto maestro di purezza.

Colui che proclama dovere religioso la lettura della Bibbia,

mi nega il diritto d’imparare a leggere il nome del Dio che

mi ha creato.

 

ma sempre una croce tenevano in mano

 

Il pio avvocato del matrimonio deruba della sua santa influ-

enza milioni d’uomini, e li abbandona al flagello di una pro-

fanazione generale.

L’appassionato difensore della santità dei rapporti familiari

è lo stesso che distrugge intere famiglie, separando mogli e

mariti, genitori e figli, sorelle e fratelli, e lasciando vuota la

capanna, deserto il focolare.

Vediamo il ladro predicare contro il furto (lo vedete anche

voi, tutti i giorni…), l’adultero tuonare contro l’adulterio; uo-

mini sono venduti per costruire chiese, donne per sostenere

il Vangelo, fanciulli per acquistare Bibbie ‘ai poveri pagani,

tutto per la gloria di Dio e la salvezza dell’anima!’

Il colpo di mazza del banditore all’asta degli schiavi e lo

squillo di campana che annunzia il servizio religioso si fon-

dano l’uno nell’altro; il pianto amaro dello schiavo straziato

è sommerso dall’urlo devoto del suo padrone.

 

ma sempre una croce tenevano in mano

 

Rinascite della religione e rinascite della tratta degli schiavi

si danno la mano. Galere e chiese stanno fianco a fianco: il tin-

tinnio dei ceppi e il clangore delle catene nella prima, si leva-

no insieme al pio Salmo e alla grave preghiera nella seconda.

I mercanti di corpi e anime umane tengono banco sotto il pul-

pito, e si sostengono a vicenda. Il mercante dà il suo oro gron-

dante lacrime e sangue per sostenere il pulpito; in cambio, il

pulpito avvolge il suo traffico infernale nel manto del cristia-

nesimo.

Abbiamo alleati religione e furto, diavoli in veste di angiolet-

ti, inferno in sembianze di cielo.

 

ma sempre una croce tenevano in mano

 

Il Cristianesimo dell’America (e non solo…) è un cristiane-

simo dei cui fedeli si può dire come già degli Scribi e Fari-

sei: ‘Affastellano pesi gravi e ne caricano le spalle della gen-

te; ma loro non li vogliono muovere neppure col dito.

Fanno tutte le loro opere per attirare l’attenzione di tutti….

Amano i primi posti ne’ conviti, i primi seggi nelle sinago-

ghe….

Amano esser chiamati dalla gente: Maestro, Signore, Dottore,

Professore……Ma guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché

serrate il regno dei cieli in faccia alla gente; poiché né vi en-

trate voi, né lasciate entrare coloro che cercano d’entrarvi.

Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché per mare e per ter-

ra vi date attorno per fare un proselita, e, fatto che sia, lo ren-

dete figliol della geenna il doppio di voi…

 

ma sempre una croce tenevano in mano

 

Guai a voi, perché pagate la decima della menta e dell’aneto

e del cumino, e trascurate le cose più importanti della legge:

la giustizia e la misericordia (che pretendete amministrare

con quelle facce….) e la fedeltà.

Queste sono le cose che bisogna fare, senza tralasciare le altre.

Guide cieche, che filtrate la bevanda a cagion del moscerino,

e inghiottite il cammello!

Guai a voi Scribi e Farisei, perché nettate il di fuori del calice

e del piatto, mentre dentro essi sono pieni di rapina e d’intem-

peranza….

Guai a voi, Scribi e Farisei, perché siete simili a sepolcri im-

biancati, che di fuori appaiono belli, ma dentro son pieni d’os-

sami di morti e d’ogni putridume.

Così anche voi, di fuori, apparite giusti alla gente, ma den-

tro siete pieni d’ipocrisia e iniquità (e non solo….ma offesa

non voglio arrecarvi….)’.

(Frederick Douglass, Memorie di uno schiavo fuggiasco)

 

 

 

 

 

 

ma sempre una croce tenevano in mano

 

IL PIONIERE: JOHN BROWN (15)

Precedente capitolo:

il Pioniere: John Brown (14)

Prosegue in:

il pioniere: Frederick Douglass (16)

 

 

il pioniere 15

 

 

 

 

 

 

Perché in lui questi sentimenti erano circondati dall’-

atmosfera religiosa e morale del puritanesimo; e co-

sì John Brown univa alla fierezza, all’amore per la li-

bertà del rivoluzionario, il sentimento moralistico e

l’intransigenza del fondatore di religioni o del profe-

ta biblico.

Egli andava in tal modo sviluppando un carattere

quanto mai complesso e difficile a decifrarsi. E’ in-

fatti indubbio che in lui l’atteggiamento abolizioni-

 

il pioniere 15

 

sta nascesse da una profonda rivolta morale, gene-

rata ad un tempo sia dalla sua educazione religiosa

e dalle tradizioni della Nuova Inghilterra che dalla

innata bontà e generosità dell’animo suo la quale

lo rendeva profondamente sensibile all’appello del-

la solidarietà umana; nello stesso tempo però l’in-

 

il pioniere 15

 

transigenza puritana nei confronti della colpa e del

peccato lo portava su posizioni di intolleranza mo-

ralistica che lo rendevano pronto a colpire con rigo-

re inesorabile coloro i quali ai suoi occhi appariva-

no ribelli alle leggi divine ed umane e con ciò stes-

so meritevoli soltanto di distruzione.

E’ un fatto che egli non solo non comprese mai il

Sud, ma non fece alcuno sforzo per comprenderlo:

 

il pioniere 15

 

egli considerava la schiavitù come la prepotenza

contro gli indifesi una vera e propria aggressione

senza esclusione di colpi perpetrata contro gli altri,

e nella fattispecie dai malvagi e dai peccatori con-

tro i buoni e gli innocenti ed a cui occorreva reagi-

re con durezza implacabile.

La data esatta in cui John Brown si risolse a tradur-

re in pratica i suoi propositi è materia di contesta-

zione: certo, sin dal 1839 egli impegnò con giuramen-

 

il pioniere 15

 

to i suoi figli alla lotta armata per la distruzione del-

la schiavitù: ma pare che per il momento non avesse

ancora del tutto superato la fase intenzionale.

Nel 1847, parlando con un illustre rappresentante

dei neri liberi, Frederick Douglass, egli entrò nei parti-

colari del suo piano. Bisognava penetrare nel Sud al-

la testa di uomini armati e risoluti e accendervi tra

gli schiavi la fiamma dell’insurrezione; allora sareb-

be stato possibile rifugiarsi tra le valli impervie e

quasi inaccessibili degli Allegheny e condurvi la guer-

riglia indefinititamente.

Le fonti a cui John Brown attinse l’idea della guerri-

glia insurrezionale sono ancora oggi poco chiare.

(R. Luraghi, Storia della Guerra Civile Americana)

 

 

 

 

 

 

il pioniere 15