IN DOLCI ILLUSIONI

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in dolci illusioni

 

 





Per un istante abbiamo un apparente lampo di comprensione sulla

ragione per cui il kanaka accetti l’esilio: se ne va per acquisire la

civiltà.

Certo, era nudo e non provava vergogna, e ora è vestito e sa come

vergognarsi; era ignorante, e ora possiede un orologio Waterbury;

era rozzo, e ora possiede gioelli e cose che rendono buono il suo

odore; era un signor nessuno, un provinciale, ora è stato in contrade

lontane e può farne sfoggio.

Sembra tutto plausibile – per un istante.

 

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Poi il missionario afferra questa spiegazione e la fa a pezzi, e la 

calpesta, e la rende irriconoscibile.

 

‘Ammettendo che la summenzionata descrizione sia quella ordinaria,

l’ordinario seguito è questo: polsini e colletti, ammesso che siano usati,

sono conquistati dai più giovani, che li allacciano intorno alle gambe,

al di sotto del ginocchio, a mo’ di ornamenti.

Il Waterbury, rotto e sporco, prende la strada del mercante, che lo

paga un’inezia; oppure ne viene estratto il meccanismo, gli ingranaggi

infilati come perline e appesi al collo. Coltelli, scuri, calicò e fazzoletti

vengono divisi tra gli amici, e a malapena ve n’è uno a testa.

 

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I bauli, perse sovente le chiavi durante il viaggio di ritorno, possono

essere acquistati per 2 scellini e 6 pence.

E’ possibile vederli marcire alle porte di qualunque villaggio

a Tanna.

Un kanaka rientrato in patria si è infuriato con me perché non

compravo i suoi pantaloni, che garantiva fossero esattamente

della mia taglia. In seguito li vendette a uno dei miei insegnanti

di Aniwan per 9 pence di tabacco – un paio di pantaloni che 

probabilmente nel Queensland costano 8 o 10 scellini. Una giacca


in dolci illusioni


o una camicia è utile per quando fa freddo. I fazzoletti bianchi,

i ‘senet’ (profumi), l’ombrello e magari il cappello vengono

conservati. Gli stivali devono tentare la sorte, sempre che non

siano della taglia del mercante di copra.

‘Senet’ nei capelli, striature di colore sul viso, un fazzoletto bianco

sporco intorno al collo, strisce di carapace di tartaruga alle orecchie,

una cintura, un coltello con guaina e un ombrello rappresentano

la tenuta del kanaka di ritorno a casa, il giorno dopo essere approdato.’

 

Cappello, ombrello, cintura, fazzoletto al collo.

Per il resto, completamente nudo.

In un sol giorno, la sudata ‘civilizzazione’ si è trasformata in questo.

E anche questi oggetti deperibili, in breve, non ci saranno più.

In verità, vi è un solo dettaglio della sua civilizzazione che, si 

può starne certi, resterà con lui: a detta del missionario, egli ha

imparato a bestemmiare.

Questa è arte, e l’arte è lunga, come dice il poeta.

(Mark Twain, seguendo l’equatore) 



 

 

 

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L’ARTE SECONDO I NAZISTI (ed i loro amici)

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l'arte secondo i nazisti

 

 






Come sottolinea Hitler, nel suo primo discorso pronunciato

in qualità di capo di stato e dedicato all’arte, ciò che distingue

l’artista è la vocazione ricevuta dalla provvidenza di poter

esprimere l’anima del popolo.

Tre anni più tardi ha modo di ripeterlo:

‘L’ideale di bellezza dei tedeschi deve essere la salute!’

I ‘giudei’, i ‘negri’, ‘gli zingari’, gli omosessuali’, ‘i nullafacenti’,

sono i principali responsabili della disgregazione dell’arte au-

tenticamente tedesca.

 

l'arte secondo i nazisti

 

Bisogna quindi non sopprimere l’arte, ma creare un elite di

artisti che sentano il culto dell’appartenenza alla terra ed il

potere da lei emanato.

Pur nella maschera di una sana e duratura democrazia l’art-

ista è anima e tramite del messaggio, e quale nuovo profeta

ha il compito e dovere trasferire al suo popolo la sua voca-

zione.

 

l'arte secondo i nazisti

 

Certamente anche e soprattutto se scarsamente dotato in quel vuoto

già accennato, (l’artista designato dal popolo) compie questa sorta

di transfert culturale in modi luoghi e tempi noti alla genesi di

siffatta indole.   

Pochi gli eletti all’Olimpo di questa ‘Repubblica Sociale’, i quali

‘eletti’ debbono svolgere il loro compito a beneficio della colletti-

vità. 

Credo che sia superfluo descrivere la fine o la sorte degli altri,

se pur validi artisti, in questa barzelletta nominata storia.

 

l'arte secondo i nazisti

 

E’ appunto dalla storia, che possiamo resuscitare ciò che rima-

ne della verità, la quale come tale gode del beneficio e privilegio 

della sistematica persecuzione; i nazisti sono un anello evolutivo

che conosce stratigrafie sociali e storiche se pur ben documentate,

scarsamente ricordate (ecco la ragione di questo blog, e l’antipatia

da esso suscitato. L’antipatia, e l’intolleranza della storia, soprat-

tutto presente e vigile là dove pensiamo al sicuro i nostri diritti

sociali e civili, in realtà ad uso consumo e beneficio di una..

elite di eletti. O meglio una cricca di eletti.).

Modi e metodi rimangono uguali a quelli dei più biechi fascisti

e nazisti che la storia più recente ricorda.

 

l'arte secondo i nazisti

 

….Quanto ai negri, che appartengono anch’essi alle razze infe-

riori, le forme primitive della loro presunta arte, in particolare

il jazz, sono disgraziatamente penetrate in Germania.

Si arriva così a una definizione dell’artista.

La personalità artistica non esprime più il proprio ‘IO’ indivi-

duale (tali barriere architettoniche devono e possono essere

superate, l’anima è collettiva e del popolo, che decide a suo

piacimento e godimento come meglio interpretarla, anche in

asssenza dell’artista quale legittimo proprietario. L’anima è

ora incarnata dal popolo il quale ne beneficia a suo piacimento.

L’anima dell’artista rimane una pura formalità, un inciampo,

un difetto di fabbrica dove il popolo deve sondare nella 

natura di un nuovo diritto acquisito, ciò che vi transita, e se

necessario, curare tal difetto. Ma l’anima appartiene al popolo!

I più fortunati sono coloro che ne hanno ricavato qualcosa, i

più digraziati, privati di anima e ragione, possono solo 

assistere passivi alla sua lenta dismissione!!).

 

l'arte secondo i nazisti

 

Come insiste Alfred Rosenberg:

 

‘Oggi noi non possiamo e non poniamo la personalià autentica

 in un rapporto di equivalenza con l’autonomia dell’IO, o nell’

individualismo economico, ma più naturalmente in ciò che

la collega simbolicamente e più propriamente alla comunità

di sangue e di un’anima di una nazione’.




 

 

 

l'arte secondo i nazisti

        

BIANCO & NERO (nella città del jazz)

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nella città del jazz







Ero stato, in passato, il conoscente di una signora di grande

interesse, molto in là negli anni, i cui amici di gioventù ven-

gono considerati dei classici nei ‘circoli lettarari’, la quale,

verso la fine della sua vita, ripeteva sempre:

– Sai che Charles Lamb ha messo in scena una commedia

al Drury Lane?;

….oppure:

– Sai che William Hazlitt si è innamorato di una donna dav-

vero strana?

Quei fatti erano perfettamente veri; solo la morte s’era stu-

pendamente eclissata dal suo mondo, dato che non la ricor-

do aver mai fatto cenno né alla scomparsa di Byron, né quel-

la di Scott, che pure avrebbe potuto rendere così contempo-

ranee.

Quando qualcuno era  ammalato, essa elegantemente evitava

di chiedere notizie, disapprovando assolutamente simile con-

dizione; e attorno a lei, vicino a lei, c’erano augusti infermi la

cui esistenza sapientemente ignorò per lunghi anni.

E’ un tranquillo percorso all’indietro, simile a quello della mia

amica, che la voce della vecchia Concord mi pare tracciare al-

l’interno dei suoi annali, e non è eccessivo dire che, là dove il

suo suolo è più sacro, riuscii a distinguere, nella brezza, un

passato remoto attenuato.

Sai che c’è stata una battaglia tra i nostri uomini e quelli….

del Re?

 

nella città del jazz


Cos’è che vuoi sapere di me Webb?

Sono solo.

Desidero ogni donna che riesco a ricordare.

Tutto è così chiaro qui eppure ho come la sensazione che

il mio cervello si sia allontanato e mi osservi….

Mi pare di librarmi sopra gli oggetti di questa casa, sopra

ogni persona che mi ricordo – un po’ come quei santi dipin-

ti nella chiesa di mia madre che sembrano sempre esser sol-

levati di quindici-venti centimetri dal suolo.

Assumono pose umane.

Mi concedo immacolate rasature di venti minuti la mattina.

Mi passo lo lozione e mi preparo una colazione fantastica.

L’unico mio pasto della giornata. Insomma passo dall’energia

del mattino……. all’alcool e alla fame, alla densa stanchezza

delle ore più tarde. 

…. Cercando di sopraffare questa terribile e stupida chiarez-

za….

 

nella città del jazz


La città del jazz non è un luogo preciso.

E’ ovunque si trovi quel sound che ti fa…. dai che lo sapete!

Non ha confini, né leggi, né guardie, né vigili del fuoco, ma

che piova o ci sia il sole, inondazioni o siccità, credo che ri-

marrò in questa …..scena, coi miei fratelli, perché qui tutti,

o quasi, sembrano amare davvero ciò di cui parlano, ciò

che fanno.

Loro sanno comunicare.

Chiaro il messaggio?

(James, La scena americana; M. Ondaatje, Buddy Bolden’s

Blues; D. Ellington, La musica è la mia signora)





 

nella città del jazz

CONVENIVA ESSER MUTI IN QUEGLI ANNI DURI (1)

conveniva esser muti in quegli anni duri

 

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conveniva esser muti in quegli anni duri

 

 

 

 




Vivevo in un piccolo bungalow di Culver City.

Era un posto, con una veranda posteriore che dava sui campi

da golf del California Country Club, ma io non riuscivo a ripo-

sarmi.

Il pensiero di essere così vicino agli ‘studios’ dai quali era stato

cacciato mi rendeva furioso.

Riuscii a resistere lì solo una settimana. Poi dissi all’infermiera

che volevo andare in Messico. Quando lei protestò, dicendo che

il dottor Martin le aveva ordinato di starmi vicino, le dissi di ve-

nire con me. 

 

conveniva esser muti in quegli anni duri

 

Fugii in Messico, ma non risolsi niente, come era ovvio.

Tutto ciò che successe là fu un altro matrimonio che ebbe una

pubblicità mondiale perché non era passato neanche un anno

da quanto la sentenza interlocutoria di divorzio della mia prima

moglie era diventata esecutiva. Quando questa arrivò, io stavo

sposandomi di nuovo a Venice.

Il mio secondo matrimonio non durò a lungo, ed è la cosa miglio-

re che mi ricordo al suo riguardo. 

 

conveniva esser muti in quegli anni duri

 

Durante questi due pessimi anni interpretai dei film in Messico,

Inghilterra e Francia. Nessuno di questi era neanche passabile

perché in quelle nazioni i produttori che mi contattarono non

avevano abbastanza soldi per finanziare una produzione de-

cente.

Ed erano passati i tempi in cui il pubblico andava a vedere i

film con povero materiale scenico, riprese scadenti e cattiva 

produzione in genere.

Tra un filmaccio e l’altro continui a bere come una spugna.

Una volta mi portarono in ospedale in una camicia di forza, e

per due volte fui sottoposto alla cura Keeley, o un suo fac-simi-

le.

Descriverò brevemente questa cura, senza grande entusiasmo. 

 

conveniva esser muti in quegli anni duri

 

Comincia con tre giorni in cui le infermiere e i dottori non fan-

no altro che farti ingerire liquori, dandoti un bicchierino ogni

mezz’ora. Spero che gli alcolizzati che leggono queste righe non

saranno indotti in errore, e non si precipiteranno all’ospedale

più vicino per farsi offrire gratis tutti questi drink.

Ti danno il tuo liquore preferito, sì ma mai due volte di fila.

Cominciano con il whisky e continuano con gin, rum, birra,

vino, prima di ridarti il whisky.

Non c’è bisogno di aggiungere che il Bacco dentro di voi si ri-

volta e si ribella molto prima che la maratona di tre giorni di

bevute sia finita.

Quando preghi:

– Oh, no! Portatelo via per favore!

i baristi e le bariste in camice bianco ti fanno un sorriso amiche-

vole e basta.

– Per favore, lo porti via…,

ripeti,

– mi fa male lo stomaco.

– Ancora un altro,

dicono, perché il loro scopo e farti dolere lo stomaco così tanto

da rendere questa sofferenza indimenticabile.

E, poiché sei debole, bevi anche quel bicchiere come hai già fatto

mille volte in mille bar…

La cura Keeley può aver funzionato per certi alcolizzati, ma la

prima volta a me non fece niente.

I bicchierini passavano… e io li bevevo….

(Buster Keaton, Memorie a rotta di collo)



 

 

 

conveniva esser muti in quegli anni duri

 

PERCHE’ HO SOGNATO ANCH’IO LO STESSO RICORDO (1)

 perché ho sognato anch'io lo stesso ricordo

 

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perché ho sognato anch'io lo stesso ricordo

 

 

 

 





Mi rincalzai il cappello e m’incamminai a ovest di Redding

attraverso le foreste di sequoie.

Mi feci tutta la costa, città per città, con la chitarra in spalla,

e cantai nei ghetti di quarantadue stati: Oklahoma City in Re-

no Avenue, a Seattle in Lower Pike Street, a Santa Fe sul banco

dei giurati, e ho cantato anche nella vostra città, tra le bidonvil-

le pidocchiose e nei buchi più squallidi.  

 

perché ho sognato anch'io lo stesso ricordo

 

Ho cantato nelle tendopoli chiamate Little Mexico, ai margini

poveri delle verdi praterie californiane, sulle zattere cariche

di ghiaia lungo l’East Coast; e nella Bowery di New York,

mentre i poliziotti ed i fascisti davano la caccia a quelli che

scolavano rum di contrabbando.

Deviai lungo il golfo del Messico e cantai con i marinai e i lupi

di mare a Port Arthur, con i fuochisti ed i macchinisti di Texas

City, con i fumatori di marijuana nei bassifondi di Houston.

Segui le fiere e i rodei di tutta la California settentrionale,

Grass Valley, Nevada City; mangiai le albicocche e le pesche

che crescevano intorno a Marysville, l’uva delle colline di Au-

burn, e scolai il vino genuino che tanta brava gente offriva.

 

perché ho sognato anch'io lo stesso ricordo

 

Appena arrivavo in posto mi levavo il cappello, lo buttavo a

terra e cantavo per raggranellare qualche soldo.

A volte ero così fortunato che mi capitava perfino di trovare

lavoro. A Los Angeles, per esempio, cantai alla radio, e Zio

Sam mi invitò nella valle del fiume Columbia per incidere

ventisei…canzoni sulla diga del Grand Coulee.

Feci anche due album intitolati ‘Ballate della conca di polvere’,

per la Victor. Poi mi rimisi in viaggio attraverso il paese due

volte, in autostop e sui treni merci.

La gente mi sentiva nei programmi della CBS e della NBC e

pensava che fossi diventato ricco, ma a me non arrivava in

tasca neanche il becco di un quattrino ed ero più al verde che

mai….

Nella mia vita i giorni si avvicendavano uno dopo l’altro, co-

me la gente che incontravo, così un giorno il vento della costa

mi soffiò via da San Francisco e per le larghe strade di San José

mi riportò a Los Angeles.

(Woody Guthrie, Questa terra è la mia terra)




 

 

 

perché ho sognato anch'io lo stesso ricordo

 

INTANTO IN EUROPA (la prima sconfitta)


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negli stessi anni

 

 






Gli americani avevano praticamente rinunciato a ogni riparazione

per loro stessi; e, siccome nella riparazione vedevano altrettanti

‘debiti politici’, erano tutt’altro che contrari all’idea di sopprimerle:

atteggiamento indubbiamente saggio, ma qui la saggezza america-

na finiva, poiché gli Stati Uniti non volevano affatto l’annullamento

parallelo dei loro crediti.

I ‘debiti commerciali’ ai loro occhi erano infatti sacri.

 

negli stessi anni


La morale internazionale come essi la concepivano esigeva che questi

debiti fossero pagati, anche se il loro rimborso costituiva un contributo

minimo alla prosperità del paese.

Di fronte alle esigenze americane, gli europei furono obbligati a sotto-

scrivere accordi di pagamento, e i primi a farlo furono gli inglesi con

l’accordo Baldwin-Mellon del 18 giugno 1923.

Il 14 novembre 1925 l’Italia riuscì a ottenere un accordo più vantag-

gioso.

Più a lungo resistette la Francia. La crisi del franco, che coincise con

i successivi governi del ‘Cartello delle sinistre’ dal 924 al 926, rese in-

sieme urgente un appoggio finanziario americano e difficile il rag-

giungimento di un accordo.

 

negli stessi anni


In due anni, si succedettero nove ministri delle finanze, e soltanto il

29 aprile del 926 venne firmato il cosiddetto accordo Mellon-Béranger.

Ma la Camera dei deputati si rifiutò di ratificarlo, donde una lunga

diatriba tra le opinioni pubbliche francese e americana.

La cosa più chiara in tutta la faccenda fu che, dal 925, data dell’en-

trata in vigore del piano Dawes, la Germania pagava regolarmente

le sue riparazioni.

Un miracolo?

Una riprova della capacità di pagamento tedesca? In realtà, nel

925 Stresemann scriveva al Kronprinz che il pagamento

delle riparazioni sarebbe divenuto impossibile nel 927.

Il demiurgo che impedì che questa ragionevole predizione si veri-

ficasse, fu ancora una volta l’America.

Gli USA in fase di grande prosperità, disponevano di capitali ec-

cedenti che miravano a investire all’estero. Ora, Hoover aveva

convinto isuoi colleghi che l’esportazione di capitali privati do-

veva essere sottoposta a controlli.

 

negli stessi anni


Nell’estate del 921, i tre ministri si erano intesi con il banchiere

Morgan il quale si era impegnato, in nome dei suoi colleghi, a non

investire all’estero senza essersi prima consultato con il dipartimen-

to di Stato; inoltre, non si sarebbero fatti prestiti ai governi e ai cit-

tadini dei paesi che non avessero soddisfatto ai loro obblighi nei

confronti degli Stati Uniti. Così, gli americani rifiutarono prestiti

al Giappone, all’URSS e alla Francia, mentre al contrario la Germa-

nia, che non aveva debiti di guerra verso di loro – e per ovvi motivi

– diveniva l’obiettivo principale degli investimenti americani. 

 

negli stessi anni


Grazie all’afflusso dei capitali americani verso la Germania, tra il

925 e il 930 questa ebbe a disposizione una cospicua quantità di

divise che le permisero di pagare le riparazioni. Come ebbe a scri-

vere nelle sue memorie il dottor Schacht, allora presidente della

Reichsbank, ‘le spese di riparazione furono in definitiva sostenute

dagli stranieri che ci aprirono crediti’.

Sicché, obbedendo ai disordinati impulsi del business americano,

mentre un impavido governo stava a guardare, venne in essere

uno strano maneggio in cui il denaro girava vorticosamente.

Gli americani prestavano alla Germania.

La Germania pagava le riparazioni agli alleati.

Gli alleati rimborsavano i loro debiti all’America.

…In attesa del secondo tragico epilogo o meglio ‘delirio’, fra

….una birra e un aperitivo……

  

 

 

 

 

negli stessi anni

      
 

E UNA STANZA (anche) PER GLI ITALIANI

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per gli italiani








J. Ross: ‘Così sbarcò a New York e si perse e rimase diviso

dagli zii, e lavorava come portatore d’acqua a una squa-

dra sulla ferrovia in costruzione e trasportavano tronchi

e legname al Sud degli Stati Uniti.

Stesero i binari attraverso il West Virginia, c’è un ponte

della ferrovia a Clinchport, Virginia, non lontano da qui

a Harlan, e era un ponte grandissimo per quei tempi, e

dev’essere stato nel 1907 o giù di lì e lui aiutò a costruirlo.

E diceva che moriva di fame, aveva tanta fame. E un tale

gli diede una grossa cipolla – a lui e a un altro signore, e

la divisero in due col rasoio.

Parlava dei muli che cascavano giù dal pendio della mon-

tagna. Era abbastanza giovane. Finì in miniera perché apri-

vano le miniere nel West Virginia meridionale. E conobbe

mamma Ross, lei aveva 14 anni, e la conobbe, e si innamo-

rò di lei, la portò a cavallo fino a Pike County, Kentucky,

e si sposarono’.

 

per gli italiani


‘Affittavano un treno e lo portavano dove arrivavano le

navi dall’Italia a Ellis Island. Li caricavano su quel treno e

li portavano a Lynch. E li portavano qui e li mettevano in

quelle pensioni, due, tre per stanza, ragazzi che non erano

mai stati in una miniera’ (N. Yarbrough).

Gli immigrati italiani destinati alle miniere erano accolti

nella ‘detention room’ di Ellis Island da agenti reclutatori

e spediti direttamente ai treni verso le regioni minerarie,

detti ‘blue trains’ perché i vetri dei finestrini erano dipin-

ti di blu per impedirgli di capire dove li stavano portando.

Fin dall’inizio, erano in debito per il costo del viaggio e le

altre spese, e la somma gli veniva poi detratta dalla paga.

‘Nel 1903, la New York Society for the Protection of Italian

Immigrants mandò un agente nella zona mineraria a inve-

srtigare sulle voci di maltrattamenti.

Più tardi l’ambasciatore italiano negli Stati Uniti protestò

col segretario di Stato Elihu Root perché i suoi connaziona-

li venivano trattenuti contro la loro volontà in West Virgi-

nia’……

(A. Portelli, America Profonda)





 

per gli italiani