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– Io so,
dice il malato,
– che in ogni istante muoiono migliaia di uomini. La morte
oggi è dappertutto, non è né rara né insolita. Mi sono rasse-
gnato all’idea di morire presto.
Ma prima vorrei ancora parlare di qualcosa che mi tormenta.
Altrimenti non posso morire in pace.
Respira con affanno.
Ho la sensazione inquietante che mi fissi tra le bende.
Forse vede attraverso le macchie giallastre. E’ vero che non
sono all’altezza degli occhi, eppure mi sento osservato.
Non riesco a staccare lo sguardo.
– Ho saputo da una delle infermiere che nel cortile lavorano
dei prigionieri ebrei. Poco fa mi ha portato una lettera di mia
madre… me l’ha letta….poi se ne è andata di nuovo.
Sono qui da tre mesi. Allora ho deciso… ci pensavo già da
molto…
Quando l’infermiera è tornata, le ho chiesto di aiutarmi.
Appena poteva doveva pregare un prigioniero ebreo di veni-
re da me. Ma senza che nessuno se ne accorgesse.
L’infermiera non sa perché le ho chiesto una cosa così strana.
Non mi ha risposto niente e se ne è andata.
Avevo già perso la speranza che volesse correre questo ris-
chio per me. Ma poco fa è tornata, si è chinata sul mio pet-
to e mi ha sussurrato che fuori c’era un ebreo.
Me lo ha detto come se esaudisse l’ultimo desiderio di un
morente. Lei conosce le mie condizioni.
Sono nella camera dei gravissimi, lo so.
I casi disperati preferiscono lasciarli finire da soli, forse per
non disturbare gli altri.
Chie è quest’uomo a cui siedo accanto?
Che ha da dirmi di così importante?
Forse è un ebreo che si fa passare per tedesco, e ora, prima di morire,
vuole vedere uno dei suoi.
Perché non ha più nulla da temere.
Nel ghetto, e più tardi anche nel lager, raccontavano che in Germania
c’erano perfettamente ‘ariani’ all’aspetto che riuscivano a penetrare
nell’esercito con documenti falsi, e qualcuno si era perfino inflilrato
nelle SS.
Volevano sopravvivere.
Forse il morente era uno di questi?
O un mezzo ebreo, nato da un matrimonio misto?
Si è mosso un poco, biascica qualche parola..a stento…;
l’altra mano era posata su una lettera che ora scivola per terra.
Mi chino e la rimetto sulla coperta.
Non ho toccato la sua mano, e lui non può aver visto il mio mo-
vimento: eppure ha una reazione.
– Grazie, è la lettera di mia madre.
Le parole escono piano dalle sue labbra.
Ho di nuovo la sensazione che mi stia fissando.
La sua mano cerca a tentoni la lettera, ora guarda qualcosa.
Poi la tira più vicino, come se nel contatto con la carta volesse
ritrovare un po’ di forza e di coraggio.
Non posso fare a meno di pensare a mia madre: lei non mi scrive-
rà mai più lettere. E’ stata portata via dal ghetto cinque settimane
fa, durante un’operazione di rastrellamento. L’unica cosa che c’era
rimasta di molti saccheggi era un orologio d’oro. Lo aveva passato
di nascosto a mia madre, perché tentasse di comprarsi la libertà
quando fossero venuti a prenderla. Una vicina, che aveva un per-
messo valido, mi raccontò più tardi la storia di quell’orologio.
Mia madre lo aveva dato al poliziotto ucraino che doveva portarla
via. E lui prima se ne andò, ma dopo pochi minuti tornò indietro
e condusse via mia madre. Nel cortile lei attese insieme con altri
l’arrivo di un autocarro. E fu portata via, dove non si scrivono
più lettere…
Il tempo sembra fermo.
– Mi chiamo Karl… Mi sono arruolato volontario nelle SS.
Certo la parola SS…
Si ferma.
Forse ha la gola asciutta.
Cerca convulsamente di inghiottire.
Non credo più che sia un ebreo, o un mezzo ebreo, mimetizzato
sotto una divisa tedesca.
Come ho potuto pensarlo?
Ma in questi tempi succedono tante cose.
– Devo raccontarle una cosa orribile… disumana.
E’ accaduta un anno fa, ma è già passato un anno?
Le ultime parole le dice più a se stesso che a me.
– Sì, è passato un anno,
continua.
– Un anno dal delitto che… ho commesso.
Devo assolutamente parlarne con qualcuno, forse mi
farà bene.
La sua mano afferra la mia. Le dita si aggrappano più forte quando
io, alla parola delitto, quasi inconsciamente cerco di ritirare la mano.
Dove prende la forza?
O sono io così debole, che non riesco a svincolarmi?
– Devo dire a lei questa cosa orribile, a lei perché….è ebreo.
C’è dunque qualcosa di orribile che io ancora non conosco?
Tutte le atrocità e gli orrori che un cervello malato può inventare,
mi sono ben noti. Li ho provati sulla mia pelle, li ho visti nel lager.
Il racconto di questo malato non potrà essere più orribile di quello
che i compagni si sussurravano la notte nel lager rabbrividendo.
La sua storia non mi interessa.
Spero soltanto che l’infermiera abbia pensato di dire a un ascaro
dove sono. Forse mi stanno già cercando, credono che sia fuggito…
Sono molto preoccupato.
Sento delle voci, fuori, ma riconosco quella dell’infermiera, e mi
tranquillizzo.
– Non mi sono reso subito conto della colpa che avevo com-
messo.
Il mio sguardo è fisso alla sua testa bendata.
Non so ancora quale delitto mi voglia confessare, ma so che quando
sarà morto sulla sua tomba crescerà un girasole. Lo vedo chiaramen-
te, vedo già il fiore che si volge verso la finestra, la finestra attraverso
cui il sole manda il suo raggio in questa camera di morte.
(S. Wiesenthal, Il girasole)